Categorie: Hall of Famer

Un guanto vecchio 45 anni

Il 23 Luglio di 45 anni fa nasceva ad Oakland, California, un pargoletto che di nome faceva Gary e di cognome Payton, che da lì a pochi anni avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia della pallacanestro.

La città in cui nacque il giovane Payton è da sempre fonte inestimabile di grandi talenti per l’NBA. Citiamo alcuni nomi, vecchi e passati, per corroborare tale tesi: Paul Pierce, Damian Lillard, Antonio Davis, Brian Shaw e tanti altri, senza contare i grandi fenomeni dei playground, con un nome su tutti, Demetrius “Hook” Mitchell. In un contesto come questo Gary non poté esimersi dal giocare a basket. I primi lampi abbacinanti di talento li fece intravedere alla Skyline High School, dove giocò con un futuro avversario della Lega, Greg Foster, poi campione NBA coi Lakers nel 2001. Finito il periodo liceale, per Payton si aprirono le porte dell’NCAA, segnatamente con la maglia di Oregon State University.

Al college la classe cristallina del giovane playmaker esplose come una bomba ad orologeria. La prestigiosa rivista Sports Illustrated gli concesse il grandissimo onore della copertina nel numero del Marzo 1990, definendolo il miglior universitario del paese. Più che le difese avversarie, a creare qualche grattacapo a Gary ci pensava lo studio. Con i voti che andavano al ribasso, ci volle l’intervento del padre per rimetterlo in carreggiata, incoraggiandolo a non abbandonare i libri pena l’impossibilità di proseguire la carriera cestistica. Con Payton i Beavers raggiunsero 3 volte il torneo NCAA, senza tuttavia riuscire a tagliare l’ultima retina della stagione. La loro stella si fregiò di vari titoli di MVP della Conference e di tanti record entrati negli almanacchi dell’università. Terminato il quadriennio con numeri roboanti, per Payton era molto chiaro che si sarebbe avverato per lui il sogno di milioni di ragazzini sparsi in tutto il globo: giocare nella National Basketball Association.

Il 27 Giugno del 1990, dopo che Derrick Coleman era stato chiamato al numero 1 del Draft  per mano dei New Jersey Nets, fu la volta di Gary andare incontro al Commissioner David Stern per sancire l’inizio della sua avventura nella Lega. A sceglierlo erano stati i Seattle Supersonics, una delle franchigie più gloriose nell’NBA, che avevano mancato di un soffio i Playoffs chiudendo con un record di 41-41. A guidare la squadra venne chiamato KC Jones, leggenda vivente dei Boston Celtics, incaricato di riportare i Sonics nell’élite della Lega.

Nonostante le premesse e la qualificazione alla postseason, le prime due annate per Payton furono tutt’altro che semplici. Fu messo nel quintetto base sin dalla prima gara, faticando però a trovare il ritmo in attacco. L’anno da rookie e quello da sophomore furono gli unici per il giocatore sotto la doppia cifra di media, ad esclusione delle ultime due stagioni. Le cose iniziarono a migliorare sul finire della stagione 1991-92, quando venne nominato come nuovo allenatore un giovane di belle speranze, un certo George Karl.

Nella stagione seguente i Sonics disputarono una grande annata. Accanto ad un Payton vicino all’esplosione definitiva, si era formato un gruppo di valore. C’era The Reign Man, Shawn Kemp, il destinatario ideale dei passaggi del playmaker. C’era un realizzatore del calibro di Ricky Pierce, il veterano Eddie Johnson e Mister-Sonic in persona, Nate McMillan. La squadra sorprese tutti e ad arrivò sino a gara-7 delle Finali della Western Conference. L’ostacolo tra Payton e la Finale contro Jordan ed i Bulls rispondeva al nome di Charles Barkley. The Round Mound of Rebound giocò una partita leggendaria, in cui fece registrare 44 punti e 24 rimbalzi, trascinando i suoi alla vittoria. Fu in quella serie che il cugino di Payton, vedendo la grande pressione difensiva che il parente esercitava su Kevin Johnson, gli diede il soprannome che lo ha accompagnato in questi 20 anni: The Glove, il guanto, per come gli avversari venivano inghiottiti dalla sua difesa asfissiante.

Nelle due stagioni successive i numeri di Gary iniziarono a lievitare. Arrivarono nel frattempo i primi riconoscimenti, con l’inserimento nel primo quintetto difensivo ed il terzo ed il secondo All-NBA. Payton venne convocato pure per gli All Star Game, iniziando una lunga serie che si sarebbe interrotta solo una decade più tardi. In campo invece si fece notare la sua personalità, che lo fece ergere a protagonista indiscusso dell’antica arte del trash talking. Radio Payton era sempre in onda 48 minuti su 48, salvo overtime, entrando sempre nelle teste degli avversari, portando spesso gli arbitri, inoltre, a mettere le mani a forma di T, con inevitabile tiro libero per l’altra squadra. Le due stagioni di Seattle si assomigliarono molto: dominio in regular season e puntuale upset subito al primo turno col vantaggio del fattore campo. Storico fu quello subito contro i Denver Nuggets nel 1994, sotto 0-2 nella serie e poi vittoriosi, demoralizzante quello del 1995 contro i Los Angeles Lakers privi di superstar. L’assenza di Jordan dai parquet non venne così sfruttata a dovere dalla banda di Karl, che venne confermato nonostante la sua sedia fosse divenuta ormai bollente.

