Categorie: Editoriali NBA

The Greatest Show On Court, Parte Seconda

Crollano le Torri, tutta l’America è piuttosto sotto shock ma show must go on, e quindi la stagione 2001-2002 comincia regolarmente. Anche per i tifosi viola resta aperta la ferita comune dell’attentato ma almeno si rimargina velocemente la loro personale ferita sportiva (peraltro nemmeno paragonabile). Chirurgo di questa sutura il Dottor Michael Bibby da Arizona, che fa dimenticare fin troppo velocemente il collega relegato in Tennessee, superando anche i più proibiti sogni bagnati dei Maloof: dimostra subito infatti di essere un play completo su entrambe le metà campo, in grado di segnare ma anche di dirigere la squadra. Il pick&roll con Webber, forse la più vicina interpretazione all’originale dei mormoni, è un’arma in più ai limiti della legalità per un attacco già fortissimo e pieno di soluzioni (chiuderanno addirittura con 7 uomini in doppia cifra di cui 2, Webber e Stojakovic, sopra i 20), cui ogni difesa stenta a far fronte. Inoltre il nostro 1 a dispetto dell’ancora giovane età mostra grandi doti di leadership e di freddezza, diventando in breve il clutch player dal perimetro che mancava.

Il risultato di questa macchina fuoriserie praticamente perfetta è una stagione trionfale con 61 vittorie in cascina e il conseguente miglior record della Lega, che in soldoni significa avere a disposizione il proprio caldissimo pubblico più spesso di chiunque altro nelle partite che contano sul serio. Problema in più, se ce ne fosse bisogno, per le rivali, primi tra tutti gli odiati vicini gialloviola bicampioni uscenti, che stavolta sembrano veramente aver trovato pane anche per i loro vigorosi denti.

Sacramento non è più una delle tante contender, è LA squadra da battere, favorita contro chiunque. Tutti contro i Re, i quali dal canto loro hanno una fame di vittorie ormai atavica e una voglia di rivalsa da anni di sconfitte che ha del primordiale.

L’entusiasmo nella capitale dello stato è alle stelle quando finalmente si comincia a fare sul serio. Primo turno e guarda un po’ chi si rivede, quei Jazz che solo 3 anni prima avevano rovinato la festa del ritorno alla post season con una cocente eliminazione, e che ora si ritrovano nella parte degli sfavoriti. La vendetta è servita e consumata, anche i veterani dello Utah sono chiamati a pagare il conto: lottano, vanno anche ad espugnare di puro orgoglio l’ARCO in gara2 dopo le incaute dichiarazioni di Divac che li dava per finiti, ma devono poi arrendersi due volte tra le mura amiche agli avversari oramai troppo giovani e arrembanti.

Al secondo turno tocca come da pronostico un’altra squadra ambiziosa e di talento ma che finora si è tolta forse addirittura meno soddisfazioni dei Kings: sono i Dallas Mavericks del trio Nash-Finley-Nowitzki, unica squadra della Lega ad avere un attacco migliore della numero 1 del ranking, come predica coach Don Nelson che sembra aver trovato dei degni eredi del Run TMC. Serie che si preannuncia noiosa insomma… La prima va ai padroni di casa senza particolari difficoltà, i quali però vanno di nuovo a complicarsi la vita perdendo gara2 con 30 punti del futuro tre volte MVP. Anche gara3 sembra mettersi male: prima Christie e poi Stojakovic sono costretti a lasciare il campo per problemi alla caviglia. Finley gongola e fa quello che vuole, salvo veder riapparire il mastino difensivo nell’ultimo quarto, che riesce a limitarlo e chiude pure con 20 punti, il tutto su un piede solo. Fattore campo che torna a dipingersi di viola, e diventa viola scuro dopo gara4, ancora una volta vinta dagli ospiti dopo una battaglia decisa da Bibby negli ultimi secondi dell’overtime, nonostante l’assenza di Stojakovic, sostituito alla grande da Bobby Jackson (26). Ed è ancora la panchina a confermarsi l’arma in più dei Re nella decisiva partita successiva a Sacramento, stavolta con Turkoglu (20+13) a fare le veci del tiratore serbo, e il solito Bibby, ai primi playoff della carriera giocati benino anzicheno, a festeggiare i 24 anni con 23 punti e passaggio del turno.

