Brad Stevens & i precedenti: coaches NCAA in NBA

Tra i tanti college americani che possono vantare una lunga e gloriosa tradizione cestistica, la Kansas University spicca particolarmente su tutte le altre. Questo ateneo fu infatti uno dei primissimi ad istituire uno specifico programma di pallacanestro, quando quasi tutto il resto degli States non aveva nemmeno idea di quale connessione ci potesse essere tra una palla e un cesto. Ad introdurre lo sperimentale progetto fu il nuovo insegnante di ginnastica, arrivato nel 1898, che divenne anche il coach della novella squadra collegiale; uno che di questo rudimentale gioco doveva saperne qualcosa, avendolo inventato pochi anni prima quando lavorava allo Springfield College, in Massachusetts. Eppure il leggendario dottor James Naismith, pur giocando soprattutto contro selezioni di ragazzi dello YMCA, chiuse le sue nove stagioni sulla panchina dei neonati Jayhawks col record di 55 vittorie e 60 sconfitte e, ironia della sorte, venne ricordato anche per essere l’unico allenatore con un record negativo nella storia di questo college, proprio lui che il gioco l’aveva inventato.

Considerato il contributo dato all’umanità con la propria creatura, non faremo certo una colpa al dottor Naismith per aver perso qualche partita di troppo. Comunque, dopo di lui i Jayhawks conobbero solo grandissimi allenatori, fin dal suo immediato successore (Phog Allen) per arrivare all’attuale Bill Self. Tra i tanti che hanno guidato Kansas ad ottime stagioni, coronate non di rado col taglio della retìna, ce n’è uno che viene ricordato per un’impresa mai più ripetuta: riuscire a vincere al college e ripetersi tra i professionisti. Il solo componente di questo esclusivissimo club risponde al nome di Larry Brown, che vinse il titolo NCAA nel 1988 appunto con i Jayhawks di Kansas, per poi passare stabilmente alla NBA, sfiorando il titolo coi Sixers di Iverson nel 2001 e coronando infine l’impresa tre anni dopo coi Detroit Pistons.

Nonostante la prospettiva di maggiore fama e guadagni più cospicui, non sono molti gli allenatori di college che hanno ceduto al fascino del piano superiore. Ad eccezione di Brown infatti il salto si è quasi sempre rivelato troppo lungo per tutti: al di la del fatto che sempre di allenare si tratta, la differenza tra il farlo a livello collegiale e professionistico è notevole, quasi due mansioni differenti. Recentemente però un team di enorme tradizione come i Boston Celtics ha deciso di riprovarci, scommettendo un po’ a sorpresa sul giovane golden boy al timone dei Bulldogs di Butler, quel Brad Stevens il quale, da vero arrivista di cui ha gran fama, non si è fatto certo intimorire dalla sfida. Un giovane coach emergente che si è costruito da solo, coi risultati del campo, alla guida di una squadra ancor più giovane e in piena rifondazione: questa l’idea del GM Danny Ainge, che puntando sull’allenatore due volte finalista NCAA si è preso però un rischio non indifferente.

Come accennato infatti, le precedenti esperienze di coach anche di grande esperienza e competenza che fecero il grande salto sono tutt’altro che edificanti. A cominciare dai tempi eroici in cui il basket professionistico muoveva i primi passi, e non di rado attingeva tecnici dal mondo collegiale. Nel 1952 i Baltimore Bullets ritenevano di aver fatto bingo con la firma del più vincente degli allenatori dell’epoca: Clair Bee, che in 20 anni alla Long Island University aveva tenuto un’irreale 95% di doppie vu. La percentuale si abbassò giusto un pelo tra i professionisti, visto che Bee chiuse i suoi due anni a Baltimora con un ben meno irreale 32-107 e un enorme buco nell’acqua.

Dopo questa esperienza Bee non volle più saperne in quanto a leghe professionistiche. Qualche anno dopo invece ci fu chi provò più volte il salto, forte di una prima esperienza più che positiva. Dopo 9 anni a La Salle infatti Paul Westhead fu assunto nientemeno che dai Los Angeles Lakers nel 1979, per far crescere la prima scelta assoluta Earvin “Magic” Johnson. Il ragazzo crebbe piuttosto bene, visto che con Jabbar guidò subito i gialloviola e il loro coach al titolo NBA; ma fu proprio lui, a detta di molti, a silurare Westhead a favore di Pat Riley nemmeno due anni dopo. Il coach ex La Salle non si dà per vinto, e ci riprova prima a Chicago (un anno, 28-54) e poi, forte di altre 5 ottime stagioni stavolta a Loyola, ai Nuggets a inizio anni ’90, con un’idea geniale: sfruttare la rarefazione dell’aria dei 2000 metri di Denver, correndo a più non posso. Ma il suo concetto di Run & Gun risulta piuttosto confusionario, e a fronte di un attacco che comunque gira bene (119 punti a partita), è dura vincere quando nella tua metà campo ne prendi oltre 130 a sera di media. Due stagioni col canestro del Colorado puntualmente violentato dagli avversari, 44-120 finale, e si chiude definitivamente anche l’esperienza di Westhead in NBA, che prima torna al college, poi si dà alla WNBA, peraltro vincendo un titolo con le Phoenix Mercury.

