A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 la NBA si trovò ad affrontare una serie di disgrazie che colpirono alcuni giocatori nel giro di pochi anni l’una dall’altra, e che provocarono lo sgomento generale non solo di coloro che a vario titolo lavoravano all’interno della Lega, ma anche dei milioni di appassionati sparsi per il mondo. Ogni tanto qualche lutto o evento shoccante riguardante qualche professionista del basket era già stato registrato, e verrà registrato anche successivamente, com’è purtroppo normale che sovente accada; ma la serie che colpì alcuni sfortunati giocatori tra metà anni ’80 e inizio anni ’90 non ha, fortunatamente, precedenti, e ognuno di essi inferse un duro colpo alla Lega dell’allora giovane commissioner David Stern. Andando a memoria, addirittura col rischio di dimenticarne qualcuno, questa serie iniziò nel 1986, quando, due giorni dopo essere stato chiamato al Draft con la scelta numero 2 dai Boston Celtics, venne trovato morto il prospetto Len Bias, stroncato da un arresto cardiaco dovuto probabilmente a un’overdose di cocaina. Celtics che peraltro chiusero questo triste cerchio sette anni dopo, quando a cedere stavolta fu il cuore malato della loro star Reggie Lewis. In mezzo, la NBA pianse il centro Nick Vanos, deceduto in un incidente aereo nel 1987, e ovviamente Drazen Petrovic, andatosene a seguito di una collisione d’auto nel culmine della propria carriera nel 1993. Non fu un vero e proprio lutto, ma nel 1991 anche una delle stelle più luminose sconvolse il mondo intero, annunciando la propria sieropositività, all’epoca sinonimo di condanna a morte certa.
Fortunatamente, il progresso della medicina ha permesso a Magic Johnson, se non di guarire, perlomeno di vivere serenamente ancora molti anni, arrivando a spegnere, lo scorso 14 agosto, 56 candeline. Due anni prima di quel terribile annuncio, mentre Magic con ogni probabilità era intento a festeggiare il proprio trentesimo compleanno con qualche avvenente donzella, non troppo distante da Los Angeles si consumava l’ultimo e forse più controverso dei tragici episodi qui elencati. In quel 14 agosto 1989, infatti, il 24enne Ricky Alan Berry, reduce dalla sua prima stagione da professionista, si sparava un colpo alla testa nella sua abitazione a Fair Oaks, sobborgo di Sacramento.
All’indomani di un simile gesto la domanda che tutti si ponevano era una sola: cosa può aver spinto un ragazzo così giovane, che ha pure la fortuna di esser stato baciato da un talento fuori dal comune, il quale gli permette di poter vivere da privilegiato giocando a basket, a premere il grilletto contro sé stesso? Come può essere così disperato da farla finita, un uomo che vive da protagonista all’interno di un mondo apparentemente sfavillante come quello della pallacanestro professionistica americana? Tanto più che, a una prima occhiata generale, la biografia di Ricky sembra essere tutt’altro che tragica. Figlio di un allenatore, un nome che ha forte assonanza con quello di una leggenda del basket a stelle e strisce, la carriera da cestista di Ricky sembra essere scritta nel suo DNA fin da quando vede la luce a Lansing, capitale del Michigan, il 6 ottobre 1964. I genitori, per la verità, sono poco più che ragazzini: quando nasce papà Bill è un 22enne studente di Michigan State, membro della squadra di basket collegiale. E’ un ottimo rimbalzista, ma un giocatore nel complesso non abbastanza buono per passare professionista, così decide di tentare la carta del coach, e nel 1966 porta baracca, burattini e anche il piccolo Ricky a Sacramento, dove ha trovato il suo primo contratto presso una high school.
