Gara 4. Lo Staples è una bolgia. I 18.997 spettatori paganti esplodono di gioia. Dall’altra parte della California, nella capitale, le persone riunite nei pub si guardano in faccia, lacrimano, non capiscono, o melgio… capiscono di aver perso un’occasione d’oro. Quella costruita pazientemente anno dopo anno, con l’arrangiamento di un roster sapiente, equilibrato, ma ancor più divertente e devastante. Capace di DOMINARE la regular season 2002. Tornando a noi. La sirena strilla, come il tifoso di Sacramento, ma non di gioia. Robert Horry con le mani al cielo, ha appena pulito la retina con il suo, fottutissimo solito, Big Shot. Stavolta l’ha combinata grossa. Ha rimesso in piedi la finale di Western Conference 2002. Prima di quel tiro i Sacramento Kings comandavano 2-1, ma Horry si sà, è uno che non perdona. Da quel momento in poi la serie assume ancora più pathos, ma finisce come peggio non poteva per il tifoso di Sacramento. Prima i Kings all’ARCO Arena si ri-portano nuovamente in vantaggio (3-2), ma in gara 6 (sciagurata e contestata per i 27 tiri liberi concessi ai Lakers nel solo quarto/quarto e conseguente confessione dell’arbitro Tim Donaghy, reo di aver indirizzato la serie verso i gialloviola su ordine della lega, ndr) e 7 vengono nuovamente sconfitti. Il “Greatest show on Court” è terminato. Anzi meglio correggere.. dopo il grave infortunio al ginocchio di Chris Webber (non tornerà più il giocatore esplosivo visto precedentemente) a ridosso dei playoffs 2003, finisce l’epoca dei temibili Sacramento Kings, che da lì in poi effettuarono sporadiche comparse (2) nei playoffs. Il sogno di quel titolo NBA, conquistato solo una volta nell’ormai lontano 1951 ai tempi dei Royals, svanì con tutta probabilità a causa di quel ‘fottutissimo’ tiro di Rober Horry, che di championship ne conta ben 7, tanto per capire quanto poco decisivo era il suo apporto. Ma in questo caso, e non ce ne vogliano i tifosi dei Lakers, ci sentiamo di dire che quell’anello, quello del 2002, assume più un colore bianco-viola che giallo-viola. Lo si deve alla sacralità del gioco, allo show di basket più bello mai visto su un parquet, ma soprattutto ai circa 407.018 tifosi di Sacramento che la notte del 26 maggio 2002 (e non solo), hanno pianto lacrime amare. Il tifoso medio NBA, colui che è nato, malato (di tifo), negli anni 80’s non può certo non aver apprezzato le gesta della squadra allenata da Rick Adelman e composta da elementi come Michael “Mike” Bibby, Bobby Jackson, Predrag ‘Peja’ Stojakovic, Doug Christie, Christopher “Chris” Webber, Vlade Divac, Hidayet ‘Hedo’ Turkoglu, Scot Pollard, Gerald Wallace… attori-protagonisti di un’epoca che, come nelle grandi storie, li ha visti battagliare e perdere, ma certo a testa alta. E se sei ricordato, nonostante la sconfitta, vuol dire che il segno lo hai lasciato. Nel bene o nel male che sia.
Dal 2003-2004 in poi è stato tutto un susseguirsi di stagioni deludenti, a dir poco. Si è sfiorato l’imbarazzo con il 17-65 di poche stagioni fa, fino a quella dell’anno scorso. L’intento lodevole di ricostruire qualcosa di irricostruibile come i Kings dei “meravigliosi”, lo sconcerto di una lega, e forse del mondo dello sport, che fa prevalere il dollaro sulla passione del tifoso, soprattutto se frustrato come quello di Sacramento, sta ora portando la proprietà alla vendita (con felicità da parte degli abitanti di Seattle) di una franchigia storica, presente nella capitale californiana dall’ormai lontano 1985. Riassumendo il tutto: 30 anni di storia, uno di gloria (mancata)… e 500mila Re con la corona tinteggiata di bianco-viola, colore del loro cuore. Colore dei Re di Sacramento.
“They will always be our Kings”
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