Ogni anno la routine è la stessa: regular season, playoff, titolo, premiazione, festa e consegna degli anelli per i vincitori. Agli sconfitti non restano che l’amarezza, il rimpianto e la consapevolezza di essere arrivati vicino a realizzare quel sogno che tanto bramavano ma che sfortunatamente li ha visti solo coinvolti in un brutto risveglio. Quel risveglio che non ti permette più di prendere sonno e ti lascia solo con i tuoi pensieri. Riflessioni che ti portano ad assaporare la triste e dura realtà, ma prima o poi svaniscono anche quei pochi e flebili ricordi e non resta che un vuoto incolmabile. Dopo quell’ultima fatidica gara il problema risulta rialzare la testa e ricominciare da capo per cercare di fare meglio. Tuttavia i fattori da considerare sono molti e le chance di ripetersi infinitamente basse, soprattutto in una lega dove ci sono ben altre 29 franchigie pronte a muoverti guerra. Se sei caduto ad un passo dalla vetta le tue condizioni non possono che essere peggiori rispetto a chi non ha nemmeno intrapreso la scalata. Il problema non è la caduta ma l’atterraggio e se atterri male risulta impossibile risalire. Quel nome sugli almanacchi e sugli albi d’oro fa tutta la differenza del mondo e demarca una sottile linea tra l’Olimpo e il baratro degli inferi. Il nulla.
Si sa, se non vinci niente nella tua carriera puoi essere ricordato come uno straordinario giocatore, ammesso che tu lo sia mai stato, ma in pochi ricorderanno le tue delusioni e gli insuccessi della tua squadra. Se ti chiami Iverson o Miller tutti continueranno a parlare di te ma difficilmente a distanza di anni sarà possibile rimembrare le gesta del collettivo che ti vedeva protagonista.
La storia è piena di squadre perdenti, basti pensare che attualmente solo la metà delle franchigie della National Basketball Association è riuscita ad aggiudicarsi il Larry O’Brien Championship Trophy. Tra tutte le squadre sconfitte, nel corso degli anni, una in particolare spicca per costanza e devozione verso l’insuccesso: gli Utah Jazz.
La storia dell’attuale franchigia dello stato dei mormoni parte nel 1974 da New Orleans. Louis Armstrong non suona più da tre anni per cause di forza maggiore, ma il suo ricordo vive, così come vive il jazz con tutti i suoi derivati che, con lo scorrere degli anni, sono andati ad integrare quel ritmo sincopato che ha per sempre cambiato la storia della musica, a colpi di swing, dai primi decenni del XX secolo.
Appunto nel ’74 un gruppo di investitori guidato dal socio di maggioranza Sam Battistone paga la somma di 6.15 milioni di dollari per permettere alla città festaiola per antonomasia di ospitare la diciottesima franchigia NBA, i New Orleans Jazz, lo pseudonimo venne scelto il un concorso radiofonico.
Gli investitori vollero subito far capire che le intenzioni erano serie e fecero una prima grande operazione di mercato acquistando dagli Hawks il playmaker Peter Press Maravich. Non esattamente uno qualsiasi. Se tutt’oggi il suo record di punti in NCAA è imbattuto un motivo ci deve pur essere. Pistol Pete viaggiava a 44.2 a partita a livello collegiale (superando quota 50 in 28 occasioni), piccola annotazione: il tiro da tre punti non esisteva ancora.
Il capitolo Maravich richiederebbe una storia a parte, ma il suo impatto in maglia Jazz non fu dei migliori, certo lui vinse nel ’77 il titolo di miglior marcatore NBA ma la squadra non girava e il numero delle sconfitte continuava di anno in anno ad essere superiore a quello delle vittorie. Inoltre i suoi problemi fisici erano all’ordine del giorno.
New Orleans si rivelò una scelta perdente per Battistone e soci, in primis dovettero cambiare più volte campo di gioco, la scelta cadde infine sul Louisiana Superdrome, attualmente usato dai Saints in NFL. L’impianto era superbo, forse fin troppo bello ed infatti i costi erano elevati e la concorrenza per avere la prelazione altissima. Un secondo problema era rappresentato dai già citati problemi alle ginocchia della stella Maravich. In terzo luogo New Orleans si dimostrò città inadatta, in quel momento storico, per seguire con la giusta dedizione e devozione lo sport con la palla a spicchi. Nel ’79 erano stati venduti appena 2600 abbonamenti. L’interesse nella città del jazz era per le feste non per il basket. Un esempio eclatante era il Martedì grasso ricorrenza che costringeva la franchigia NBA ogni anno a trascorrere un mese intero in trasferta per permettere i corretti festeggiamenti ai cittadini.
