Tutti abbiamo iniziato a praticare uno sport per un determinato motivo. Chi per rimettersi in forma, chi perché spinto dai genitori, chi per impegnare un po’ di tempo troppo libero, chi per divertirsi. Ma nessuno ha mai pensato di iniziare uno sport solo per vincere qualcosa. Eppure, le migliori vittorie arrivano solo se ci si diverte. le due condizioni sono legate indissolubilmente a tutti i livelli: non c’è vittoria senza divertimento. Ok, anche impegno, voglia, determinazione, coraggio, fortuna. Ma il divertimento è a prescindere. Se non c’è il divertimento, gli altri fattori non hanno nemmeno senso di esistere. Forse è questo il punto focale della squadra rivelazione dell’anno. Perché nella baia est di San Francisco, più precisamente Oakland, si vince innanzitutto divertendosi. Per i Golden State Warriors, quest’anno è come fare surf sulla Malibù Beach ogni partita.
Finalmente qualcosa ha iniziato a funzionare. Qualche alchimia si è sbloccata per la squadra lasciata orfana dai grandi campioni che vi giocavano nel 2007, quando nei playoffs sconfissero i Mavericks (arrivati dalla finale dell’anno precedente contro Miami) e i Jazz di Williams e Boozer, la riproposizione più surreale di Stockton e Malone che si sia vista in epoca recente. La Oracle Arena, ai tempi, osannava giocatori del calibro di Baron Davis, Al Harrington, Matt Barnes, Stephen Jackson, Jason Richardson, tutti guidati da uno storico Don Nelson. Ah, c’era pure un certo Monta Ellis ancora semi-sconosciuto. Dopo il 2007, come succede in tante belle storie sportive, qualche scelta un pò azzardata ha buttato all’aria la franchigia. No, non è assolutamente la scelta al draft di Belinelli, ma la cessione di Richardson ai Bobcats in cambio della ottava scelta assoluta: Brandan Wright, mai andato oltre agli otto punti di media a stagione. Per qualcosa di buono, bisognerà aspettare fino a questa stagione. Sì, perché le speranze su Stephen Curry hanno avuto i loro alti e bassi fin dal suo primo anno nella lega, oltre che alla cessione dell’astro nascente Ellis in cambio di un sempre buon giocatore come Bogut. E l’arrivo di David Lee non è stato mai del tutto convincente. Come detto, tutto fino a quest’anno.
“It’s fun!” definizione pressoché perfetta quella di Jarrett Jack per il gioco dei Warriors. Cosa lo fa capire? Bè, se ti ritrovi in squadra due candidati per il titolo di sesto uomo dell’anno come il sopra citato Jack (12.8 punti e 5.8 assist di media) e l’ala Carl Landry (12 punti e 6.7 rimbalzi di media), vuol dire che c’è qualcosa di più di un semplice schema a guidare il gioco dei Warriors. “Siamo davvero una squadra molto unita. Tutti quanti ci riteniamo prima di tutto degli amici, e quando si viene a creare questo cameratismo, giocare con i tuoi compagni diventa tutt’altra cosa: per loro saresti disposto a dare il massimo, ti butteresti su ogni palla vagante, lo aiuteresti in difesa, o in un confronto sul campo. Non mi era mai successo prima” ha continuato Jack. D’altrone, il loro record di 28-17 parla chiaro: squadra da playoffs e magari da finale di conference. Con un Curry da 21 punti, 6.4 assist e 3.9 rimbalzi di media, e pure una percentuale al tiro del 47% (44% da dietro l’arco) non è poi così illogico sognare. Se aggiungiamo un David Lee da 19.6 punti, 10.9 rimbalzi e il 53% dal campo, il sognare diventa immaginare. Tutt’altra cosa.
Un miracolo? può darsi, dato che ci troviamo di fronte ad una franchigia mirata al futuro. Oltre al cospicuo numero di Rookie e Shopmore presenti in squadra (che vengono trattati con solidarietà dalla vecchia guardia, come spesso non avviene nelle altre squadre) i Warriors sono intenzionati a trasferirsi a San Francisco entro il 2017, e raggiungere quindi il vero e proprio centro dello stato del sole. Il progetto della nuova Arena proprio a San Francisco è difatti stato approvato, e tutti sono in fermento per questo piano di riportare un pò dello sprizzante surf giocato da questi Warriors nel centro della città.
Giovani, solidi, coesi, uniti. E in fondo, tutti un po’ surfisti.