“With the sixth pick, in the 2006 NBA Draft, the Minnesota Timberwolves select….Brandon Roy, from Washington University”.
Brandon si immaginava questo momento da tanto tempo. Un sogno comune, si sa, a milioni di ragazzini, americani e non, e anche lui non rappresentava di certo un’eccezione. Immediatamente girato la notte del Draft ai Portland Trail Blazers, Roy si era trovato di colpo nel roster di una formazione giovane e dalle buone prospettive, agli ordini di coach Nate McMillan.
Il primo anno era stato costellato da tante luci, come la vittoria del Rookie of the year davanti ad Andrea Bargnani, e da qualche piccola ombra di certo non imputabile a Roy stesso, come l’infortunio che lo aveva tenuto fuori per una ventina di gare.
Nell’anno da sophomore, Brandon dimostrò al mondo NBA di che pasta fosse fatto. Dopo un avvio stentato, guidò i Blazers, orfani di Greg Oden, ad una grande nonché inaspettata stagione, sfiorando i playoffs nella tremenda Western Conference. Sul piano personale, Roy venne scelto per partecipare all’All Star Game 2008 di New Orleans, primo giocatore di Portland dai tempi di Rasheed Wallace. La partecipazione alla parate delle stelle venne bissata l’anno successivo ma, cosa ben più importante, Brandon trascinò Portland alla postseason dopo 6 anni di digiuno.
I guai per la giovane guardia nata a Seattle incominciarono durante le ultime partite della stagione seguente, dopo la terza partecipazione consecutiva all’All Star Game. Problemi fisici ad un ginocchio gli fecero perdere, infatti, gran parte della serie del primo turno contro i Suns, poi vittoriosi. I tifosi della Rip City si augurarono che fosse un semplice, seppur doloroso, incidente di percorso. Non volevano che Roy si aggiungesse alla malaugurata lista di infortunati eccellenti in maglia Blazers, capeggiata principalmente da Sam Bowie e Oden stesso. Purtroppo per Brandon, la primavera del 2010 era l’inizio del suo personalissimo calvario.
Le ginocchia, entrambe, lo tradirono all’inizio della stagione successiva. Fu un annata particolare per i Blazers e per Roy, costretto a saltare quasi la metà delle partite e ad accettare un ruolo da panchinaro, al fine di preservarne l’integrità fisica. Portland riuscì comunque a centrare i playoffs, dove avrebbe sfidato Dallas e Dirk Nowitzki. Gara 4 costituisce, probabilmente, uno dei momenti sportivi più emozionanti degli ultimi anni. Sotto 67-44, i Trail Blazers avevano il look di chi ormai aveva riposto le speranze di vittoria in un metaforico cassetto. Roy stava disputando l’ennesima gara abulica, sempre per colpa di quelle maledette ginocchia. Quello che prese forma nell’ultimo quarto rimarrà a lungo nella memoria dei suoi tifosi. Trovando energie e forma fisica fino ad allora sconosciute, Brandon segnò 18 punti nel solo ultimo quarto, compresi i tiri decisivi della impronosticabile vittoria per 84-82, valevole per il 2-2 nella serie.
Chi si aspettava un finale Hollywoodiano, però, ci rimase molto deluso. Portland perse la serie, ma soprattutto, perse Brandon Roy. Quelli furono gli ultimi tiri segnati in maglia Blazers. Prima del training camp successivo, nell’annata del lockout, Roy, a soli 27 anni, annuncia il proprio ritiro a causa di problemi sempre più crescenti alle ginocchia, non più in grado, secondi i medici, di sostenere l’onda d’urto di 82 partite all’anno. La decisione, del tutto inattesa nonostante gli evidenti segnali del 2010-11, lasciò interdetti i tifosi e gli stessi compagni di squadra. Nonostante le grandi manifestazioni d’affetto, la dirigenza dei Blazers fu costretta ad usare l’amnesty clause, tagliando di fatto il giocatore.
Tutto finito e titoli di coda? Per niente. Nell’estate del 2012, dopo essersi consultato con vari specialisti del settore, Brandon Roy annunciò il suo ritorno nell’NBA grazie ai Minnesota Timberwolves, proprio la squadra che, per i corsi e i ricorsi storici, l’aveva draftato sei anni prima. Quintetto base garantito nella squadra di Rubio e Love (anche loro alle prese tra l’altro con gravi infortuni) e grandi prospettive per un gruppo giovane, una situazione molto simile a quella di Portland di alcuni anni prima.
Finalmente un happy ending in questa tormentata storia di infortuni? Purtroppo, anche per questa volta gli “appassionati del genere” non hanno trovato pane per i propri denti. Dopo le prime cinque gare era chiaro a tutti che Roy continuasse ad avere problemi, sempre in quelle maledette ginocchia. Così, per l’ennesima volta, altro intervento, atto a cercare di migliorare la situazione. Il recupero è stato lento, con gli appassionati a chiedersi quando sarebbe stato il suo rientro sul parquet. A complicare ulteriormente la situazione, nei primi giorni di Febbraio, durante un allenamento, Brandon ha sentito, di nuovo, un dolore al ginocchio.
La situazione, come ha ammesso lo stesso giocatore in un’intervista per la stampa americana, è ad un crocevia decisivo. Frustrato dall’ennesima ricaduta, Roy ha ammesso di aver pensato immediatamente al ritiro non appena avvertito il dolore. Nonostante ciò, la guardia ha anche aggiunto che tale opzione non sarebbe così difficile da scegliere se paragonata a quella del Dicembre del 2011.
Le prossime settimane saranno fondamentali. La speranza, si sa, è sempre l’ultima a morire. L’augurio di tutti è che le ginocchia diano finalmente tregua a Roy, concedendo una fine di carriera ancor più dignitosa ad un giocatore che aveva dimostrato di essere speciale nei suoi anni a Portland.
Alessandro Scuto