“It’s about damn time. It’s about damn time”. Le prime parole di Lebron da neolaureato campione Nba risuonano nell’American Airlines Arena. Parole che portano con sé la gioia della consacrazione, al di là di tutte le polemiche, di tutte le critiche che l’avevano assalito dopo la fatidica “Decision”. Accusato di essere scappato da una franchigia che non aveva i mezzi per portarlo a vincere un titolo Nba, di non essere all’altezza di altri grandi campioni nei momenti decisivi e di essere persino poco maturo dopo aver saltato i saluti di rito durante le finali 2011 perse contro i Mavs, Lebron si è preso una bella rivincita l’estate scorsa. Ovviamente, tante le critiche quanti i paragoni. Accostato più volte ad uno degli Dei del Basket, tale His Airness (per esteso leggasi Michael Jordan); oppure ad un 5-roles player come un’altra leggenda dai colori giallo-viola, un certo Magic che per esteso emoziona sempre più il soprannome; “that’s why this kid is special”. Ma ora che è diventato il più giovane giocatore della storia a raggiungere quota ventimila punti in carriera, definire Lebron accostandolo a giocatori del passato può essere affascinante quanto perfido, in quanto si rischia di sminuirlo dalla categoria di giocatori (come quelli sopracitati) che hanno riscritto le regole del gioco. Letteralmente.
Usciamo dal parquet per un secondo e apriamo la nostra visione del mondo sportivo in generale, cercando quegli sportivi che hanno segnato le loro epoche grazie ad una rivoluzione culturale e mentale, senza prima farsi accecare dall’abbagliante luce delle vittorie personali. Forse riusciamo a vedere Pelé che segna in rovesciata, o un Muhammad Ali che tira ganci non solo contro un avversario sul ring, ma contro i pregiudizi sui neri d’America. Intravediamo un rimbalzo di Bill Russel, la dinastia più vincente di sempre, un sorpasso di Ayrton. E ancora, Maradona, Joe DiMaggio che segna un fuoricampo, Joe Montana che lancia dalle proprie 30 yards. Chamberlain che ne mette 100. Doctor J. che porta l’innovazione della spettacolarità, tramandata di generazione in generazione, evolutasi in Mj, ad oggi ritenuto uno tra i più grande sportivo di sempre, non solo dai baskettofili. E cosa c’entra James con tutte queste Legends? Adesso è ancora presto per parlare. Ma probabilmente, stiamo assistendo all’evoluzione di una specie. Non si tratta più di essere tecnicamente portati in uno sport piuttosto che un altro. Qui si parla della legge del più forte. E Lebron l’ha assimilata e fatta sua come nessun altro. Oggi, come per Jordan ieri, sembra che il campo sia il suo habitat naturale. Lui, ovviamente, è il leone. Gli avversari le sue prede. Ci fa l’amore con quella palla, in un misto di poesia e armonia che diventano espressione di potenza. Partita dopo partita, è lui a dettare i ritmi del gioco, come fosse in grado di decidere quando e come vincere qualsiasi sfida. Molti hanno la sua tecnica, molti addirittura sono migliori di lui. Ma nessuno ha il suo fisico, la sua determinazione, la sua intelligenza, la sua maestosità nel dominarlo, quel parquet. Quanti sportivi, ad oggi, hanno questo dono? Un giamaicano di nome Usain, un tedesco di nome Sebastian, un argentino di nome Lionel. Ma quanti hanno vinto ciò che si è guadagnato lui in un solo anno? Mvp della regular season, Mvp all’All Star game, Campione Nba, Mvp delle Finals. E non dimentichiamoci la medaglia d’oro alle olimpiadi di Londra (senza entrare in paragoni con il vero Dream Team, ricordiamo che la Spagna dell’italianissimo Sacriolo è stata davvero ostica come avversaria). En plein. Se sei al suo livello tecnicamente, ti batte per forza; se sei più forte di lui, ti affonda con la tecnica. E se per caso sei migliore di lui in entrambe queste abilità, ti aspetta al varco dell’intelligenza cestistica dettata dal genio (dove per genio si intende velocità di ricezione/elaborazione/esecuzione) di un marziano.
Se pensiamo per un attimo da dove è partito, per raggiungere questi levelli di maturità non solo cestistica, Lebron è qualcosa di più unico che
raro. Una storia come tante? Non proprio se si è abituati ad uno sport banalmente monotono. Ma il basket non lo è, per fortuna. Di storie come la sua ce ne sono una marea. Ma le onde che si infrangono sugli scogli della perdizione data dalla celebrità ce ne sono ancora di più, come ci insegna il celeberrimo film “He Got Game”. Nato il 30 Dicembre 1984, in quel di Elizabeth Park, Akron. Non la città dei sogni dove crescere un bambino, specialmente se in mancanza di padre (quello naturale morì in un incidente, anche se in qualsiasi caso ci sarebbe entrato ben poco nella vita del piccolo Lebron), e una madre, Gloria, che “lasciamo perdere” sarebbe la definizione più adatta. Mettiamo anche che ha cambiato solo cinque case in sette anni. E poi dimentichiamoci tutto questo grazie a nonna Freda, che lo coprì dai pericoli dell’infanzia con il bene che solo una donna d’altri tempi sa fare, e Eddie Jackson, fidanzato di sua madre che per primo gli mise in mano un pallone a spicchi all’età di tre anni. Adesso però torniamo alla realtà. A Lebron vengono sottratti entrambi: l’una per motivi naturali, l’altro per motivi legali. Nel frattempo Gloria si intrattiene troppo tempo nelle sale di tribunali per un ragazzino di quell’età. Ragazzino che forse per volere di quegli Dei del basket, non verrà mai coinvolto negli scandali di sua madre, restando come estraniato da questa realtà. Cresce giocando a basket, e la sera del 25 marzo 1999 porta in trionfo i suoi Irish con un 27-0 in stagione. Diventa “The Choosen One”. Il prescelto. Viene difatti scelto alla prima assoluta dai “suoi” Cavs” nell’idolatrato Draft Nba 2003. Grazie a KingJames, Cleveland passa dall’essere “The Mistake on the Lake” ad una franchigia che arriva per la prima volta nella sua storia a giocarsi l’anello nel 2007 (affondando contro i signori Spurs), e domina con il miglior record della lega nella season 2008-2009. Purtroppo per l’Ohio, però, nell’estate 2010 James capisce di non avere il supporto della società, che non ha intenzione di costruire una squadra capace di arrivare fino in fondo ancora una volta. È tempo di scegliere. Cavalca l’onda di “The Decision”, programma in diretta nazionale che non attira altro che critiche su critiche (perchè si sa, di Decision ce ne stata e ce ne sarà sempre una soltanto). Alla sua frase: «I will take my talents to South Beach» scatena i tifosi dei Cavs, che si rivoltano in strada bruciando le loro maglie col numero 23. La franchigia, abbandonata dal figliol prodigo, ribalta il bilancio stagionale da 61-21 a 19-63 l’anno successivo.
Miami è storia recente: la finale persa contro Dallas è un recente passato, le promesse dei “non uno, non due non tre, non quattro…” titoli Nba sono il recente futuro della lega. Ora ci tocca stare a vedere se il futuro si farà dominare da LBJ, se un giorno ai nostri filgli racconteremo di essere stati svegli di notte per emozionarci mentre alza il Larry O’Brien come nessun altro ha mai fatto. Di sicuro, non possiamo fare altro che esserne “Witnesses”. Testimoni.
SEGUITECI SU FB: https://www.facebook.com/NbaReligion
SEGUITECI SU TWITTER: https://twitter.com/NbaReligion