Il “pagellone” della serie appena conclusasi tra San Antonio Spurs e Los Angeles Lakers è di facile stesura, vista la schiacciante affermazione dei texani e vista l’apparente impossibilità d’azione palesata dai californiani. Sbagliato però è fare di tutta l’erba un fascio, di conseguenza, con i dovuti distinguo, stiliamo una sorta di “giudizio di fine serie” (che per quelli in gialloviola risulta di più essere un vero e proprio giudizio di fine anno).
Partiamo dai vincenti (è sempre più facile dare un parere positivo):
Tim Duncan: se fosse nato in Congo o in qualche altra zona dell’Africa continentale, non avrei dubbi sul fatto che, al contrario di Taribo West, avrebbe falsato la carta d’identità al contrario, dichiarandosi più vecchio di quello che in realtà è! Giovanotto che corre avanti e indietro per il campo, spinge in contropiede e difende su tutto e tutti quelli che osano entrare nell’area da lui difesa. L’acuto l’ha piazzato in gara 3, ma soltanto perchè in questa serie non c’è stato bisogno di sporcarsi troppo le mani;
Tony Parker: metronomo della squadra, ha ritrovato forma nell’arco delle partite, partendo con la solita verve, ma sbagliando più del dovuto al tiro e non incidendo come avrebbe voluto in gara 1. Dalla seconda partita le cose sono cambiate e sostanzialmente i 2 match giocati ad LA li ha portati a casa lui (non che gli altri avessero particolari difficoltà a farlo). Atteso, come tutti gli altri del resto, alla prova del nove contro difese di ben altro livello;
Manu Ginobili: eroe indiscusso di gara 1 (18 punti in 19 minuti), ha dosato al meglio le forze, non lesinando però mai il suo contributo, distribuendo assist come se non più del playmaker francese e mettendo sempre quell’agonismo che lo rende un vincente. In molti avevano dubbi sulla sua tenuta fisica in questi Playoff. Fortunatamente, ogni tipo di problema sembra superato;
Kawhi Leonard: prezioso talismano difensivo, con l’assenza di Kobe si ritrova accoppiato con avversari che poco lo impensieriscono, permettendogli anche il “lusso” di sfruttare spesse volte i miss match in fase offensiva, dandogli in alcune occasioni più responsabilità di quante lui potesse immaginarsi. Nei prossimi turni la musica, purtroppo per lui, cambierà. Staremo a vedere il livello di maturità che riuscirà ad esprimere sul parquet;
Danny Green e Tiago Splitter: partiti sempre (o quasi) in quintetto, hanno inciso poco su entrambi i lati del campo. Il lungo brasiliano ha in parte limitato Howard e non ha mai sofferto particolarmente la fisicità avversaria a rimbalzo, però non è riuscito a dare quel contributo offensivo che spesse volte lo ha reso decisivo in questa stagione e che gli ha fatto guadagnare il posto da titolare in squadra. Discorso simile per Green, mano freddissima durante tutto l’arco della serie, nella quale l’unica partita in doppia cifra è arrivata quando sono aumentate le conclusioni in prossimità del ferro. Urge ritrovare precisione, le sue bombe dagli angoli saranno fondamentali nel prosieguo della post season;
Tracy McGrady: entrato in campo gli ultimi 5 minuti di gara 4, potrà finalmente raccontare ai nipotini di aver portato a casa una serie di Playoff NBA! Di gran lunga il più felice di tutti..
Gregg Popovich: una serie talmente facile che non è mai dovuto ricorrere all’hack-a-Howard (soltanto sul finire del primo tempo di gara 1 c’è stato un accenno), i suoi praticamente non sono mai stati sotto nè in difficoltà. La brillantezza non è quella di inizio 2013 (e questo il coach è il primo a saperlo), ma le risorse sulle quali poter fare affidamento sembrano ancora molteplici.
Passiamo alle dolenti note.
Dwight Howard: i suoi numeri (di tutto rispetto) in realtà non rispecchiano quella che è stata l’inconsistenza delle prove mostrate sul parquet da parte dell’ex Orlando Magic. L’impatto che la sua forza fisica, tecnica (…) e soprattutto contrattuale richiede è di ben altro spessore. Conclude l’annata con un espulsione evitabile, che lo costringere a guardare dagli spogliatoi il finale di stagione di quella che non sembra essere la sua squadra;
Pau Gasol: leonino per lunghi tratti di partita, si è affermato come leader tecnico ed emotivo della squadra in assenza del 24. Ha caricato sulle sue spalle il peso intero di un attacco che ha stentato a produrre pallacanestro (vedi la tripla doppia in gara 3), ma alla fine anche lui ha dovuto arrendersi all’evidenza. Unico realmente dispiaciuto dall’umiliazione subita dai suoi Lakers;
Steve Nash: Dio solo sa a quante infiltrazioni si sia sottoposto pur di prendere parte a questa post season, cercando di trasformarsi in realizzatore pur di portare il suo contributo per la causa. Purtroppo, a 39 anni, la non brillantezza fisica si paga e il playmaker canadese nelle 2 gare a cui ha preso parte non è riuscito ad incidere come coach D’Antoni sperava;
Steve Blake: ritrovatosi playmaker titolare ai Playoff, ha cercato di battersi su entrambi i lati del campo, non sempre però riuscendo a fare la cosa giusta. I punti che aveva nelle mani in un roster ridotto all’osso dovevano essere vitali per cercare di nutrire una speranza di successo, ma, nelle rare volte in cui gli ha messi, sono arrivati in ritardo e quando la partita era già scappata di mano. Anche lui non in perfette condizioni fisiche, paga il tutto infortunandosi in gara 2 e sedendosi in borghese in panchina nei 2 incontri conclusivi allo Staples;
Darius Morris e Andrew Goudelock: se a Settembre, dopo i botti di mercato in casa gialloviola, gli avessero detto che si sarebbero ritrovati titolari in una serie di Playoff allo Staples Center vi avrebbero entrambi riso in faccia. Consapevoli quindi di giocare delle non partite (anche a causa della loro presenza sul parquet) hanno fatto la loro figura, mettendo a segno entrambi un ventello in gara3 (altra di quelle storie da poter raccontare alle generazioni future in famiglia), cercando in tutti i modi di estraniarsi da una situazione a tratti irreale. Se i Lakers sono stati malamente buttati fuori, non è certo una loro colpa;
Metta World Peace: il suo rientro miracolo avevo qualcosa di sospetto. Infatti in molti paventano il dubbio che quello sceso in campo nei primi 3 atti della serie fosse un sosia che poco aveva a che fare con il giocatore dei Lakers in versione Playoff. Alla fine anche lui costretto a sedersi in tribuna;
Kobe Bryant: era partito twittando a più non posso, dispensando da casa una miriade di consigli tattici e non solo, chiude la serie uscendo dagli spogliatoi (i maligni dicono pur di non restare insieme ad Howard) e consolando Gasol;
Mike D’Antoni: annata da dimenticare sotto tutti gli aspetti, di certo non immaginava di avere così tante difficoltà quando prese il posto di coach Brown dopo sole 4 partite. Colpa certamente degli infortuni, del gruppo che non si è mai “formato”, di un mercato dispendioso e rivedibile, ma di sicuro anche colpa sua.