Categorie: Editoriali NBA

“The importance of being Paul”!

Se Oscar Wilde fosse nato e vissuto 150 anni dopo e fosse diventato come noi amante dello sport e della Lega più bella al Mondo, non avrebbe esitato ad intitolare la sua commedia teatrale non ad un Ernesto qualsiasi, ma a Paul, quel nome (e cognome..) che in NBA, soprattutto questa stagione, sembra essere davvero importante.

Spiego brevemente da dove nasce l’idea di questa riflessione. Stavo cercando di raggruppare quante più statistiche possibile per scrivere un articolo sulle difficoltà dei Clippers, dovute all’assenza del playmaker titolare, per l’appunto Chris Paul. Per andare a scovare tendenze, numeri e percentuali di CP3 ho scritto nel motore di ricerca di NBA.com soltanto “Paul”, preoccupandomi in un secondo momento di andare a selezionare il giocatore da me ricercato. Ebbene, finita la ricerca, il pc mi ha restituito una lista di giocatori di tutto rispetto, che in un modo o nell’altro stanno segnando in positivo questo primo spezzone di Regular Season. Ed è da lì che è nata l’idea di dedicare l’articolo a loro.

Il primo della lista è certamente il nome meno altisonante dei 4, centro 28enne che ormai da 7 anni milita negli Utah Jazz, 203 centimetri di puro agonismo e voglia. Paul Millsap sa che per giocare al fianco di spilungoni molto più alti di lui bisogna mettere in mostra sul parquet qualcosa in più, qualcosa che va oltre. Ed in questa stagione, come sempre fatto finora, sta dando un contributo decisivo alla rincorsa ai playoff dei suoi Jazz.

Con i suoi 15 punti scarsi di media e i 7,3 rimbalzi a partita, sta formando assieme ad Al Jefferson una delle coppie di lunghi migliori dell’intera NBA (alla faccia dei vari Gasol e Howard). Data la distribuzione di tiro riportata di fianco, si intuisce facilmente che Millsap non sia un grande giocatore d’attacco, non disponendo di quel tiro affidabile dalla media che potrebbe renderlo realmente decisivo anche nella metà campo avversaria. Per queste ragioni concentra il 75% delle sue conclusioni a ridosso del ferro, facendo si che il suo 48,4% dal campo sia meno “positivo” di quanto si possa inizialmente supporre. Di fatto la vera differenza Millsap la fa in difesa e a rimbalzo, essendo uno di quei difensori in grado di accettare il cambio sul pick and roll, riuscendo a limitare i danni nel momento in cui si ritrova accoppiato con un piccolo, e non andando quasi mai sotto a rimbalzo nonostante la statura. Utah attualmente è settima ad Ovest, potendo vantare un record di 29 vinte e 24 perse ed avendo un calendario relativamente favorevole pensando al fatto che la maggior parte delle partite verranno giocate alla EnergySolution Arena, all’interno della quale i padroni di casa possono vantare un rassicurante 76% di vittorie. A Millsap e soci manca l’ultimo tratto, forse il più difficile, prima di raggiungere l’importante traguardo chiamato playoff ed imprese come quella messa a segno questa notte (vittoria contro i Thunder) non fanno altro che aumentare l’autostima di un gruppo che spera di prender parte alla post season.

Il secondo giocatore facente parte di questa particolare raccolta non sembra avere problemi nel raggiungere i Playoff, essendo il trascinatore e l’uomo simbolo degli Indiana Pacers, attualmente terza forza ad Est. Sto parlando di Paul George, di cui ho già scritto qualche mese fa, finalmente affermatosi come giocatore franchigia a tutti gli effetti.

L’assenza dell’ancora convalescente Granger (a giorni dovrebbe ritornare in campo) ha aperto la strada a George, al terzo anno della sua esperienza NBA, che quest’anno è finalmente riuscito a mettere in mostra tutte le sue enormi potenzialità. 17,7 pesantissimi punti a partita, considerando il fatto che Indiana ne segna 92,7 di media, classificandosi come il 28esimo attacco dell’intera NBA per punti segnati. A questo vanno aggiunti 7,7 rimbalzi (la doppia doppia è ormai abitudine nella stagione di George) e 3,8 assist (potenzialmente quindi uomo da tripla doppia, se soltanto i compagni realizzassero canestri con più continuità).

A questo il talento proveniente da Fresno State (college californiano a me sconosciuto fino a qualche minuto fa) aggiunge un’applicazione e una capacità difensiva che hanno pochi eguali. Essendo guardia tiratrice si ritrova nella propria metà campo a dover fronteggiare l’élite della Lega, da Lebron a Kobe, da Anthony a Durant. Nonostante le insormontabili difficoltà che adempire ad un compito del genere comporta, George sta riuscendo nella titanica impresa di limitare anche i più ostici avversari, risultando essere uno dei fattori determinanti dell’ottima stagione difensiva dei Pacers, i quali concedono soltanto 89,1 punti di media a partita, prima squadra NBA in questa statistica, risultando essere i migliori anche per percentuale concessa agli avversari sia dal campo (41,9%) che da  3 (32,5%).

Nonostante questo enorme sforzo nella propria metà campo, George di certo non lesina energie anche in attacco, dimostrando di essere un giocatore a 360 gradi, un giocatore completo. E’ nato nel 1990, ha ancora tutta una carriera NBA davanti e noi abbiamo la fortuna di poterci godere ancora per molti anni le sue prodezze.

