Il match giocatosi domenica sera in Texas, che ha portato all’affermazione per 91 a 79 dei nero argento, è in realtà un risultato meno marcato di quanto una maggiore precisione realizzativa avrebbe potuto garantire a San Antonio. Difatti la squadra di coach Popovich ha tirato ben al di sotto dei propri standard, mandando a bersaglio soltanto il 37,6% delle conclusioni dal campo, ben 11 punti percentuali in meno rispetto alla media stagionale del 48%, valore secondo soltanto a quello messo a referto dagli Heat in stagione regolare.
La mappa di tiro della serata evidenzia come siano state generali le difficoltà realizzative in casa Spurs, come dimostra il non aver raggiunto il 50% dal campo neanche nelle conclusioni prese da sotto, merito anche dell’intimidazione che la coppia di lunghi dei Lakers riesce a garantire. Unica zona franca dell’attacco texano sono i tiri dalla media nel lato sinistro del campo, parte di parquet prediletta da Tony Parker per i suoi palleggio/arresto/tiro, sommata al 4/4 in post frutto dall’ottimo lavoro di Duncan su quel lato. Imprecisi anche tutti i tiratori da dietro l’arco (eccezion fatta per il “mascalzone latino” Ginobili, MVP dell’incontro, con il suo 3/5 dalla lunga distanza) che hanno mandato a segno soltanto il 31% delle conclusioni, sbagliando in parecchie occasioni quegli “open shot” che così pazientemente l’efficace attacco texano riesce a creare (sintomatico di questo è il 2/7 dagli angoli, zona dalla quale gli Spurs in stagione tirano con un surreale 41% di squadra, avendo mandato a bersaglio 260 tiri da quella mattonella di campo durante la regular season).
Nota a margine va spesa per il sopracitato Manu Ginobili, che nei minuti in campo ha spaccato la partita, chiudendo il terzo quarto con 18 punti in soli 16 minuti di utilizzo. Una garanzia quando l’aria si fa rarefatta e la posta in palio diventa importante.
Alla luce di questo è confortante pensare al fatto di essere riusciti a portare a casa il risultato senza averlo visto sostanzialmente mai messo in discussione, sintomo di una superiorità facilmente pronosticabile anche prima del match, che lascia ben presagire per il risultato finale della serie. D’altra parte però questa non brillante prestazione arriva a seguito di un finale di stagione chiuso con 5 sconfitte nelle ultime 8 gare, un filotto che lascia i supporter dei nero argento non del tutto tranquilli.
Quelli che invece sembrano essere già rassegnati a vivere da semplici spettatori i prossimi turni di post season (lo so che non bisogna mai “cantare vittoria” fino a quando il campo non da conferma del risultato, ma la partita di 2 sere fa sembra lasciar intendere che le cose potrebbero andare in questa direzione) sono i fan dei Lakers, i cui beniamini non danno l’impressione di avere la possibilità di impensierire un roster rodato come quello Spurs.
Troppe le difficoltà incontrate in una gara in cui non sono mancate dedizione ed impegno. Ma andiamo per gradi.
Prima considerazione. D’Antoni decide di partire (e di riproporre nei momenti cruciali della partita, vedi terzo quarto) l’assetto con il doppio playmaker, cercando da un lato di sfruttare la propensione a far canestro di Steve Nash, garantendo difensivamente una maggior copertura su Parker, dirottando Blake sulle sue piste e lasciando il canadese in marcatura su Green.
Scelta che non definirei fallita, ma che purtroppo comunque non ha funzionato. Blake difatti non ha arginato come avrebbe dovuto l’avversario francese (nonostante il tutt’altro che positivo 6/15 messo a referto da Parker) ed ha più volte accentrato il gioco nelle sue mani (39 minuti in campo, 5-13 al tiro), prendendosi responsabilità anche in momenti in cui sarebbe stato più saggio affidarsi a giocatori con più qualità ed esperienza. Nash d’altra parte non ha pagato il dividendo sperato offensivamente. Ha stretto i denti, segnando 16 punti, ma non è riuscito a tenere in vita i Lakers nel decisivo terzo quarto.
Seconda considerazione, la totale assenza d’impatto dalla panchina. Tolti i 6 punti di un Jamison che ha cercato in alcuni momenti di dare la scossa, non è arrivato nulla “from the bench”, disponendo di una rotazione ridotta all’osso ed avendo schierato tutti i “pezzi grossi” in quintetto (molto in ombra la prova di Clark, il sui -16 di Plus/Minus in soli 11 minuti di utilizzo spiega molto più di qualsiasi commento). Contro una squadra che raccoglie ben 36 punti dai giocatori che entrano a gara in corso, queste cose le paghi a caro prezzo (non a caso lo strappo decisivo lo ha dato Ginobili, ritrovatosi accoppiato con un Meeks in palesi difficoltà).
Terza considerazione, i lunghi. Potevano e dovevano essere l’unico punto di forza dei losangelini, ma tolta la copertura a rimbalzo (44 quelli catturati dai gialloviola contro i 43 presi da Duncan e compagni) poco è stato il loro reale impatto offensivo, soprattutto da parte di Howard. Non ingannino le cifre che lo vedono come miglior realizzatore della partita con i suoi 20 punti ed un buon 66% dal campo.
In realtà pesano molto di più le 4 palle perse e tutte le volte in cui servito in post non è riuscito ad avere il sopravvento di uno Splitter poco incivo in attacco, ma molto utile difensivamente. Aggiungendo alle sue anche i 6 palloni persi da Gasol ci si rende facilmente conto di come la costruzione del gioco fosse stata demandata nelle mani dei due lunghi, i quali soltanto in rarissime occasioni (a memoria ne ricordo soltanto 2) sono riusciti a sfruttare quel gioco alto/basso che sulla carta poteva mettere in grosse difficoltà gli Spurs.
A tutto questo potremmo aggiungere il gap generale tra le palle perse dalle 2 squadre, i punti che ne sono scaturiti o i canestri segnati in contropiede. La bilancia continuerà sempre a pendere dalla parte dei texani. Insomma, in questi 3 giorni il lavoro per coach D’Antoni ed il suo staff dovrà essere totale se vorrà cercare quantomeno di impensierire il collega plurititolato che siede sull’altra panchina. Ad oggi sembra una missione impossibile, staremo a vedere se Mike riuscirà nel miracolo.