Gli anni passano, ma i risultati non cambiano granchè, e anche i ’90 vedono parecchi protagonisti del college basket arenarsi nelle difficoltà del piano superiore. Quello che forse è riuscito perlomeno a dare una certa continuità alla propria carriera in NBA, peraltro non proprio gloriosa, è PJ Carlesimo, chiare origini italiane, 12 anni a Seton Hall e poi il grande salto in Oregon nel 1994. Uno dei pochi tra quelli citati ad avere una squadra realmente competitiva, non fa malissimo coi Trail Blazers, ma con gente come Clyde Drexler, “Zio” Cliff Robinson, Rod Strickland e poi anche Arvydas Sabonis, si poteva fare decisamente di più di tre primi turni playoff consecutivi. Ci riprova all’ombra del Golden Gate ed entra negli annali, non tanto per i risultati (un poco gratificante 46-113 in due stagioni), quanto per l’aggressione subita da parte di Latrell Sprewell, con annessa squalifica record. Un altro bel 21-74 durante la trasformazione da Sonics a Thunder nonostante un Kevin Durant in squadra, poi l’ultima metà di stagione nei neonati Brooklyn Nets, con cui di nuovo non riesce a superare quel maledetto primo turno contro gli incerottati Bulls.

Nets che, ancora residenti nel New Jersey, hanno visto anche un altro italoamericano sedersi sulla propria panchina, con risultati non indimenticabili. Nonostante sembrasse uscito da I Sopranos, John Calipari qualcosa a Massachusetts University aveva fatto vedere; quando viene assunto nel 1996 l’idea è che possa ripetersi anche coi derelitti cugini dei Knicks. E invece altra stagione disastrosa (26-56 il record della prima), solo in parte riscattata dalle 43 vittorie della successiva con annesso ingresso ai playoff all’ultimo posto disponibile, visto che nella terza, complice l’infortunio di Sam Cassell, vince la bellezza di 3 delle prime 20 partite prima di essere licenziato. Il buon Calipari conferma una volta di più la sua fama di ottimo reclutatore in grado di riconoscere il talento (i movimenti di mercato furono tutt’altro che disprezzabili); ma in NBA non si fanno le squadre con le sole capacità di convincimento, meglio dunque tornare a costruire corazzate prima a Memphis University e poi a Kentucky.

Molto più breve e ai limiti del tragicomico fu invece il caso di Jerry Tarkanian: anche per lui quasi 20 anni di successi a UNLV prima di cedere alla corte degli Spurs nel 1992. Ma “Tark the Shark” morse solo il proprietario degli Spurs, Red McCombs, chiedendo insistentemente un play esperto. Tanto insistentemente che dopo 20 partite (e un discreto 9-11) venne cacciato pur di non sentirlo più.

A cavallo dei due millenni sembrò scoppiare quasi una moda per questi coaches di college; ma ancora una volta, i risultati furono deludenti, sfiorando talvolta il ridicolo. Molti, arrivati sotto i migliori auspici, durarono una stagione o poco più, come Reggie Theus da New Mexico ai Kings nel 2007, che pure non fece peggio di altri. Stagione singola anche per l’ultimo in ordine di tempo, quel Mike Dunlap, enigmaticamente scelto e cacciato un anno dopo da Michael Jordan per i suoi Bobcats, che segue di qualche anno uno dei primi capolavori del MJ dirigente: la nomina di Leonard Hamilton, chiamato ai Wizards nel 2000 dopo 9 eccellenti stagioni a Miami University, non certo un college di primissima fascia. Nell’unico anno da pro il suo 19-63 portò due conseguenze: la prima scelta assoluta al Draft, usata saggiamente da Jordan per chiamare Kwame Brown, e il ritorno dello stesso Airness sul parquet, visti i risultati della squadra. Perlomeno si può ringraziare Hamilton per averci indirettamente regalato altri due anni con Jordan nel suo ruolo più proficuo.

Addirittura due stagioni durò invece l’esperienza di Mike Montgomery ai Warriors, a partire dal 2004, dopo 18 anni a Stanford: biennio fotocopia (34-48 entrambi), nessun progresso apprezzabile, e via senza rimpianti per far spazio al profeta Don Nelson. Lo battè, ma solo in quanto a durata, Lon Kruger, un curriculum di tutto rispetto (Kansas State, Florida, Illinois) che gli vale l’assunzione da parte degli Hawks nel 2000. Primo anno di adattamento complicato, ma la post season resta un miraggio anche nel secondo, nonostante un roster di tutto rispetto (con gente del calibro di Jason Terry, Toni Kukoc, Shareef Abdur-Rahim). Il 2002/2003 dev’essere l’anno della svolta: torna Theo Ratliff da un lungo infortunio e arriva anche Glenn Robinson. Kruger alla vigilia si sbilancia spavaldamente: se non si faranno i playoff anche quell’anno, gli abbonati verranno rimborsati. Ipse dixit: cacciato dopo 27 partite (11-16), gli Hawks non arrivano ai playoff, e ovviamente nessuno rivede i propri soldi.

