È un sabato come tanti nella tranquilla e ridente Verona, come sempre ci si trova con gli amici di vecchia data, degustando avidamente un Cohiba Esplendido, sorseggiando un Calvados Bulard e discutendo animatamente sul Simposio di platonica memoria. In questo scenario idilliaco, immersi in uno sfarzo e in un’eleganza tali da far sfigurare persino James Gatsby, di tanto in tanto un fastidioso rumore sconcerta i nostri dialoghi. È una televisione lasciata impunemente accesa, in onda uno spettacolo barbarico: la finale di Champions League.
La rete che si gonfia, la classica esultanza. I rossi hanno vinto, pare. Ha segnato il ragazzo olandese che tanto ricorda Cerci. Tutto questo scenario però non ci esalta, non attira le nostre attenzioni. Il portatile davanti a noi è fermo su una schermata da un numero impreciso d’ore.
In rilievo un giorno non molto distante, il 27 giugno. Due giri, sessanta possibilità di chiamata. Il destino di giovani promesse del baloncesto nelle mani di freddi calcolatori e strateghi; arroccati dietro ad immense scrivanie, in giornate scandite dal perpetuo ed irritante squittio di smartphones surriscaldati. Come ombre, quasi invisibili, assegnano numeri che cambiano vite. Coronano od infrangono sogni lucenti quanto il sorriso del giovane filantropo del Nord Dakota, figlio della mente di Scott Fitzgerald.
Queste vere e proprie macchine razionali in giacca e cravatta svolgono sempre più la parte delle stelle sul tappeto rosso di David Stern. In una lega costretta alla finzione da una sempre maggiore pressione mediatica globale, l’errore non è ammesso né contemplato: la pianificazione è l’unica strada sicura per raggiungere l’ambita vetta finanziaria, senza ruzzolare rovinosamente nella terra degli scherniti.
Non aspettatevi il bello della diretta, i soldi comandano! L’unico lato genuino ed intoccabile, di questo rito sacro, rimane la pura gioia interiore di ragazzi, che dopo interminabili anni di sacrifici, riescono a raggiungere la tanto ambita terra promessa. Terra che tuttavia appare come una landa desolata tutta da esplorare, ricca d’inestimabili tesori ma anche d’insidie. È, tuttavia, la mano protesa del capo supremo a valere ogni singola goccia di sudore versata, ogni lacrima spesa, ogni paio di scarpe usurate.
Atleti, attori. Da subito protagonisti di una sceneggiatura prefissata, costretti ad interpretare un copione già scritto. L’urlo e le lacrime di gioia forzate a rimanere intrappolate per ore in attesa dell’occhio della telecamera. Come il più classico film di serie b la trama risulta scontata e facilmente prevedibile, già con mesi d’anticipo. Se con il “Grande Gatsby” Di Caprio potrà ambire alla nomina all’Oscar, lo stesso non si può dire di questi giocatori che, pur non avendo frequentato blasonate scuole di recitazione, cercano d’impersonare al meglio una parte che non gli si addice.
La raffica di chiamate ha lo stesso effetto che avrebbero dei fuochi d’artificio esplosi in tarda mattinata il 31 dicembre. In questa sceneggiata hollywoodiana a noi non resta che osservare inermi la schermata rivelatrice, tirando le somme e cercando d’ipotizzare quel poco ancora avvolto da un velo misterioso. Non sono più gli anni ’80, dove la conoscenza dei giocatori si limitava al rude passaparola ed alla presenza di una manciata di scout. Il fascino della grande pesca al buio è ormai completamente perso, sostituito d’atleti monitorati maniacalmente già dai primissimi anni di high school. Non è più necessario recarsi alla fiera della contea per ottenere un pezzo pregiato, questi giovani cestisti sono già inscatolati ed ordinati con tanto di codice a barre (per informazioni chiedere a Kenyon Martin), posizionati accuratamente sugli splendenti scaffali di quel lussuoso megastore griffato NBA.
E allora entriamoci in questo supermarket, d’altronde si sa, è usanza comune oltreoceano trascorrere ore ed ore in giganteschi centri commerciali. Fila numero 9, Draft NBA 2013. Partiamo dalla fine imbracciando il nostro enorme carrello. In questa ideale corsia, sono esposti più di sessanta “prodotti”, alcuni ben in vista, altri nascosti nelle polverose retrovie degli scaffali. Assenti sono i primi venti della lista, merce troppo pregiata per essere esposta in maniera confusionaria, a loro è dedicato un negozio d’alta sartoria al secondo piano. Per la nostra spesa vogliamo trovare i pezzi qualitativamente migliori, quelli che possono avere un futuro roseo nella più maestosa delle leghe, senza farci attrarre però dalle confezioni più sgargianti.
