Il 15 Maggio 1998 è una data che l’America difficilmente scorderà.
In quel venerdì il cuore di Frank Sinatra smise di battere e nello stesso giorno venne a mancare anche il più grande giocatore che i playground newyorchesi avessero mai ospitato: Earl Manigault.
10 anni posso essere un lasso di tempo laconico o al contrario un’eternità; ovviamente dipende dall’obiettivo che ci poniamo e da cosa si prestano a rappresentare. In questo caso il riferimento è al periodo che fu necessario ad Earl per passare dall’essere un signor nessuno al divenire il re incontrastato di Harlem. Ma andiamo con ordine.
Corre l’anno 1944, siamo nella Carolina del Sud, una famiglia da alla luce il suo nonogenito, la situazione economica non è delle migliori e il bambino viene quindi abbandonato; sarà adottato da Mary Manigault che con lui si trasferirà ad Harlem.
Proprio nel difficile quartiere della Grande Mela si svolgerà gran parte della storia, o meglio della leggenda, di questo ragazzo che sfidava letteralmente le leggi della fisica e la forza di gravità.
In certi racconti non si riesce mai a capire il confine tra realtà e fantasia, tra fatti realmente accaduti e leggende metropolitane. Sulle gesta di Earl tramandate ai posteri restano infatti molte perplessità, non è pensabile che un ragazzo di un metro e 82 riuscisse a raccogliere le monete dalla parte superiore del tabellone semplicemente saltando. Certo che se queste prodezze vengono avvalorate dalla parola di tale Lew Alcindor (meglio noto come Kareem Abdul Jabbar), in linea di massima risultano incontestabili e quantomeno credibili.
I soldi mancano e quel ragazzo che gira per strada con i pesi alle caviglie, prova a racimolarli con sfide al campetto, oltre alla già citata “raccolta di danari sopra al tabellone”, esegue un numero consecutivo di schiacciate reverse in cambio di qualche dollaro: un giorno se ne contarono 36! Si, esatto 36 inchiodate consecutive per 60 dollari.
Il mito di “The Goat” si sviluppa su due strade: quella dei playground e quella dell’high-school.
A livello scolastico gioca per Franklin High School, squadra che nel ’65 condurrà alla vittoria del New York City Public School Championship. Purtroppo non potrà giocare la finalissima poiché espulso, dopo essere stato sorpreso a fumare uno spinello. La finalissima era contro la Power Memorial High School, detentrice del titolo relativo alle scuole cattoliche della Big Apple; la squadra era condotta dal già citato Kareem, che tornerà anche in seguito ad essere gradito ospite di questa storia.
Nei playground, Earl, gioca per gli Young Life, squadra che raccoglieva i più forti cestisti di Harlem. La serie di vittorie consecutive di quel team risulta tuttora inquantificabile.
Qui nasce il soprannome “The Goat”, nomignolo dalla duplice valenza; infatti letteralmente la traduzione risulta essere “il caprone” ma al tempo stesso è l’acronimo di Greatest Of All Time.
Earl Manigault viene notato da Holcombe Rucker, (si proprio quel Rucker grande scopritore di talenti) da cui prende nome il più famoso campetto di NY, che decide di investire sul ragazzo. Lo manda a studiare in North Carolina, dove tuttavia non resterà a lungo per problemi con l’allenatore dato che il basket richiesto era troppo schematico per Earl. Decide quindi di tornare ad Harlem.
Il suo ritorno a New York City lo vede subito protagonista di una di quelle giocate che vengono tramandate di padre in figlio di generazione in generazione e sono destinate quindi a restare parte del patrimonio dell’umanità.
In data 4 luglio 1966, presso Riis Beach al Queens, “The Goat” schiaccia salendo tra due avversari, guadagnando ulteriori trenta centimetri grazie ad un incredibile colpo di reni! Già raccontata così, è una giocata sensazionale, risulta in assoluto trascendentale se diamo un nome a quei due avversari: Connie Hawkins e Kareem Abdul-Jabbar.
Purtroppo nello stesso ’66 la carriera sportiva e in senso più stretto la vita di Earl iniziarono la loro discesa verso l’oblio. Icaro e la mitologia ce lo insegnano, se voli troppo vicino al sole finirai per bruciarti e da quell’altezza non resta che un inesorabile caduta nel vuoto. All’inizio il sonno diminuisce, la libido aumenta, l’euforia dilaga, poi le sindromi depressive, gli stati d’ansia, l’insonnia, la paranoia e ovviamente il bisogno, la necessità, di averne ancora. Ovviamente il riferimento è all’eroina che entrerà implacabilmente nel vissuto di Earl e che anzi diventerà la sua unica ragione di vita per un lungo periodo di tempo. I soldi per mantenere il suo vizio non c’erano e quindi passa allo spaccio e ai furti. Nel ’71 gli verrà comunque concessa la chance di giocare per gli Utah Stars nella ABA ma “The Goat” ormai non esiste più. Il mito è tornato uomo e quella che poteva divenire una leggenda si trasforma in un brutto incubo. Come intuibile l’esperienza nello Utah durerà poco e sarà fallimentare.
Earl viene arrestato e in carcere riesce finalmente a liberarsi da quel demone che da troppo tempo lo ossessionava e opprimeva, alcuni dicono che la sua redenzione sia dovuta a un libro “The city game” di Pete Axthelm che gli fu recapitato in prigione. Il libro parla dei più grandi giocatori di pallacanestro e un capitolo è dedicato proprio a “The Goat”.
Tornerà ad Harlem dove sistemerà un campetto e inizierà ad impegnarsi socialmente per impedire ad altri giovani di commettere il suo stesso errore organizzando annualmente il “The Goat Tournament Walk Away From Drugs”.
Come già detto morirà il 15 maggio 1998, a causa di un cuore ormai consumato dalla droga, era in lista per un trapianto dal ’91, trapianto che mai otterrà per i suoi trascorsi da tossicodipendente.
“The Goat” tuttavia va ricordato come una stella, una stella troppo brillante per poter risplendere insieme agli altri astri del firmamento. Quello che ci rimane di lui sono i racconti e i ricordi. L’incredibile “double dunk” che lui solo è riuscito a realizzare, ovvero schiacciare con una mano e riprendere al volo la palla appena entrata con la mano opposta e inchiodarla successivamente, il tutto restando in aria.
Ma il modo migliore in assoluto per ricordare The Goat sono le parole a fine carriera di Kareem Abdul-Jabbar, che lo ha definito il giocatore più forte che abbia mai affrontato.