Houston abbiamo un problema. No, correggo. Avevamo.
Sì perché da quando Sam Presti ha posto fine alla telenovela-Harden, le cose in Texas vanno a meraviglia. “Datemi un giocatore di Harvard, un turco, uno con la barba da talebano e uno di Santa Fe”, questo deve aver pensato il GM di Houston. E guardando i risultati non gli si può certo dar torto. Il “Sesto-Uomo dell’anno” si è integrato benissimo nella variegata squadra texana e il nuovo ruolo di uomo franchigia sembra calzargli a pennello. Se ne sono accorti i Pistons, vittime sacrificali all’altare della Barba, autrice di 37 punti e 12 assist. Cifre da capogiro che ha Houston non vedevano dal 1996, quando debuttava un tale, un “signor nessuno”, che rispondeva al nome di Charles Barkley, con 20 punti e 33-dicasi-trentatre rimbalzi.
“Vediamo se riesco a fare meglio”, deve aver pensato James Harden.
Di pensieri però non ne aveva poi molti considerando la fluidità del suo gioco e, come ha fatto notate il coach dei Rockets, Kevin McHale: “He is gifted, when a lot of stuff happens like this, you may go and try too hard. He is just going to have to relax and play and he’ll be fine”.
Tutto sta nella mente del giocatore, e il coach lo sa, e forse non è un caso che l’abbia tenuto in campo 44 minuti anche se Houston non è mai stata realmente in pericolo: dovrà essere sempre più leader in questa squadra, il suo ruolo è cambiato dentro e fuori dal campo.
Gli viene richiesta una maggiore responsabilità offensiva, e come ci si attendeva Harden ha risposto pronto e preparato: si è preso 25 tiri, un numero che ad OKC neanche conosceva e, cosa importante, ne ha segnati 14, la maggior parte nel modo che preferisce, correndo e tagliando la difesa come burro. Se a questa suntuosa prestazione aggiungiamo 12 assist e 6 rimbalzi e un compagno di reparto, al secolo Jeremy “from NYC with love” Lin, che registra 12 punti, 8 assist e 4 rimbalzi, la vittoria dei texani appare quasi scontata. La festa la completano il turco Asik e l’argentino di Santa Fe Carlos Delfino, autori di 12 punti e 9 rimbalzi il primo e di 15 e 7 rimbalzi il secondo. Insomma, tutto gira per il verso giusto e già i più coraggiosi si lanciano in previsioni spericolate su playoffs, contender e paragoni. E’ stata giocata solo la prima partita di una lunga stagione, ma se le cose dovessero continuare così, STAY TUNED, perché ad Ovest i Razzi hanno acceso i motori, e chi meglio di loro sa che “the sky is the limit”?
Nell’NBA le squadre che risorgono dalle ceneri come Houston sono all’ordine del giorno, vedasi i Thunder provenienti da Seattle, i Clippers, la Miami post-2006 o i Sixers post-Iverson. Ma c’è una squadra che non sembra mai destinata a crollare, che ogni anno ci tiene col fiato sospeso, una squadra che predica pallacanestro: i San Antonio Spurs.
Una franchigia che definire magica è poco, gli Spurs vengono dati per spacciati ogni hanno dal 2008, ma regolarmente ci hanno sorpresi. L’anno scorso erano troppo vecchi per reggere il ritmo delle 62 partite in 124 giorni, e invece hanno tenuto aperta una striscia di 40 vittorie consecutive fino alla serie con i Thunder, dove erano in vantaggio 2-0 e sono usciti 2-4. Avranno la forza di continuare a competere per il titolo? Questa era la domanda nell’offseason appena terminata.
Lasciando perdere i posteri e le ardue sentenze poiché neanche loro saprebbero rispondere ad un tale interrogativo e guardando ad oggi, gli Spurs sembrano tornati quelli del 2005. La chiave di tutto è come sempre il duo più enigmatico e indecifrabile di sempre, Duncan e Popovich. Sì perché se in campo molti palloni dipendono dal sempre più realizzatore Tony Parker, gli equilibri che realmente tengono in piedi il mondo Spurs sono dettati dal caraibico e da coach Pop.
E di mondo vero e proprio si tratta poiché a San Antonio non si fa parte di una normale squadra, si è parte di un sistema molto complesso, una filosofia di vita e di gioco, che fa dell’umiltà della sua superstar e dell’allenamento ferreo imposto da Popovich le armi vincenti della pallacanestro più bella di tutta l’NBA.
E qualcosa di magico ci dev’essere davvero visto le incredibili cose che riescono a realizzare i neroargento: Leonard è sempre più considerato una “steal of draft”, Duncan non sembra conoscere la propria età e gioca come un ragazzino(si chieda ad Ibaka, posterizzato all’AT&T Center), Boris Diaw è rinato e Jackson ha messo la testa a posto.
Al secondo atto della stagione a pagare dazio è toccato ai Thunder nella loro Opening night, come prima di loro gli Hornets, e il copione non è cambiato: tiro decisivo in mano al solito e freddo francese che non sbaglia mai quando conta e retina che si muove.
Niente di nuovo sotto il sole del Texas direte voi. Ed avete ragione, tuttavia qualcosa è cambiato. L’assenza di Ginobili? No, in un sistema come quello degli Spurs gli interpreti hanno un’importanza relativa, come detto prima, la vera cosa che conta è l’asse Tim-Pop. E cosa è cambiato allora?
La percezione che hanno di loro stessi queste leggende del basket. Sì perché Parker, Ginobili, Duncan e Pop sanno quanto segna il contachilometri, lo sanno solo loro, ma è un dato che uomini di una qual certa intelligenza come loro non sottovalutano. E vedere Duncan giocare così, spiegando pallacanestro, è un monito per gli avversari, un messaggio a non darli per morti quest’anno, perché loro daranno battaglia. Sono fatti così gli Spurs. Proprio come Tim e Pop, parlano poco, perché preferiscono agire. E guidare con l’esempio.
Non ci è dato sapere se realmente riusciranno ad accedere alle Finals, ma l’argentino da Baja Blanca, il francese che ha giocato le Olimpiadi mezzo cieco e il nuotatore caraibico non è gente che si accontenta. Attenzione agli speroni, quest’anno sembrano più affilati del solito.
C’è da divertirsi in Texas quest’anno, garantito.
Matteo Manganiello