Scostando le ragnatele troviamo subito due oggetti sottovalutati. Soffiando sull’etichetta logora riusciamo a distinguerne i nomi: Rodney Williams e Solomon Hill. Il ruolo è il medesimo, le caratteristiche simili. Il primo atleta fuori dal mondo, il secondo giocatore poliedrico e qualitativo. In uscita rispettivamente da Minnesota e Arizona, possono rivelarsi un ottimo contorno e garantire un buon impatto dalla panchina. Certamente non si tratta di due giocatori in grado di cambiare le sorti di una franchigia, tuttavia se presi nella parte alta del secondo giro potrebbero rivelarsi piacevoli sorprese. Entrano spediti nel nostro carrello.
Al loro fianco una confezione umile, ma targata Duke, “marchio” che difficilmente delude. Ryan Kelly è una power forward che di power ha ben poco. Lungo bianco dalle mani dolcissimi e dal QI cestistico elevato. Ha l’estremo bisogno di un centro di peso al suo fianco, in un contesto NBA l’adattamento al ruolo di ala piccola, ma rischierebbe di soffrire terribilmente nella metà campo difensiva. Potrebbe ricalcare le orme di Steve Novak, ma per ora siamo distanti anni luce da quelle garanzie offensive. Se è pur vero che contro Louisville una sua pessima prestazione ha determinato l’uscita di scena dei blue devils, testimoniando la sua importanza all’interno del sistema di coach K, allo stesso modo non ci convince a sufficienza in una sua eventuale carriera al piano di sopra. A malincuore riponiamo sullo scaffale la sua scatola, in attesa che qualcun altro la valorizzi appieno, il nostro consiglio va a qualche squadra europea.
Qualche passo ed eccoci inciampare su un enorme quanto appariscente scatolone. La confezione è addobbata a festa ed adornata da una fastosa coccarda che recita “Ncaa Champions 2013, Louisville Cardinals”. Si tratta dell’ispanico Peyton Siva. A pochi centimetri, nella penombra, un pacchetto è buttato a terra, snobbato da tutti, è Pierre Jackson, playmaker in uscita da Baylor. Pur ricoprendo lo stesso ruolo i due giocatori sono molto differenti tra loro: Siva non considerato per il draft fino alle Final Four, tutto d’un tratto ha scavalcato nelle classifiche degli scout NBA giocatori ben più continui e futuribili. Esaltato e incensato da una vittoria del titolo che non è totalmente sua, anzi. Intendiamoci, le prestazioni nella fase conclusiva del torneo del numero 3 dei Cardinals sono state di alto livello, tuttavia la nostra scelta è determinata da un anno intero di lavoro. Anno in cui la PG ventiduenne non ha mai brillato al punto tale da far prevedere un futuro a braccetto con Chris Paul e compagnia. Offensivamente limitato, gli preferiamo una vera e propria mitragliatrice come Pierre Jackson. Il piccolo orso è stato autore di un’annata da incorniciare. Uomo solo al comando di una squadra allo sbando, autentico trascinatore con i suoi 20 di media conditi da 7 assistenze ad allacciata di scarpe. Talento purissimo, entra di diritto nella nostra lista della spesa, facendoci tanto ricordare Isaiah Thomas.
Proseguendo la camminata sono due confezioni gemelle a catturare la nostra attenzione. A differenziarle soltanto il logo d’appartenenza. Sono James Southerland di Syracuse e Kenny Kadji di Miami. Entrambi lunghi, lunghissimi con la marcata fobia del pitturato e con mani adatte ad interpretare al meglio le più complesse sinfonie per pianoforti. Nella lega di Stern, dove sempre più possiamo ammirare specialisti atipici, loro risultano vera e propria merce pregiata. Vanno immediatamente ad occupare il nostro carrello.
Arrivando a metà corsia, passiamo in rassegna i vari Bullock, Whitey, Goodwin. Nessuno c’interessa particolarmente e vogliamo riservare lo spazio rimanente a pezzi unici che veramente meritino i nostri dollari.
Improvvisamente una luce che si accende e spegne di continuo ci porta ad osservare in alto infastiditi. Ed ecco apparire due braccia infinite coperte da maniche lunghe. Altezze vertiginose a cui pochi possono ambire, tra questi solo uno veste la maglia di San Diego State. Non ci si può confondere, è Jamal Franklin, guardia esaltante come poche nel panorama collegiale, sia da un punto di vista atletico che estetico. Le sue doti di folle saltatore, unite ad un’incredibile capacità di battere l’uomo dal palleggio, lo rendono prodotto finito e già pronto per il salto di qualità, magari con qualche chilo in più addosso. Di certo i 17 punti e i quasi 10 rimbalzi strappati in media in questa stagione sono un buon biglietto da visita per chiunque a Brooklyn avrà la fortuna di sceglierlo. Nonostante qualche fatica per raggiungerlo, riusciamo ad inserirlo nel nostro carrello delle meraviglie.
