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La fragilità del Grifone: Eddie Jamaal Griffin

In mitologia, il Grifone è un animale leggendario che affonda le proprie radici addirittura nei miti di epoca mesopotamica e che venne successivamente ripreso, con alcune differenze, in molte civiltà posteriori, fino al Medioevo cristiano. Era rappresentato generalmente come un essere piuttosto grande, dal corpo leonino e testa di aquila, spesso dotato di artigli e quasi sempre alato; si diceva che vivesse in esotiche e sconosciute terre del Nord, in cui custodiva l’oro delle miniere da altre strane creature che abitavano questi luoghi fantastici. Per questo motivo il simbolo del Grifone nel corso del Medioevo simboleggiava i concetti di custodia, vigilanza e protezione: non a caso viene tuttora utilizzato in parecchi stemmi, tra cui quello della Guardia di Finanza.

Sorprendente quanto queste caratteristiche si possano ritrovare negli ambiti più disparati. Perché il principale Grifone che il basket ricordi, Eddie Jamaal Griffin, oltre a essere un talento cristallino, era soprattutto un grandissimo difensore, in grado di presidiare il proprio canestro da qualsiasi attacco: anche in una Lega di atleti spaventosi, raramente si è vista gente con il suo tempismo e attitudine per la stoppata.

Difficile che Eddie conoscesse l’origine del proprio cognome. In compenso, già pochi anni dopo la sua nascita, avvenuta il 30 maggio 1982, sembra chiaramente essere l’ultimo dei numerosissimi talenti sfornati da Philadelphia. E sembra anche condividere la classe innata e lo stile impeccabile che da generazioni contraddistingue i prodotti della Città dell’Amore Fraterno, quasi sempre tiratori mortiferi, anche tra i lunghi. Non fa eccezione il nostro Eddie, che alla faccia di un fisico e di un atletismo che lo vorrebbero dominatore d’area è innamorato del proprio tiro da fuori, peraltro non certo disprezzabile, esattamente come Joe Bryant prima di lui (il padre di Kobe, per la serie “classe made in Philly”) e, in tempi più recenti, come Rasheed Wallace, cui il ragazzo somiglia molto, per caratteristiche fisiche e tecniche ma anche, ahilui, caratteriali. E se Sheed, nonostante qualche eccesso, riuscì a non sprecare il proprio incredibile talento, non lo stesso si può dire di Eddie Griffin.

Sui 2.10, braccia infinite, un già citato amore quasi malsano per il gioco perimetrale, compensato da una notevolissima presenza in area e a rimbalzo, Eddie è ovviamente la superstar della Roman Catholic High School, convocato tra gli All American e addirittura giocatore dell’anno secondo Parade Magazine. L’unica incognita è rappresentata dal suo pessimo carattere: dissapori, polemiche, qualche rissa, non pochi eccessi, ce n’è abbastanza per scoraggiare i migliori college della nazione a offrirgli una borsa di studio. Ripiega dunque su Seton Hall, ateneo non certo di primissima fascia a cui uno così fa parecchio comodo, anche con le proprie stravaganze caratteriali; e infatti già da freshman viaggia a quasi 18 punti, 10.7 rimbalzi e 4.4 stoppate (!!!), a proposito di presidiare l’area. Porta anche i Pirates al torneo NCAA, e a un certo punto sembra poter persino ambire alla prima scelta assoluta al Draft. Ma anche qui si presentano presto gli scontri con gli altri studenti, e a gennaio arriva alle mani col compagno di squadra Ty Shine. Poco male: con un talento pazzesco come il suo Eddie può permettersi di lasciare coach Amaker orfano della propria stella, dichiarandosi al Draft dopo un solo anno di college e lasciando Seton Hall e i problemi che ha trovato. Scappa dai propri fantasmi, il ragazzo, evita di affrontarli: non potrà però farlo per sempre.