Chi invece di anni a disposizione non ne ha molti, ma ancora ci sta facendo divertire parecchio è “The captain and the Truth”, al secolo Paul Pierce, protagonista dell’ennesima straordinaria stagione. Per descrivere quello che anche quest’anno il capitano dei Celtics sta mettendo in mostra sul parquet, prenderei in considerazione soltanto le ultime partite.

Dal 27 Gennaio (data del match contro Miami, coincisa con la diffusione della notizia dell’infortunio di Rondo) alla partita della scorsa notte persa contro Charlotte, i Celtics hanno disputato 8 partite, vincendone 7 nonostante l’assenza del loro playmaker titolare. La ragione? Perchè Garnett e soprattutto Pierce sono anticipatamente entrati in modalità playoff, mettendo insieme delle cifre spaventose.

Il 35enne giocatore dei Celtics sta viaggiando a 18,1 punti di media, 9,9 rimbalzi a partita e 7,4 assist. Se quella di Paul George era una tripla doppia in divenire, quella di Pierce è ormai consuetudine viste le cifre. Si è letteralmente caricato la squadra sulle spalle, conducendo Boston al settimo posto ad Est, portando il record di vittorie a 27-24.

Molto probabilmente la franchigia del Massachusetts risentirà più avanti nella stagione di questo sforzo supplementare che i suoi leader stanno facendo, però se dovessi scommettere un dollaro non darei mai per morta una squadra che fa dell’orgoglio, della tradizione e della storia, oltre che del talento, il suo vanto. Let’s Go Celtics!

Infine arriviamo a lui, colui dal quale è partita questa lunga riflessione. Quel Chris Paul che, riallacciate le stringhe dopo 9 partite d’assenza, ha riportato alla vittoria i Clippers contro i Knicks, ridando morale ad una franchigia che nelle ultime settimane ha perso molto dello spunto che ad inizio stagione li aveva portati al record franchigia di vittorie consecutive e soprattutto al primo posto della classifica ad Ovest.

L’assenza in queste settimane di CP3 è legata al riacutizzarsi di un problema che l’aveva tenuto fuori per 4 partite, portando il giocatore a forzare il recupero in tempi brevi, senza preoccuparsi della propria completa guarigione.

Di fatto però il periodo nero della franchigia meno famosa della città degli Angeli è iniziato nella baia di San Francisco, nella tana dei Golden State Warriors. Da quella partita in poi il calendario è stato poco clemente, riservando ai Clippers 9 delle 11 partite successive in trasferta, la maggior parte delle quali coincise inoltre con l’assenza di Paul. Inevitabilmente il gioco e i risultati ne hanno risentito, portando in dote un record di 3-8 che li ha fatti scendere al terzo posto in classifica, minando quelle certezze e quella convinzione che erano nate nei primi mesi di Regular Season.

La shot chart riguardante questo filotto di partite è impietosa. I Clippers hanno perso molta efficacia nei pressi del ferro (con Paul in campo si arriva molto più facilmente a schiacciare) ed anche sul perimetro, da cui la percentuale al tiro complessiva con i piedi dietro l’arco si attesta su un 33,5%, di molto inferiore rispetto a quanto fatto registrare nelle prime 41 partite della stagione. Assenza di Chris Paul, calendario difficile, lunghe trasferte. Tutto questo ha contribuito a rendere molto più sterile uno degli attacchi più prolifici dell’intera Lega. Si è passati dai 101,6 punti di media a partita ai 92,5 delle ultime 11, riducendo la percentuale totale dal campo dal 47,4% al 45,1%. Un’involuzione offensiva che tanto fa capire quanto possa essere determinante la presenza sul parquet di CP3. Cito un altro dato per cercare di rendere ancora meglio l’idea. Tra le cosiddette Advanced Metrics, cioè quelle statistiche avanzate che tengono conto in maniera pesata di ogni singolo aspetto del gioco, c’è un indicatore chiamato PIE, letteralmente Player Impact Estimate, che calcola quanto il giocatore in questione influisce sulle statistiche delle partite in cui ha giocato. In pratica è come assegnare un valore 100 ad una squadra e poi suddividerlo percentualmente tra tutti e 12 i componenti del roster, dicendo quanto ognuno di essi ha influito nel portare a casa quel risultato. Beh, la percentuale di Chris Paul è del 18,2% con punte del 19,3% nei match disputati allo Staples Center. Praticamente, senza di lui, è come se i Clippers avessero giocato 12 partite potendo disporre soltanto dell’80% della loro forza complessiva, un’ammanco enorme che soltanto in parte Bledsoe e gli altri panchinari che hanno trovato più spazio sono riusciti a colmare.

Per queste ragioni credo che non sia sbagliato parlare di una vera e propria dipendenza da Chris Paul, che rende ancora più complessa la questione contrattuale di fronte alla quale i Clippers si ritroveranno nella prossima stagione, durante la quale dovranno provare a far di tutto (come già stanno facendo) per cercare di trattenere a Los Angeles il talento proveniente da Wake Forest.

Concludo questa lunga riflessione ritornando di nuovo al punto di partenza, ad Oscar Wilde. In uno dei suoi famosi aforismi egli affermava:

“C’è una sola cosa orribile al mondo, un solo peccato imperdonabile: la noia”

State sicuri che, se state guardando un partita con uno dei Paul sul parquet, non correte di certo il rischio di diventare peccatori.

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Pubblicato da
Stefano Salerno

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