Meno spettacolare ma più dedita alla difesa è l’altra semifinale tra Spurs e LAL, con le Twin Towers texane che concedono poco o niente all’attacco gialloviola, costretto a non vedere mai la tripla cifra nei punti segnati, ma che alla fine si conclude nello stesso modo dell’altra serie parallela della Western Conference. Finale dunque scontata (e auspicata dai più) tra Kings e Lakers, ancora loro. Finale di conference, ma anche sostanzialmente Finale NBA, perché non si vede proprio come i pur bravi New Jersey Nets o Boston Celtics, finaliste a Est, possano anche solo impensierire le corazzate californiane. Derby dello stato, e allora tutti gli occhi sono di nuovo qui, sei anni dopo, e l’amore per la California non è mai stato così grande.

Dopo il 36-5 stagionale e l’ovvio miglior record in casa i playoff si dimostrano ancora una volta sport a parte in gara1: trentello di Kobe, Shaq ne aggiunge 26 e il fattore campo è già invertito, terza sconfitta all’ARCO su 6 partite in post season, nonostante il calore infernale. I gialloviola al contrario hanno una serie aperta di 12 vittorie consecutive in trasferta nei playoff, non uscendo sconfitti lontano dallo Staples addirittura dai playoff 2000 (!); in gara2 vanno sotto, rimontano e provano a ipotecare subito la serie, ma Bibby chiude la loro incredibile striscia con 7 punti nell’ultimo quarto e l’ennesima tripla pesante in faccia a Bryant nel finale. 1-1 e palla al centro, si va a Los Angeles.

Se i Lakers sono un’ottima squadra on the road, i Kings non si stanno certo dimostrando da meno in questi playoff, e lo confermano riprendendosi di forza il fattore campo allo Staples, da dove non erano mai usciti vincitori. E lo fanno d’autorità, giocando una partita ai limiti della perfezione nonostante la continua assenza dell’ala piccola titolare, annichilendo i campioni, sempre costretti ad inseguire a casa loro. Dopo la sbandata iniziale i viola lanciano un segnale fortissimo, agli avversari e alla Lega intera, sulle loro ambizioni finali.

26 maggio, va in scena gara4, i lacustri arrivano al palazzo sapendo che stavolta sono loro ad avere le spalle al muro. Sono concentrati, devono vincere ad ogni costo ma questi Kings sembrano indemoniati: altra prova di forza, e il primo quarto si chiude con un clamoroso +20 Sacramento (40-20) che sembra già dire che sì, i Lakers sono fortissimi, ma questi Kings lo sono di più, e soprattutto hanno più fame, la loro pancia non è riempita da due titoli consecutivi. Gli angelini però hanno l’esperienza dalla loro, abbastanza da non perdere la testa in queste situazioni, e inoltre di rimonte se ne intendono (chiedere in Oregon per conferma); così, punto su punto, si riavvicinano con calma ma inesorabilmente, mangiano 13 punti nei quarti centrali e iniziano l’ultimo a -7. I Kings dal canto loro sentono invece il fiato sul collo degli avversari e pagano la minor malizia in questo tipo di partite: controllano, ma gli altri son sempre più vicini. Ultimi 2 minuti e sono ormai a -4, Turkoglu segna il jumper che li ricaccia a 2 possessi pieni ma è immediata la risposta gialloviola con la tripla. Risponde Divac con il long-two, ma di la sul cambio il centro si trova su Bryant: difende con competenza ma quello è il Mamba, segna 2. Bibby attacca sul pick’n’roll e scarica in angolo a Christie, è il suo tiro ma prende solo il ferro con 40 secondi sul cronometro. Attacco Lakers, classico triangolo e palla sotto a Shaq, immediatamente arpionato da Divac. Il centrone da LSU in lunetta è più o meno come un testa o croce, ma si sa, “quando conta li metto”: ipse dixit, 2-2 e -1. Fox manda Divac in lunetta, tiratore ben più affidabile: 83% nei playoff, in perfetta media quella sera (8-10), ma il primo è corto. Il secondo va, +2 e palla Lakers, 12 secondi, tocca difendere. Palla al Mamba in punta, si beve Christie ma sbaglia sull’aiuto di Divac, che genera il rimbalzo offensivo di Shaq, il quale incredibilmente sbaglia da un centimetro. Lotta furibonda a rimbalzo, smanaccia ancora Divac in tap out, la palla rimbalza e finisce esattamente nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto vederla qualsiasi King: tra le gelide mani di Mister Big Shot Robert Horry, che a fil di sirena brucia l’uscita disperata di Webber e Christie e ovviamente vede solo la retina.

