Categorie: Editoriali NBA

Bad Boys 4 Life

We ain’t, go-in nowhere, we ain’t, goin nowhere, we can’t be stopped now,‘cause this bad boy for life” cantava, in un pezzo dal discutibile valore musicale ma di sicura presa, il buon vecchio Sean Combs sotto lo pseudonimo di Puff Daddy, o Puff Diddy, o P. Diddy, o Niddy o Puffy o chi più ne ha più metta. Chissà se l’impegnativa tematica scelta per il brano, improbabile in un testo hip hop quanto il monopolio del pallone da parte di Kobe nei minuti finali di una partita tirata, non sia stata almeno in parte suggerita dai più famosi Bad Boys del panorama NBA, i Detroit Pistons di fine anni ’80 vincitori di due titoli consecutivi (’89 e ’90). Non ci vuole l’acume di Javalone nostro per intuire che probabilmente non sia così, ma è innegabile che quella squadra, con i suoi metodi al limite della violenza privata e con atteggiamenti non esattamente propri di un chierichetto abbia contribuito a creare un nuovo modo di concepire il cattivone, odiato come sempre da molti ma ora anche amato e visto con simpatia da tanti altri, che sorvolavano sulle numerose legnate rifilate ai malcapitati avversari e ne apprezzavano invece il cuore, l’intensità agonistica, la mentalità vincente anche dopo cocenti delusioni (vedi Finals dell’88).

All’interno di questa banda di semi-delinquenti (ovviamente cestisticamente parlando, non ci permetteremmo mai, anche perché offendere gente come Laimbeer o Rodman non è probabilmente la cosa più saggia da fare) vi era un personaggio del tutto diverso, che a prima vista poteva sembrare adatto al contesto quanto Artest al MOMA e che invece ne era un elemento fondamentale. Parrebbe infatti quasi un affronto intitolare il premio della Lega per la sportività a un membro di quella squadra, eppure Joe Dumars è l’esempio lampante che i Bad Boys erano sinonimo sì di intensità mostruosa, ma (quasi) mai di scorrettezza.

Dumars quindi, per certi versi più Piston dello stesso mostro sacro Isiah, perlomeno considerando che il buon Joe ha conosciuto solo la Motown da quando è entrato nel mondo NBA. Scelto nell’85, fondamentale nella conquista dei due titoli e poi in squadra anche negli anni bui successivi alla fine del ciclo vincente, chiude la carriera nel ’99 e non fa quasi nemmeno in tempo a battere il chiodo nel muro per appendere le proverbiali scarpette che già l’anno successivo deve infilarsi camicia e cravatta e mettersi al lavoro come general manager della franchigia, in un momento diciamo non fra i più rosei della storia societaria: Grant Hill, quello che allora a Rock City fa pentole, coperchi e perché no anche la zuppa, è vicinissimo ai Magic, che vorrebbero affiancare un’altra iradiddio all’emergente T-Mac e tornare in fretta ai fasti di soli 5 anni prima (ma la caviglia di Hill avrà progetti diversi). Dumars riesce non si sa come a farsi dare in cambio Atkins e soprattutto Ben Wallace, centro nano con le mani di un muratore della bassa bergamasca, mai scelto e provato a inizio carriera, con raro senso del sadomaso, addirittura da ala piccola vista l’altezza, o meglio la bassezza, salvo accorgersi in fretta che senza schiacciare non segnava gli appoggi da sotto, figuriamoci i tiri dai 4-5 metri.

Il contraccolpo della perdita di Hill non può non farsi sentire e nonostante un Jerry Stackhouse da 31 di media il 2001 si chiude con la bellezza di 32 vittorie ma anche con un premio di consolazione: Rick Carlisle come coach, che nella stagione successiva guida i nostri addirittura al secondo turno dei playoff. Sembrerebbe che Dumars sia riuscito a costruire una squadra competitiva, con un go-to-guy di tutto rispetto, un ottimo supporting cast e un coach in grado di farla girare come si deve.

Ma il vecchio Joe non è tipo da accontentarsi di una semifinale di conference (per giunta a Est, che è più o meno come fare la Lotteria a Ovest), e nell’off season del 2002 fa partire lo show, draftando (forse sarebbe meglio dire “rubando”) alla 23 un ragazzino stecco e longilineo da Kentucky, tale Tayshaun Prince, firmando poi Chauncey Billups, che nei primi 5 anni da pro aveva cambiato più squadre che mutande senza mai trovare quell’equilibrio che lo consacrerà come uno dei migliori play in circolazione, e piazzando infine il colpo da maestro: spedisce infatti un realizzatore affermato come Stack nella capitale in cambio di un altro ragazzino al terzo anno, Rip Hamilton, in una trade che a prima vista parve saggia quanto la scelta di Portland di scegliere Sam Bowie alla 2 nel Draft dell’84.