Lotta tra Eddie Griffin e Robert Horry

Come Sheed, Griffin non è necessariamente una cattiva persona: tende però ad essere troppo impulsivo, a reagire male alle situazioni che si trova ad affrontare, complice una fragilità di fondo che non tarderà a palesarsi. La nomea di testa calda gli è comunque già stata cucita addosso, e al Draft parecchi lunghi gli passano davanti: solo alla 7 i Rockets decidono di scommettere su di lui, facendolo scegliere e poi girare dai Nets.

A Houston, agli ordini di un coach carismatico e notoriamente gradito ai giocatori come Rudy Tomjanovich, inserito in un gruppo giovane in cui uno dei leader, Cuttino Mobley, è di Philadelphia come lui, Eddie sembra poter trovare la serenità necessaria per poter esprimere tutto il proprio talento. Lo conferma la prima stagione, chiusa a medie onestissime per un rookie di nemmeno 20 anni (quasi 9 punti, 6 rimbalzi e 2 stoppate a sera). Ma già dal secondo anno, vuoi per problemi personali, vuoi per il circo mediatico che si scatena in Texas con l’approdo di Yao Ming (che peraltro ha caratteristiche complementari e dunque perfettamente compatibili con quelle del Grifone), lo sviluppo di Eddie stenta a decollare: numeri sostanzialmente invariati nonostante un maggior quantitativo di minuti e responsabilità, nessun vero miglioramento apprezzabile, ma anzi la sensazione di un passo indietro rispetto al primo anno. Perché le aspettative su di lui sono alte, la pressione è fortissima, ed Eddie reagisce nel peggior modo possibile: attaccandosi ad una bottiglia.

Complicato tener nascosto a lungo quella che in poco tempo diventa una vera e propria dipendenza. Se poi a Houston approda un sergente di ferro come Jeff Van Gundy, caratterialmente opposto al più accomodante Tomjanovich, diventa ancora più difficile. Il problema di Eddie non accenna a risolversi, anzi peggiora, intensificando anche i già noti episodi di scarsa disciplina. I Rockets portano pazienza per un po’, ma quando si comincia a saltare allenamenti e anche voli per le partite, si ricordano di non avere “Caritas” come nome di franchigia e danno al Grifone il benservito. Il suo immenso talento cestistico lo salva ancora una volta, procurandogli in men che non si dica un nuovo contratto con la squadra che l’ha scelto, i New Jersey Nets; ma anche stavolta Griffin non gioca una sola partita con Giasone e compagni, perché passa il resto della stagione 2003-2004 in una clinica di riabilitazione per alcolisti. In mezzo, le solite grane caratteriali, stavolta con l’ex fidanzata che lo accusa di aggressione (difficile non crederle, con i suoi precedenti), denuncia che gli vale anche undici giorni dietro le sbarre.

Sarà per il contatto diretto con la prigione, sarà perché forse, in un momento di lucidità, si rende conto che senza un minimo di testa il suo talento non potrà salvarlo per sempre, ma Eddie al via della stagione 2004-2005 sembra essersi finalmente ripulito. A dargli l’ennesima occasione sono i Minnesota Timberwolves, che gli offrono un contratto annuale come cambio dei lunghi, visto che le tronchesi di Mark Madsen non possono reggere il confronto con le sue mani da pianista. La squadra è buonissima e collaudata, viene da una finale di conference persa coi Lakers, e Griffin può giocare con poca pressione addosso; qualche bell’elemento c’è anche qui (Cassell e Sprewell ad esempio, con quest’ultimo a lamentarsi di non poter sfamare la propria famiglia con 7 milioni di dollari all’anno…), ma Eddie non si fa distrarre, e gioca una stagione solida da sesto uomo chiudendo a 7.5 punti, 6.5 rimbalzi, le canoniche 1.7 stoppate (un’enormità considerati i 21 minuti d’impiego medio). All’alba dei 23 anni sembra aver messo la proverbiale testa a posto, essersi lasciato alle spalle gli errori di gioventù con quella maturazione personale che gli permetterebbe di diventare, se non la superstar che sembrava poter essere a inizio carriera, perlomeno un ottimo giocatore di questa Lega.