A parziale giustificazione si può prendere il fatto che molto spesso a questi allenatori vennero affidate squadre in ricostruzione, forse perché sono considerati più adatti a lavorare coi giovani. Colui che capitò ne LA squadra in ricostruzione per eccellenza fu Tim Floyd, brillante coach di New Orleans University prima e Iowa State poi, chiamato da Chicago nell’estate del 1998. Esatto, proprio quell’estate, quella della fine definitiva dell’era Jordan (non dirigenziale, fortunatamente). Quei Bulls erano una squadra del tutto nuova e tutta da rifare, certo; ma se 13 vittorie nell’anno del lockout e delle 50 partite totali possono essere comprensibili, molto meno lo sono le 17 e poi addirittura 15 delle stagioni successive, ovviamente stavolta su 82 partite. Dopo un’altra stagione iniziata 4-21, alla vigilia di Natale del 2001 anche Jerry Krause, la mente dei 6 titoli jordaniani, dovette rassegnarsi e licenziare il suo pupillo, che chiuse l’avventura nella Windy City con l’agghiacciante record di 49-190. Andò un po’ meglio due anni dopo nella “sua” New Orleans, stavolta Hornets, che portò ai playoff (41-41) e si arrese agli Heat solo in gara 7, venendo comunque sollevato a fine stagione. Detiene tuttora la peggior percentuale di vittorie per un coach con più di 200 panchine nella Lega.

Furono forse tutti questi esempi poco illustri a passare davanti agli occhi di Billy Donovan, autore del caso forse più incredibile. Autentico eroe in Florida dopo aver guidato i Gators ad uno dei rarissimi repeat della storia della NCAA (2006-2007), viene prontamente contattato da una delle due squadre professionistiche locali, gli Orlando Magic, che gli offrono un allettante quinquennale da 27 milioni complessivi, che il coach accetta. Il suo record in NBA? 0-0. Donovan infatti firma l’1 giugno 2007, ma il giorno dopo già ci ha ripensato. Tratta qualche giorno e poi rescinde il 6 giugno, per tornarsene dai suoi Alligatori e forse evitarsi una figuraccia, coi Magic che però restano con un palmo di naso.

Cinque giorni sono passati ampiamente dalla firma, e Stevens ancora non ci ha ripensato; probabile quindi che perlomeno la stagione la cominci. Certo che per un coach proveniente dall’NCAA la panchina di Boston deve pesare il doppio, visto che proprio i biancoverdi furono protagonisti di uno dei peggiori flop, quando nel 1997 decisero di dare le chiavi della franchigia a Rick Pitino. Considerato uno dei migliori coach di college di ogni epoca, unico nella storia ad aver vinto due titoli NCAA con due differenti atenei (il secondo proprio quest’anno con Louisville), Pitino aveva fatto piuttosto bene anche tra i pro nel suo biennio ai Knicks a fine anni ‘80, risollevando una squadra prima in piena Lotteria. Così, visti anche gli straordinari risultati ottenuti a Kentucky, approdò a Boston con carta bianca totale (ricoprì allo stesso tempo gli incarichi di allenatore, GM, presidente, insomma divinità suprema) e tanto entusiasmo attorno, in una squadra che non si era ancora risollevata dal post era-Bird e dalla tragica fine di Reggie Lewis. Fu un mezzo disastro: scelte rivedibili (vedi la gestione di Chauncey Billups, scelto alla 3 e ceduto dopo pochi mesi), mai un record positivo in tre stagioni e spiccioli e ovviamente mai nemmeno l’ombra dei playoff. Lasciò il suo incarico nel 2000/2001, dopo l’ennesimo inizio di stagione complicato, tra la contestazione di media e tifosi che tanto lo avevano acclamato al suo arrivo, per tornarsene ai vecchi fasti del college basketball.

Insomma, i precedenti, anche in casa Celtics, non sono certo promettenti. Non sarà un lavoro semplice, ma Stevens ha già dimostrato di essere uno che sa il fatto proprio, ed è chiaro che il progetto di Ainge è strutturato su più stagioni e avrà dunque il tempo di lavorare tranquillamente. Per cercare di invertire questa rotta, e magari riuscire ad affiancare Larry Brown nel suo esclusivissimo club, come tutti i tifosi biancoverdi si augurano. Oppure per tornare a dominare il campionato collegiale; nel qual caso, non sarà certo in brutta compagnia.

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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