La mini rivoluzione non porta gli effetti sperati: record identico (50-32), un solo turno playoff in più raggiunto prima di essere sonoramente sconfitti dai Nets di Giasone. L’anno prima a pagare fu il giocatore più rappresentativo, quest’anno invece tocca a coach Carlisle subire le ire del GM, che sembra dare evidenti segni di squilibrio mentale quando licenzia un allenatore da 100 vittorie in due anni e chiaramente in rampa di lancio (e infatti prontamente firmato proprio dagli acerrimi rivali dei Pacers) per chiamarne uno di certo rispettabilissimo come Larry Brown (e ci mancherebbe), il quale però in tanti anni di carriera ha vinto “solo” un titolo NCAA con gli amati Tar Heels e che al livello superiore è riuscito al massimo a sfiorare il Paradiso nonostante disponesse della Risposta, quella vera.

Pronti via, comincia la stagione 2003-2004, la squadra gira sempre bene e con Brown sembra essere più sciolta in attacco, giovani come Prince e Okur, che sotto Carlisle erano più o meno portaborracce con stipendi da capogiro, giocano con continuità e cominciano a mostrare qualità interessanti, e Detroit sembra essere la principale pretendente al titolo della Eastern insieme a Nets e Pacers. Contender però appunto solo a Est, perché andando verso il Pacifico ci sono corazzate che sembrano essere a tutt’altro livello, a cominciare dagli Spurs freschi campioni NBA (seppur ora privi dell’Ammiraglio), per passare poi alle eterne incompiute di Dallas e Sacramento, che non hanno ancora vinto nulla nella loro storia ma hanno roster migliori di moltissime altre squadre dotate d’argenteria, fino ad arrivare alle nuove forze nate nell’ultima off season: nel gelo dal Minnesota infatti per evitare la perdita di un’ormai spazientito Kevin Garnett, il quale gradisce le continue eliminazioni al primo turno playoff quanto il Barba la gomitata di Metta, vengono presi Sam “I Am” Cassell e Latrell Spreewell, docili veterani dal talento infinito, eppure appena paragonabile all’ego; spostandoci invece verso la costa troviamo altri due che sanno accettare la sconfitta quasi quanto il Bigliettone e che vengono accontentati affiancando loro altri due veteranissimi più anziani di quelli del Minneapolis ma di classe nettamente maggiore: è l’utopico progetto dei Lakers di mettere in campo contemporaneamente 4 Hall of Famer, ovviamente i padroni di casa Shaq e Kobe e in più The Glow e The Mailman, al secolo Gary Payton e Karl Malone, che peraltro firmano per delle noccioline (per gli standard NBA ovviamente) con un unico scopo: asfaltare qualsiasi avversario si trovino davanti e prendersi quel maledetto anello sempre sfuggito.

A Est comunque la musica è completamente diversa, e a parte le battaglie coi sempre più agguerriti rivali di Indiana (le quali porteranno nel giro di una stagione a partorire La Rissa per eccellenza) le partite si portano generalmente a casa con la siga, nonostante il più atteso rinforzo estivo stia ampiamente deludendo le attese. Più che deluderle le lascia in sospeso: Darko Milicic, seconda scelta assoluta a quello che è forse il draft con più talento della storia, non vede il campo neanche col binocolo e quello che doveva essere la PF del futuro, la quadratura del cerchio in un quintetto per il resto costruito perfettamente, diventa in breve tempo una delle peggiori pescate di ogni epoca. Uno dei rari errori nella carriera manageriale di Dumars, e probabilmente il più clamoroso (non dimentichiamo che alla 2 era ancora disponibile gente come Melo, Wade, Bosh, tanto per non fare nomi altisonanti), a cui il nostro demiurgo non poteva non porre rimedio. A febbraio infatti Portland, nell’ambito delle grandi purghe dei Jail Blazers, manda il re indiscusso di quella fantastica gang ad Atlanta; Rasheed Wallace, da taluni considerato in gioventù addirittura il miglior prodotto di Philadalphia dopo Chamberlain (il Mamba rimetterà poi in discussione la gerarchia), non fa nemmeno in tempo a prendere il suo primo tecnico con gli Hawks che già deve rifare i bagagli, direzione Motown, scambiato nuovamente dopo una sola partita in Georgia.

E’ il lungo che mancava, ideale per far coppia con un taglialegna come Big Ben, e contro ogni pronostico si ambienta anche alla perfezione al contesto, limitando le esagerazioni caratteriali (per usare un eufemismo) che l’hanno sempre contraddistinto. Con i nuovi Bruise Brothers Wallace sotto canestro il record finale migliora ulteriormente (54-28), ma vale solo la terza moneta a Est, che nella competitiva conference significa comunque un arduo primo turno coi Bucks in semi ricostruzione dopo le cessioni di Cassell e Allen e un altrettanto arduo 4-1 dei nostri.