Ma quel carattere complicato, il suo atteggiamento autodistruttivo, non da ultimo le compagnie non certo di chierichetti di cui si circonda, sono elementi più forti della sua volontà. Non ce la fa a stare più di un anno lontano dai guai Eddie, e il secondo anno a Minnie, nonostante una squadra rifondata e un maggior coinvolgimento, comincia e finisce malissimo, con le cifre che si riducono consistentemente (unico dato in controtendenza, guarda caso, le stoppate, addirittura 2.1 in 19 minuti: sarebbero oltre 5 sui 48 totali). La sua esperienza, tra i pro e nella vita, sta prendendo una piega che oltre a prospettarsi tragica si tinge di elementi di grottesca comicità. Emblematico l’ultimo episodio per il quale finisce sui giornali: si distrae alla guida del suo SUV trastullandosi mentre guarda un film porno, e finisce contro una macchina parcheggiata. Ciliegina su questa pietosa torta, un video di sorveglianza che lo ritrae mentre piagnucola con la polizia perché è di nuovo oltre il limite alcolemico, per l’ennesima volta. Roba che sembra uscita da un film demenziale di serie B, e che invece è tristemente reale.

I T’Wolves, come tutte le altre squadre in cui è passato, ne hanno abbastanza. Comincia la stagione 2006-2007, ma è chiaramente ingestibile fuori dal campo e a marzo, dopo sole 13 partite disputate, viene tagliato. A 25 anni è fuori dalla Lega, di possibilità ne ha avute ma le ha sprecate una dopo l’altra, e nemmeno le sue indubbie capacità bastano ormai a convincere qualcuno a puntare su di lui, visto il suo poco edificante curriculum fuori dal parquet.

Nessuno sente più parlare di Eddie Griffin per qualche mese. Poi, a fine agosto, il suo nome torna di nuovo sui giornali, per la notizia peggiore: qualche giorno prima, il 17, c’è stato un incidente a Houston, un’auto è finita sotto un treno. Impossibile identificare subito il corpo carbonizzato del conducente, ma il calco dentale indica che è Eddie Griffin, il giocatore NBA. Sembra che, con un tasso di alcol nel sangue tre volte superiore al limite, non abbia rispettato un passaggio a livello e sia stato centrato dal treno in corsa. Una fine orribile, tragico epilogo di una spirale autodistruttiva che nessuno, lui per primo, è riuscito a fermare in tempo.

Chiaramente, Eddie Griffin non era un santo, e nemmeno una vittima o addirittura un martire. Non è un esempio di vita, al massimo è l’esempio di come sia possibile buttarsi via completamente, anche con capacità straordinarie, emblema di come anche i più grandi talenti, senza un minimo di testa a dirigerli, possano essere totalmente sprecati. Non è giusto incensare Eddie Griffin, ma nemmeno puntare il dito, dire che se l’è cercata: perché se ognuno è artefice delle proprie azioni e del proprio destino, ed è dunque impossibile discolpare Eddie dalle proprie responsabilità, è anche vero che ognuno subisce influenze, azioni, cattivi consigli, di persone che inducono all’errore o che dovrebbero evitare che questi errori si ripetano (e c’è stato chi, profumatamente pagato proprio per aiutarlo a scacciare i propri fantasmi, ha fallito miseramente). Ma al di la di tutti i discorsi, delle polemiche, delle accuse fondate o qualunquiste, resta il dramma di un ragazzo e di un grande talento morto a soli 25 anni; rimane solo la tristezza, pensando a ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Giusto quindi non scadere nell’ipocrisia e nella lode francamente ingiustificata, ma giusto anche non dimenticare, a sei anni di distanza, la vicenda umana di una persona e di un giocatore che di errori ne ha fatti tanti, ma che alla fine li ha pagati tutti in modo irreparabile. Perché questa è la realtà, non il mito, e anche un maestoso Grifone può uscirne sconfitto dai suoi stessi demoni, e rivelarsi irrimediabilmente fragile.

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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