Quando è troppo è troppo, è ora di cambiare. Battistone e i suoi iniziarono quindi a pensare a dove trovare nuova dimora, ma prima trovarono il tempo di entrare nella storia, dalla parte sbagliata, a causa di una delle peggiori operazioni di mercato della lega. I Jazz infatti nel ’77 avevano ceduto tre scelte tra cui la prima assoluta del ’79 ai Lakers per Gail Goodrich, peccato che la presa di Los Angeles cadde su tale Earvin Johnson Jr. meglio noto come Magic. La situazione già abbastanza grave assunse risvolti tragicomici se si aggiunge al tutto che per recuperare una di quelle scelte i Jazz dovettero rinunciare ai diritti di Moses Malone.
Dopo quest’ultima débâcle in Louisiana si decise di trasferirsi nello Utah, a Salt Lake City.
La città che sorge storicamente sulle sponde del Gran Lago Salato non è il miglior luogo dove vivere, il clima ha forti escursioni termiche tra estati ed inverni, la densità demografica è bassa, l’altitudine elevata ma in questi luoghi dimenticati da Dio e abitati dai seguaci di Joseph Smith si mastica pallacanestro e questo basta agli investitori dei Jazz. Tra il ’70 e il ’76 la città aveva già ospitato con successo gli Utah Stars della ABA ma dopo il crollo finanziario di questi ultimi non ci fu più la possibilità di vedere buon basket, non necessariamente si vedrà nei primi anni di Battistone e soci a SLC.
La prima stagione nello Utah coincise con l’inizio della ricostruzione per i Jazz e con le ultime apparizioni di Pete Maravich in maglia porpora viola (solamente 17 in quell’anno). I problemi e le assenze di Pistol Pete vennero in parte compensate dall’esplosione di Adrian Dantley che chiuse con 28 punti di media l’annata, statistica che si rivelerà solamente personale visto che la squadra finirà con un record di 24 vittorie al fronte di 58 sconfitte. Non tutti i mali vengono per nuocere e “grazie” al pessimo rendimento l’ex squadra di New Orleans ricevette la seconda scelta assoluta al draft, utilizzata per prendere Darrell Griffith. Le due annate successive tuttavia non regalarono grandi soddisfazioni ai Jazz che chiusero rispettivamente con 28 e 25 vittorie le stagioni ‘80/81 e 81/’82, l’unica nota positiva fu la scoperta di un ottimo playmaker come Rickey Green. Nel Draft del 1982 gli Utah Jazz selezionarono un certo Dominique Wilkins che a causa di scarse liquidità dovettero subito girare ad Atlanta per soldi e John Drew. Una stagione che parte con la perdita di un futuro hall of famer non può essere buona ed infatti l’andamento e la sfortuna di Utah seguirono quello degli anni precedenti. Con Drew e Dudley fuori per gran parte della stagione i ragazzi di Tom Nissalke riuscirono ad ottenere solamente 30 vittorie dimostrando comunque dei miglioramenti notevoli rispetto al recente passato. L’83 fu un anno di grande incertezza, i soldi mancavano e si iniziò a pensare ad un nuovo trasferimento, tuttavia la squadra per la prima volta poteva contare sul roster completo e la differenza non tardo a mostrarsi. I Jazz chiusero la loro prima stagione vincente con un record di 45-37 aggiudicandosi la Midwest Division e sconfiggendo al primo turno di playoff i Denver Nuggets per 3-2 per poi perdere contro i Suns 4-2.
L’anno successivo i Jazz videro premiato Mark Eaton come Defensive Player Of The Year grazie ad una stagione da 9.7 punti, 11.3 rimbalzi e ben 5.56 stoppate tuttavia una volta raggiunti i playoff vennero ancora eliminati, questa volta al secondo turno dai Nuggets, dopo aver eliminato i Rockets in un’avvincente serie conclusasi 3-2. L’85 fu un’annata molto importante per la squadra di Salt Lake City, infatti metà della quota societaria venne acquisita da Larry Miller che risolse i problemi economici che da anni martoriavano le franchigia. Nel draft del medesimo anno Utah riuscì a prendere con la tredicesima chiamata Karl Malone che andò a formare con John Stockton, scelto l’anno precedente, la famosa accoppiata ben nota a tutti.
Sul finire degli anni ottanta il famoso Stockton to Malone inizia a girare, grazie anche all’arrivo di Jerry Sloan nel ruolo di head coach e i risultati si vedono e alla grande, la squadra gioca bene, vince e convince, almeno in regular season. A livello di Playoff i Jazz deludono e non poco, sia nel ’88-’89 che nel ’89-’90, infatti vengono eliminati a sorpresa al primo turno nonostante il favore del pronostico, un ottimo record stagionale e Stockton, Eaton e Malone convocati all’All Star Game. Nel primo caso i mormoni devono arrendersi ai Warriors, nel secondo i carnefici saranno i Suns.