La stagione 1995-96 fu probabilmente la migliore nella carriera di Payton. Vinse il premio di difensore dell’anno, un unicum probabilmente per una point guard. Con 2,9 palle rubate vinse anche la speciale classifica, ma furono i risultati di squadra a far gioire la Emerald City. Con la premiata ditta Payton-Kemp a crivellare di colpi i canestri avversari, ed un solido contributo di tutto il supporting cast, i Sonics ai Playoffs sconfissero in ordine i Kings, i Rockets bicampioni e, dopo 7 estenuanti sfide, gli Utah Jazz. Tutto apparecchiato per la grande sfida contro i Bulls delle 72 vittorie. Chicago si portò agevolmente sul 3-0 nella Finale, sfruttando l’inesperienza degli avversari. Fu a quel punto che Karl decise di far marcare Jordan da Payton. Il Guanto avvolse in un morsa letale Michael, che fece registrare tra i punteggi più bassi della sua carriera alle NBA Finals. Seattle reagì con 2 vittorie consecutive, prima di capitolare in gara-6 nonostante un Kemp favoloso ed un Gary che aveva tenuto decisamente testa allo strepitoso numero 23. I tifosi non potevano sospettarlo, ma quel gruppo non avrebbe mai più raggiunto tali livelli.

Dal 1996-97 al 2001-02 Payton ha continuato a migliorare le proprie cifre, diventando il beniamino dell’intera città ed uno dei simboli del basket degli anni’90. Career-high furono i 24,2 punti della stagione 1999-00, il top negli assist lo raggiunse due anni più tardi con una media di 9 a gara. La squadra, passata nel frattempo prima a Westphal e poi a McMillan, si fermava però puntualmente sul più bello nella postseason, mancando in due occasioni i Playoffs. Le gioie arrivarono invece con la nazionale, sotto forma di due medaglie d’oro olimpiche nel 1996 e nel 2000.

L’avventura di Gary in maglia Sonics si concluse nei primi mesi del 2003, quando il giocatore venne spedito a Milwaukee in cambio di Ray Allen. In estate, da unrestricted free agent, Payton passò ai Los Angeles Lakers, andando a far compagnia a Shaquille O’Neal, Kobe Bryant e Karl Malone. Una squadra che sembrava destinata all’Empireo della pallacanestro si sfaldò senza possibilità di appello in Finale contro Detroit, devastata da faide interne, infortuni vari e l’imminente abbandono di coach Jackson. Gary giocò tutte le partite segnando più di 14 punti di media, ma si sentiva ampiamente limitato dall’attacco triangolo che non prevedeva per lui grandi opportunità. Nei Playoffs subì l’onta della panchina nei momenti decisivi di molte gare, vedendosi ancora una volta sfumare il tanto agognato anello.

Dopo una parentesi interlocutoria a Boston, con la quale inizialmente si era rifiutato di giocare, Payton fu convinto ad accasarsi ai Miami Heat all’inizio della stagione 2005-06. Accettando la panchina in favore di Jason Williams, prima volta in carriera, Gary diede il suo contributo alla famosa cavalcata dei “15-strong”, conclusasi col titolo NBA. Nonostante le cifre, Payton fu decisivo in Finale, la terza della sua carriera: il canestro della vittoria in gara-3 ed un altro di importanza incalcolabile in gara-5. A 38 anni ce l’aveva fatta, era divenuto campione ed aveva conquistato, da pedina importante, l’anello dei trionfatori.

La carriera di Gary si è conclusa dopo l’eliminazione degli Heat al primo turno dei Playoffs 2007 contro Chicago. L’ultima stagione è stata un lungo farewell tour, che ha permesso al giocatore di raggiungere alcune posizioni chiave negli almanacchi della Lega. Payton attualmente è infatti alla posizione numero 10 per partite giocate, ottavo negli assist, quarto nei recuperi e 34esimo realizzatore con quasi 22 mila punti segnati. Al massimo della forma è stato indicato da molti come una delle migliori point guard di sempre, di sicuro una delle più complete, grazie a quella micidiale combinazione di attacco, soprattutto spalle a canestro, e difesa asfissiante.

Dopo alcune comparsate televisive, il nome di Gary ancora oggi è profondamente ancorato a Seattle. E’ promotore attivo nel tentativo di riportare il basket professionistico in città, tanto d’aver chiesto pubblicamente di non avere la maglia ritirata dagli Oklahoma City Thunder. Ufficiale è invece l’elezione nella Hall of Fame, con la cerimonia che avrà luogo nei prossimi mesi. Giusto tributo per un giocatore amato dai più, dalla forte personalità e dalla lingua lunga, tenace difensore e grande realizzatore. Buon Compleanno Guanto!

Alessandro Scuto

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Alessandro Scuto

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