Neanche il tempo d’abbassare lo sguardo, che le nostre attenzioni sono attirate da una confezione con una particolare etichetta: “batterie infinite”. Non impieghiamo molto tempo a capire che si tratti di Allen Crabbe, non nascondiamo che anche le sue orecchie prominenti sono state di un certo aiuto. Vero e proprio maratoneta e tuttofare all’interno del sistema dei Golden Bears, terrificante tiratore in uscita dai blocchi ed arcigno difensore favorito dall’ottima fisicità. È stato spesso impiegato per occultare le prove offensive dei migliori realizzatori avversari, allo stesso modo ogni pallone decisivo era affidato alla sua giurisdizione. Esattamente come con Franklin non esitiamo a farlo nostro.
Bastano pochi passi ed ecco presentarsi dinnanzi a noi un signore di colore, dal volto familiare. Tiene stretta in mano un’action figure e veste un cappellino di Michigan. Il viso paffuto e i baffi non ci tradiscono, è mister crossover Tim Hardaway, ex stella degli Heat. Sta gesticolando animatamente, ma non appena ci vede si blocca, come pietrificato. Inizia ad avanzare verso di noi, sembra volerci parlare. Noi, rispettosi, non ci tiriamo indietro e ci apprestiamo a raggiungerlo lasciando ingenuamente il carrello abbandonato. Restiamo basiti quando la sua lenta camminata cadenzata si tramuta in una fluida quanto inspiegabile cora, uno, due, tre cambi di mano ed ecco il polso spezzarsi alla velocità della luce. L’esito è già scritto, altri due per Tim, anzi no. Ci voltiamo e la confezione che pochi istanti prima era saldamente tra le sue mani, ora troneggia tra i prodotti da noi scelti. Hardaway ci guarda e sorride, poi osserva il carrello ed urla: “Yo, italians, that’s my son! You’ve to pick him!”. Poche parole, poi una rapida fuga inseguito dalla sorveglianza del market. Ancora sotto shock ci affrettiamo a controllare il nuovo “pacchetto regalo”. Come ampiamente intuibile si tratta di Tim Hardaway Jr. Anche lui, come il padre, religioso tiratore. Dopo una straordinaria cavalcata, culminata con lo schianto contro i Cardinals, cerca ora riscatto al piano di sopra, per dare un seguito alla tradizione familiare. Dotato di una buona stazza e di un atletismo non indifferente per il ruolo che ricopre (tipica guardia tiratrice), potrà indubbiamente riservare gioie, se inserito nel giusto sistema di gioco. Perciò ringraziamo babbo Hardaway, che ora c’osserva soddisfatto dall’esterno del negozio, nascosto dietro un cestino dei rifiuti, mentre cerca maldestramente di camuffarsi e confondersi con l’ambiente artificiale del centro commerciale. Ovviamente il suo orgoglio non può essere escluso dalla nostra faraonica spesa.
Siamo ormai giunti a fine corsia. Non restano che due pacchi da osservare e, nostro malgrado, nel carrello c’è solo uno spazio vuoto. Shane Larkin e Giannis Adetokunbo, giocatori diametralmente opposti per ruolo, caratteristiche e provenienza. Il primo, arrogante playmaker di Miami, pare essere un po’ sopravvalutato. I 14 punti a gara nella passata stagione non ci colpiscono troppo, sempre in ombra ed assente ingiustificato nei momenti decisivi, certamente non quello che ci si aspetta da un giocatore considerato leader naturale. Le scarse doti difensive e le piccole dimensioni, non unite ad un talento trascendentale, ci lasciano parecchi dubbi. Dalla parte opposta un adolescente greco-nigeriano. Stella e promessa ellenica del futuro, dinoccolato ma fisicamente impressionante. 207 centimetri sono tantissimi, soprattutto se si gioca come ala piccola e se si dimostra d’essere al contempo buoni tiratori perimetrali ed efficaci ball handler. L’A2 greca probabilmente non è il palcoscenico ideale per giudicare un giovane talento e per capire se questo sia effettivamente pronto per attraversare l’oceano. I pochi fugaci dubbi che ci rimangono vengono estinti dal fatto che il prodotto sia a lunga conservazione, lontanissima la data di scadenza. Il gioiellino del Filathlitikos è, difatti, classe ’94. Abbandoniamo Larkin senza pensarci due volte ed aggiungiamo Adetokunbo al nostro carrello, chiudendo la nostra spesa con il maggior prospetto in un draft condito da tantissimi giocatori di buon livello e con ampie possibilità di valorizzarsi nel corso degli anni.
Ci dirigiamo alla cassa sperando d’aver fatto le giuste scelte e d’avere denaro a sufficienza, anche perché, a breve, saliremo in quel fastoso piano superiore, dove ad attenderci ci saranno i venti capi delle maggiori firme mondiali, tutti in attesa di una franchigia da guidare e, perché no, di una lega da dominare.
Michelangelo Mion & Gianmarco Pacione
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