Gettano acqua sul fuoco, cercano di sminuire la giocata soprattutto per loro stessi e la loro sanità mentale, dichiarano che i Lakers sono stati bravi ma anche molto fortunati (e come dar loro torto?). Ma due giorni dopo si torna in campo, di nuovo finale punto a punto e fantasmi che si ripresentano. Li scaccia Bibby, che dimostra se ancora ce ne fosse bisogno di avere attributi sui quali in Italia pagherebbe l’IMU mettendo il jumper del sorpasso a 8 secondi dal termine. In difesa, tutti ma non Horry, piuttosto anche Bryant, che subisce l’enciclopedica difesa di Christie e manda il tiro sul secondo ferro. I Kings reagiscono al tiro tagliagambe di Horry da campioni veri, da degni candidati ad avere quell’agognato anello, forse più degni di tanti che quel trofeo possono sfoggiarlo. Vincono subito, si portano 3-2 contro tutto e tutti, soprattutto contro quella sfortuna che non ne vuole sapere di lasciarli in pace.

Ne manca solo una per ipotecare il sogno, perché è evidente che è questa la vera Finale e che New Jersey potrà poco contro chiunque esca vincitore da questa battaglia. Ma i Lakers hanno campioni non meno combattivi, di chiudere la stagione a casa propria non ne vogliono proprio sapere, e così l’ira del Grande Aristotele in particolare si abbatte sugli avversari: 41, 13-17 ai liberi, Divac e Pollard costretti entrambi a uscire per falli. Nonostante ciò, altra gara al cardiopalma, che i Kings rimontano e provano in ogni modo a vincere, ma devono arrendersi alla freddezza di Kobe in lunetta (e al suo gomito largo sul naso di Bibby). Questa serie è già il più grande spettacolo dopo il Big Bang, con buona pace di Jovanotti, e non può non andare a gara7, non sarebbe giusto.

E’ la partita che vale una carriera, soprattutto per chi le Finals non le ha ancora potute giocare e vincere. I Kings non ci stanno, lottano come hanno sempre fatto nelle sei precedenti e la portano all’overtime, ma è chiaro che non possono farcela. Non perché siano inferiori, tutt’altro: persino Phil Jackson e Kobe Bryant diranno che la miglior squadra in campo aveva la maglia bianca. Ma semplicemente perché c’è una forza invisibile a loro avversa che non li lascerà prendersi ciò che spetta loro. E’ evidente, aleggia nell’aria, si sente nella pur indemoniata ARCO Arena: dopo quel maledetto tiro di Horry non può essere altrimenti. Troppo tragico? I punti che decidono partita e serie li mette Shaq con un jumper dalla linea di fondo e un 2-2 ai liberi. Proprio lui, 50% scarso dalla linea in carriera, chiude la serie con un 44-69 totale, 24-32 nelle ultime 2, quelli pesanti tutti a segno. Due sconfitte in casa dopo averne perse 5 in stagione, e prima squadra a perdere gara7 in casa da 20 anni a questa parte, contro avversari che non avevano mai vinto una gara7 in trasferta nelle singole carriere. I Kings escono dal campo a testa altissima, ma con la sensazione, tanto forte quanto sgradevole, che quella sera sia passato il treno, l’attimo fuggente, e che loro l’abbiano perso per un soffio.

