Categorie: Editoriali NBA

Utah Jazz, the sound of silence. Quando a scrivere la storia sono i perdenti.

Non ha poi tutti i torti chi afferma che a scrivere la storia siano solo i vincitori. Se poi hai di fronte uno dei più grandi vincenti di ogni epoca, bè, allora le chance le perdi in partenza. Ma di eccezioni che confermano le regole ne esistono. Eccome se esistono. E a volte arrivano dai luoghi più impensati. Gli Utah Jazz, sono una di queste eccezioni.

Diciamo che non si fa molta fatica ad intuire quanto il nomignolo “Jazz” non sia per nulla concordante con lo stato dello Utah. Al principio, nell’anno 1974, vennero fondati i New Orleans Jazz. Ora si inizia a capire qualche collegamento. Diciottesima squadra a iscriversi alla Nba, prende il nome da quello strampalato tanto quanto avanguardistico stile musicale nato proprio nella principale città della Louisiana. Iniziano subito col botto: acquisicono Pete Maravich (conosciuto ai più come “Pistol”) dagli Atlanta Hawks in cambio di sole scelte al draft. Ma per i successivi tre anni consecutivi. E purtroppo Maravich, monumentale playmaker della storia del gioco, dovette fare i conti con una serie di infortuni al ginocchio, che lo limitarono per l’intera carriera. Oltre al problema tecnico-tattico che si creò senza Maravich in campo, i Jazz dovettero affrontare anche una serie di problemi logistici. Abbandonato il palazzetto della Loyola University, nel quale si giocava con una rete di protezione intorno al campo per il troppo ristretto spazio tra parquet e tribuna (spazio che oggi, a confronto, si può definire solo ristretto) la situazione non migliorò nemmeno con il trasferimento al Louisiana Superdome, in quanto si trattava di una struttura lussuosa molto ambita da una sconfinata serie di società sportive. Ma la beffa più grande degli allora New Orleans Jazz ebbe come protagonista colui che forse, più di tutti, ha rivoluzionato la storia del gioco più bello del mondo. Earvin Magic Johnson, chiamato con la scelta numero uno dei Lakers al draft 1979. Scelta ceduta proprio dai Jazz in cambio di Gail Goodrich. Per il quale cedettero pure i diritti su Moses Malone. Non proprio un inizio da vincenti, insomma.

Seppur molto affascinante, la vita a New Orleans era troppo cara per l’allora proprietario della franchigia Sam Battisone. Sull’intero entertainment della città gravava una pesante “tassa sul divertimento”, principale motivo del trasferimento della franchigia nello stato caoticamente opposto dello Utah. Dalla terra della musica, della fanfara quotidiana, alla terra del silenzio. “From the sound of Jazz, to the sound of Sielence“. Lo stato dello Utah deve il suo nome pricipalmente alla tribù indiana che lo abitava prima dell’arrivo dei mormoni: i Paiute. Uno stato sperduto tra la Monument Valley, che definirlo uno dei paesaggi più caratterizzanti dell’intero panorama americano è quasi dispregiativo. Precisamente la località scelta fu Salt Lake City, o “This Is The Place“, come l’incisione scritta su una pietra dai mormoni che per primi vi si stabilirono. Seppur Salt Lake City sia una città abbastanza moderna, il rischio di tale trasferimento era uno solo: la poca appetibilità di giocare in una città che non era proprio sotto i riflettori della ribalta.

Premiati con la seconda scelta assoluta al draft del 1980, con la quale pescarono la giovane guardia Darrell Griffith, i nuovi Utah Jazz non riuscirono comunque ad andare oltre le ventiquattro vittorie stagionali. L’allora coach Tom Nissalke venne esonerato, ma il problema stava nella società, che sprecò l’ennesima scelta al draft. Questa volta parliamo di Dominique Wilkins, che venne ceduto ad Atlanta per poter abbassare il monte ingaggi della squadra. La prima stagione significativa per i Jazz, arrivò quasi per miracolo nel 1983-1984, quando, grazie ad un sano Adrian Dantlety, la squadra concluse con un record di 45-37, vincendo la Midwest Division. Primo titolo della storia della franchigia.

La svolta arriva al draft del 1985. Gli Utah Jazz scelgono, con la tredicesima assoluta, tale Karl Malone. Ma fino a che gli dei del basket non andranno in gita alla monument valley, Malone resterà solo tassello incompleto: affinchè ciò che l’universo aveva previsto per i Jazz avvenisse, bisognerà aspettare lo sciagurato infortunio di Ricky Green. Che, col senno di poi, da sciagurato divenne anche troppo fortunoso. Fu in quella sera che Malone diventò il punto di rifermiento della squadra, trovando nel sostituto di Dantley, altro tale Stockton, un collaboratore più che essenziale, indispensabile. I Jazz, fondato questo nuovo asse Play-Pivot, infiammarono la lega, facendo riscoprire a tutti quel Pick&Roll che per anni fece impazzire le difese avversarie. Silenziosi, in campo si creava un’alchimia pressochè inimitabile. Un’intesa fatta di sguardi, di volontà, di fiducia. Karl sapeva che John l’avvrebbe cercato in post. John sapeva che Karl avrebbe segnato dopo un suo passaggio.

Per completare il cerchio, la squadra venne affidata a Coach Jerry Sloan, ex Chicago Bulls. E come se il destino non avesse scherzatoabbastanza con questa franchigia, furono proprio i Bulls a tenerla fuori dalla storia delle vincenti. Per ben due volte. Anni 1997-1998. Per i cultori (ma anche no) di questo sport, si sa alla perfezione cosa sarà scritto nelle prossime righe. Gli Utah Jazz, una delle più grandi squadre dell’epoca, furono sconfitti in finale Nba per due anni consecutivi da His Airness. A nulla servì l’immarcabilità di Malone in post, annullato da un epico Scottie Pippen, e nemmeno il talento fuori dal comune di quel play di Spokane (Washington) che pure condusse due strepitose serie finali. Jordan, quella sera del 14 Giugno 1998, gara 6, non ebbe in mano solamente le redini del gioco. Quella sera divenne il più vincente di sempre, delegandosi il diritto di scrivere la storia dalla parte della ragione, con l’azione che verrà ricordata e tramandata ai posteri come “The Shot“. Ma una cosa rimarrà sempre silenziosamente impressa come l’incisione su quella pietra a Salt lake city. Il “Sound of Sielence” dello Utah non sta solo nei paesaggi dimenticati da Dio di quella terra, ma anche all’interno di quell’intesa silenziosa mai vista creatasi tra Stockton e Malone, grazie ai quali, quell’anno, gli Utah Jazz scrissero la storia. Anche da perdenti.

 

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