È il 1950 e la situazione negli Stati Uniti non è delle migliori: la ferita generata dal secondo conflitto Mondiale è ancora aperta e già si deve fronteggiare la minaccia sovietica. Il presidente Truman annuncia il programma per la costruzione della bomba H, nel frattempo l’URSS si allea con la Cina. Nelle sale cinematografiche esce il capolavoro “Cenerentola” di Walt Disney; è l’anno del famoso incontro per il titolo dei pesi massimi allo Yankee Stadium, in cui “il bombardiere nero” viene battuto ai punti da Ezzard Charles dopo 15 riprese. La separazione razziale è più viva che mai: formalmente l’uguaglianza sociale esiste, tuttavia la discriminazione è ancora radicata in molti aspetti della quotidianità. Si dovranno attendere ancora sei lunghi anni per quel primo e indelebile gesto di protesta a Montgomery, quando la popolazione di colore, guidata da un giovane pastore battista, boicottò per un anno i trasporti pubblici sui quali vigeva una rigida separazione.
Nel cuore di questo scenario a stelle e strisce, la NBA ha da poco trovato la sua strutturazione ultima, frutto della fusione tra la BAA e la NBL. Una caratteristica accomuna tristemente le due leghe : nessun giocatore di colore ha mai arricchito le fila di un team professionistico di pallacanestro. Gli unici protagonisti afroamericani sono gli strabilianti membri degli Harlem Globetrotters, che già all’epoca esibiva le spettacolari doti degli sportivi neri, sfruttandone la stupefacente fisicità per creare incredibili esibizioni.
Lo sport ha già parzialmente infranto le barriere del razzismo, accogliendo nella Major League di Baseball il promettente Jackie Robinson, che esordisce nel 1947 con la maglia dei Brooklyn Dodgers; ma la NBA è aliena a queste istanze innovatrici e nessun pioniere si è fatto ancora avanti per spezzare questa insensata consuetudine. Riaffiora alla memoria il film “Glory Road”, che verosimilmente delinea la situazione vissuta dai giocatori di Texas Western, che qui, più che una fattispecie, appare una triste realtà. A completare un quadro già tutt’altro che idilliaco, si aggiunga che i fatti raccontati dalla pellicola della Disney risalgono al 1966, ben 16 anni dopo le crociate del pastore battista citato sopra. Non ci vuole molto ad immaginarsi la difficile situazione ad inizio ’50, nessun Don Haskins, nessun Martin Luther King, solo pregiudizi.
È il giorno del Draft NBA, all’epoca composto da 12 giri, quando Walter Brown, presidente dei Celtics, utilizza la sua seconda scelta per chiamare Charlie “Chuck” Cooper, ala di un metro e 95 da Duquesne University. Il giocatore avrà una mediocre carriera, prima militando a Boston, poi negli Hawks ed infine nei Pistons, viaggiando a 6.6 punti e 5.9 rimbalzi a partita; ma, nonostante le cifre non entusiasmanti, Cooper segnerà una linea di non ritorno per il basket USA: sarà infatti lui il primo giocatore afroamericano ad essere draftato nella storia della NBA. L’idea innovativa del presidente biancoverde spiana la strada ad altri due giovani di colore selezionati rispettivamente da Washington e da New York: i Knicks comprano dai Globetrotters Nathaniel Clifton, primo giocatore afroamericano a firmare un contratto NBA; i Capitols invece investono la loro scelta su Earl Francis Lloyd soprannominato “The Big Cat”, ala piccola proveniente da West Virginia State, tre volte nominato All Conference e due All American, che aveva suggellato la sua ultima stagione al college con 14 punti e 8 rimbalzi di media. Lloyd è anche il primo atleta di colore ad esordire nel mondo della pallacanestro professionistica, considerando che la partita di apertura dei suoi Capitols è antecedente alle sfide che vedono impegnati Celtics e Knicks, purtroppo disputa soltanto 7 partite prima che la squadra fallisca. Rimasto senza una franchigia presta servizio militare, prima del ritorno sui campi da gioco, questa volta con la maglia di Syracuse.
Gli episodi di razzismo nei suoi confronti non mancano e non di rado è costretto a stare in hotel o ristoranti diversi dal resto della squadra; appena arrivato nel Team dello stato di New York non gli è consentito giocare una partita di preseason al Wofford College nella Carolina del Sud, unicamente per il colore della sua pelle.
Malgrado questi spiacevoli eventi, nei Nationals ha un ruolo di primissimo piano, giocando da centro titolare per sei stagioni e togliendosi la soddisfazione di vincere un campionato, nel 1955. Le sue ultime due stagioni hanno come palcoscenico Detroit; a fine carriera, le sue cifre sono di tutto rispetto, annoverando una media di 8,3 punti, toccando un massimo di 10,2 e 7 rimbalzi nella stagione del titolo.
Terminata l’esperienza da giocatore decide di rimanere nell’ambiente e così, nel 1968, assume il ruole di vice allenatore ai Pistons: è il primo assistente di colore nella storia di questo sport. Nel 1971, in seguito al licenziamento di Butch van Breda Kolff, viene nominato head coach, ma dopo un’annata conclusa in maniera catastrofica, con un non esaltante record di sole 22 vittorie al fronte di 55 sconfitte, viene esonerato, ottenendo così un ulteriore primato: diventa il primo allenatore di colore ad essere licenziato.
Nel 2003 entra di diritto nella Hall Of Fame, in qualità di contributore e se il razzismo è stato completamente superato nel basket moderno una parte di merito va sicuramente a Lloyd che, insieme a Cooper e a Clifton, è stato un pioniere di questo magnifico sport.
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