Finalmente al secondo turno si inizia a fare sul serio e ad Auburn Hills arrivano i Nets bicampioni in carica della Estern, decisi a riprovare l’assalto all’anello sempre sfuggito all’ultimo. La compagine del New Jersey ha vinto di nuovo a mani basse l’Atlantic ed ha dunque il secondo posto, ma con un record peggiore di Detroit, che ottiene dunque il fattore campo e tra le mure amiche si porta agevolmente sul 2-0. Ma Giasone e i suoi personali Argonauti sono ormai consumati protagonisti della post season e non si fanno intimidire, riportandosi prima in parità nelle successive due partite in casa e prendendosi poi di forza il vantaggio del campo, espugnando il Palace dopo 3 overtime in una combattutissima gara5 in cui succede di tutto (la decide Scalabrine con 17 punti e una tripla leggera come il piombo nel finale, fate un po’ voi). I nostri tornano dunque sulla costa con le spalle al muro, nel più classico dei win or go home game, vincila o datti pure al salto sul divano professionale fino a ottobre; ed è qui che danno una prima dimostrazione della loro mentalità, non solo vincendo la partita senza domani ma chiudendo anche la serie in gara7 nel Michigan, col povero Giasone costretto a rimandare ancora una volta l’appuntamento con l’agognato anello (che grazie agli dei del basket arriverà proprio quando ormai non ci si sperava più).

Conference Finals, ovviamente Indiana-Detroit, come auspicato da tutti: due squadre ruvide, che cestisticamente si odiano e con la ciliegina sulla torta del ritorno di Carlisle alla guida degli altri. Sì va bè, ma vuoi mettere di la, c’è Minnie-LAL, la vera finale NBA, questi non fanno che legnarsi e sì e no che arrivino a 70 punti. Lo Showtime di Magic&Co. in effetti è distantino anzicheno, ma l’intensità e l’agonismo di questa Estern Final si vedrà raramente anche in un contesto del genere, e anche questo è basket, anzi forse è “più basket” questo rispetto a schiacciate e alley hoop, per quanto di meno impatto immediato. De gustibus. Comunque, per la cronaca, passano i Pistons in sei gare, espugando due volte una Conseco Fieldhouse più simile a un girone infernale che a un palazzetto, e dimostrando ancora una volta la pasta, o meglio la scorza, di questi ragazzi e del ragazzino sessantaquattrenne che sta in panchina.

Di la intanto anche l’infinito agonismo di un Garnett a tratti commovente deve arrendersi ai 4 Hall of Famer (facciamo anche 5 con quello che li guida) e a una buona dose di sfiga che mette fuori gioco Cassell sostanzialmente per l’intera serie. Il titolo NBA va quindi ai Lakers, con Payton e Malone che coronano il loro sogno. Ah no, ci sono anche le Finals? Scusate, allora parliamo un attimo di questa formalità prima di tornare a incensare i gialloviola.

Avete presente le partite degli Harlem Globetrotters, in cui i funamboli americani strapazzano qualche malcapitata vittima sacrificale? Ecco, da quando Jordan ha lasciato orfana Chicago e l’intera Lega (non consideriamo il ritorno a Washington vi prego) la Finale NBA ha più o meno quello stampo: la corazzata di turno della Western, che ha eliminato gli altri squadroni, usa la Finale a mo’ di passerella d’onore, checchè Stern voglia farci credere, contro i campioni della Eastern, che di la farebbero fatica a passare il primo turno, tanto è profondo lo squilibrio. Quest’anno poi sembra anche peggio del solito: 4 superstar datate ma ancora di primissimo livello contro una banda di onesti mestieranti dal cuore immenso ma senza neanche uno straccio di go-to-guy di livello. Anche l’argenteria sulle panche è impietosa: 9 a 0 per coach Zen è un cappotto bello e buono. Insomma, a Est può andarti bene, ma adesso arrivano i grandi.

E invece già dalla prima accade l’impensabile. Detroit domina tatticamente e fisicamente i grandi Lakers a casa loro, difendendo magistralmente anche contro un attacco potenzialmente devastante (a parte Kobe e Shaq gli altri 7 chiuderanno a 16-dicasi-16 punti totali). Colui che era stato definito “Il Guanto” per la sua capacità difensiva regge la fisicità di Billups come Superman la kryptonite, e lo farà per l’intera serie.

Con le spalle al muro già dopo gara1, i gialloviola sfoderano nella seconda una buona prova offensiva, sfiorando la tripla cifra. Già, peccato che ci sia l’overtime ad aiutarli, forzato da una delle innumerevoli triple pesanti della carriera del Mamba. E sarà l’ultima volta che supereranno i 90 punti nella serie… Comunque, dopo aver rischiato molto, LA la porta a casa e torna in parità, dando l’impressione di poter comunque vincere la serie col proprio talento, nonostante ora arrivino 3 gare consecutive nel Michigan.