Hanno i mezzi per ripetersi, è indubbio. La squadra è lì da vedere, non ha vinto ma è stata paradossalmente superiore ai vincitori per gran parte della serie, e anche l’anagrafe è tutto sommato dalla loro. Ma quella sensazione vaga e istintiva non ci metterà molto a palesarsi, agevolata dall’ennesima mazzata di una sfortuna degna del miglior Paperino: dopo un’altra grande stagione (59-23) e l’agevole primo turno coi Jazz, durante la battaglia furibonda con i Mavericks col dente avvelenato dall’anno precedente (peraltro altra serie bellissima, andata a gara7 e con un doppio OT in gara3) in gara2 i nostri perdono Chris Webber per quell’infortunio al ginocchio che lo trasformerà prima nella copia sbiadita di sé stesso, per portarlo poi al ritiro. I Kings si battono anche stavolta, trascinando appunto la serie alla partita decisiva, ma senza la loro superstar devono arrendersi ai texani di Don Nelson. L’anno successivo si conclude allo stesso modo, nonostante gli sforzi di Petrie che porta in California Brad Miller per ovviare all’infortunio di C-Webb e alla senilità di Divac: a casa, sempre al secondo turno, sempre in gara7, cambia solo il carnefice (stavolta tocca ai T’Wolves di Garnett, Spree e Cassell). Webber per i playoff torna ma non è più lui, e in contemporanea scompare il clamoroso Stojakovic da 24 di media in stagione. Poi ancora qualche anno annaspando tra playoff e lottery, cercando di rimanere nell’elite della Lega, cambiando gli interpreti ma non i risultati. E infine la difficile presa di coscienza: il treno è veramente già passato, lo si può scorgere appena mentre si allontana sbuffando in lontananza.

Finisce così l’epopea della squadra che era stata definita come il più grande spettacolo su un campo da basket. Finisce mestamente, con tanto, tantissimo fumo, ma nemmeno un grammo di arrosto a deliziare i tifosi dell’ARCO. Ma è davvero così? Regalare quintalate di momenti memorabili agli appassionati non conta proprio niente senza un anello da sfoggiare? E’ vero, un Larry O’Brien in bacheca cambia tutto, e quello che poteva essere ricordato come uno dei gruppi più forti e completi di sempre rimane “solo” la miglior squadra a non essere arrivata fino in fondo, a detta di molti (assieme probabilmente ai Jazz di Stockton e Malone). Ai suddetti tifosi di certo non può non rimanere un bel po’ di amaro in bocca, ma non per questo dovrebbero essere meno orgogliosi della franchigia della loro città, per tutto ciò che comunque ha dato alla Lega. E questo orgoglio l’hanno dimostrato nell’ultimo periodo, quando si è sparsa la voce che la squadra potesse essere trasferita a Seattle; nonostante lo stato pietoso attuale, e il conseguente scoramento di una parte della tifoseria, tutta Sacramento si è stretta a difesa dei propri Kings. E non è un caso allora che questa sia l’unica squadra ad aver ritirato il numero 6 in onore del loro vero sesto uomo, il pubblico: perché questo formidabile pubblico di “bovari” c’è sempre stato per la squadra, l’ha sempre sostenuta anche di fronte a situazioni ed episodi che avrebbero fatto cascare le braccia (per non dire altro) a chiunque. E merita, in particolare dopo gli ultimi anni bui, di poter avere di nuovo una squadra spettacolare che infiammi ancora l’Arena, che riscatti il credito con la sorte (non può esserci sempre un Mister Big Shot a ricevere quel pallone) e che alla fine non perda più quel maledetto treno.

Giacomo Sordo

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