Non rivedranno i propri tifosi. Gara3 è una caporetto: Kobe e Shaq annullati da Prince e Big Ben (che costringe il Diesel ad appena 14 punti con altrettanti tiri e solo 2 viaggi in lunetta), peggior prestazione offensiva nei playoff nei 50 anni di franchigia (68 punti), e, ciliegina sulla torta, il riacutizzarsi del problema al ginocchio che tormenta Malone  da tutta la stagione. La Finale più scontata della storia si sta trasformando in uno dei più clamorosi “upset”.

E infatti in gara4 Detroit sente l’odore del sangue, e azzanna. Oltre al rebus Billups la difesa gialloviola deve fare i conti con il dolorante Malone sistematicamente attaccato senza pietà da Sheed. La rabbia di Shaq, che riscatta la prestazione sottotono della partita precedente con un 16-21 e 36 punti, non può bastare se non segna nessun altro e le braccia infinite di Prince limitano Bryant a 8-25 dal campo. E’ 3-1 e la serie ha chiaramente un padrone, quei Detroit Pistons che dimostrano la maggiore importanza del gruppo sui singoli, anche nella conclusiva gara5 in cui tutto il quintetto va in doppia cifra. L’mvp è Billups, effettivamente il più carismatico e rappresentativo, ma potrebbe essere chiunque altro dello starting five per un motivo o per l’altro. Raggiungono l’apice con la forza del collettivo, ma anche con singoli di assoluto livello, spesso snobbati o non capiti dalla Lega, che in questo contesto riescono a esprimersi al meglio e a prendersi la propria rivincita. Vincono giocando “in the right way”, come da sempre predicato dal loro allenatore, in una frase-mantra che racchiude, ma non limita, il suo modo di allenare, e che finalmente, dopo tanto girovagare, gli porta il meritato successo. Soprattutto vincono con la straordinaria intensità difensiva, una difesa ruvida e quasi intimidatoria che il GM dagli spalti deve aver senz’altro gradito.

La storia dei Pistons si esaurisce in fretta. L’anno successivo, nonostante La Rissa di cui sopra, tornano in Finale, stavolta da favoriti, ma dopo 7 battaglie e uno sciagurato raddoppio di Sheed su Ginobili nei secondi conclusivi di gara5 (sciagurato non tanto il raddoppio in sé quanto il lasciare libero un giocatore che di soprannome fa Big Shot, il quale anche stavolta terrà fede al suo nomignolo) devono lasciare lo scettro a San Antonio, che negli anni dispari diventa magicamente imbattibile (anelli nel ’99, 2003, 2005 e 2007). Brown lascia in quell’off season, al suo posto il competente Saunders ma non è la stessa cosa, e infatti nonostante una regular season trionfale (64-18) il 2006 si chiude in finale di conference, con la rivincita di Shaq versione Heat (e il non trascurabile apporto di un ragazzino al terzo anno da Marquette). Big Ben accetta la faraonica offerta di Chicago e lentamente il tanto conclamato gruppo comincia a sgretolarsi; la tragica cessione di Billups in Colorado per Iverson, che si rivelerà azzeccata quasi quanto la scelta di Milicic al draft, darà il definitivo colpo di grazia.

Recentemente anche Tayshaun Prince dopo 11 anni è stato ceduto, e così se ne va anche l’ultimo pezzo di quella irripetibile squadra. Irripetibile come lo furono i Pistons degli anni ’80: i paragoni tra le due squadre in grado di portare il Larry O’Brien in Michigan si sono sprecati, basandosi su aspetti effettivamente affini (l’aggressività, l’intensità difensiva, la mentalità vincente, un gruppo compatto e un cuore che fa provincia, regione e forse anche stato a parte), ma non dimentichiamo che ogni squadra, soprattutto quando si tratta di compagini tanto particolari, per quanto può essere simile a un’altra è sempre inedita e originale, così come ogni giocatore e, in ultima analisi, ogni persona. I Pistons degli anni ’80 furono i soli veri Bad Boys; i Pistons 2004 per le loro caratteristiche sarebbero anche definibili come tali, ma interpretarono il ruolo in maniera completamente diversa. Ne mantennero però i connotati, omaggiando a modo loro gli eroi dell’89-90 e riportando a casa l’anello nel modo più affine possibile allo stile dei predecessori. Chiudono il cerchio, in attesa che Dumars o chi per lui ne ricostruisca gli eredi, simili eppure ancora diversi. In questo senso ha ragione Diddy: only bad boys in Motown, se sono bravi ragazzi avanti il prossimo.

 

Giacomo Sordo

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