Come il 99% degli eredi di allenatori (quell’1% è rappresentato dal solo Blake Griffin), Ricky sviluppa un ottimo tiro da fuori, tanto impeccabile tecnicamente quanto efficace in campo. E’ lo stesso padre ad allenarlo duramente in tenera età, portandoselo dietro in palestra come “ball boy” e mascotte delle squadre che allena, anche a livello di Division I quando torna per un biennio da assistente a Michigan State. Nel mentre, il figlioletto diventa sempre più alto per essere un esterno, assestandosi poco oltre i 2 metri; tornato in California, alla Live Oak High School di Morgan Hill (contea di Santa Clara) il suo tiro mortifero, scoccato da altezze improponibili per gli altri ragazzini, è ai limiti della legalità e i college già lo seguono con la bava alla bocca. Si diploma nel 1983 e la scelta cade su Oregon State del vecchio coach Ralph Miller, capace peraltro di reclutare uno come Gary Payton tre anni dopo. Ma col futuro Guanto Berry non ci giocherà mai: minuti non gli mancano ma non si trova bene e in campo si vede eccome (chiude il primo anno a 3.8 punti di media), e così dopo una sola stagione torna nella sua California con l’intento di giocare proprio per coach Bill Berry, che nel frattempo è diventato capoallenatore a San Jose State. Inizialmente il padre non è convinto, teme che il suo stile piuttosto severo possa incrinare il rapporto con il figlio, ma ci pensa la moglie Clarice a convincerlo. Anche perché uno così a SJSU non può altro che far molto comodo: dopo l’anno di inattività, obbligatorio dopo un trasferimento, Ricky gioca tre stagioni da assoluta superstar (17.7, 20.2 e oltre 24 nell’anno da senior, sempre con percentuali che attentano il 50% anche dalla lunga). Non gli riesce l’impresa di trascinare i suoi Spartans al torneo NCAA, ma gli scout NBA si segnano comunque il suo nome.
E’ il periodo migliore della breve vita di Berry, culminato nella primavera-estate 1988, in cui termina il college, sposa Valerie e si dichiara per il Draft. E’ la prima edizione in cui vengono drasticamente ridotti i giri di scelta, da sette a tre; le qualità del prodotto di San Jose State sono indubbie, c’è solo qualche perplessità per l’anagrafe, visto che va ormai per i 24 e i suoi margini di miglioramento non sembrano essere infiniti. Così Ricky scivola fino alla 18, quando i Sacramento Kings fanno il suo nome. Non poteva sperare di meglio: giocherà nella città in cui ha passato la sua prima infanzia, non distante dalla famiglia e dagli affetti, elemento non indifferente per un ragazzo sensibile, talvolta anche introverso e silenzioso, com’è ormai il figlio di Bill.
Solo in campo sembra trasformarsi, giocando fin da subito, anche tra i pro, con grande intensità. Ovviamente all’inizio non ha tantissimo spazio, ma i Kings sono una squadra piuttosto nuova e non molto competitiva, nonostante l’arrivo di Danny Ainge da Boston a stagione in corso, e così Ricky può guadagnarsi i suoi minuti, sera dopo sera, tripla dopo tripla. Perché ormai il suo tiro è micidiale anche per la distanza NBA, e lo porterà a chiudere come miglior tiratore di squadra dalla lunga. Le cifre finali parlano di 11 punti col 45% dal campo e un ottimo 40.6% da tre in 22 minuti sul parquet, ma la sua stagione si chiude in notevole crescendo: ne rifila 34 ai Warriors il 9 febbraio, e l’ultimo mese e mezzo fa registrare oltre 18 punti e quasi 6 rimbalzi in 35 minuti. Insomma, una stagione da rookie di tutto rispetto, una carriera davanti che si prospetta rosea, i Kings che pensano già di aver pescato il jolly con uno specialista che sta diventando anche un ottimo giocatore a tutto tondo.
E invece, tutto si spezza all’improvviso, in modo inaspettato e inspiegabile, quella notte di metà agosto. Un vero e proprio fulmine a ciel sereno che lascia tutti basiti e increduli, da chi lo conosceva solo di fama a chi invece era più intimo e mai si sarebbe aspettato un simile epilogo. Di certo, in quella notte, c’è solo il litigio con la moglie, che alla fine se ne va a passare la notte altrove; Ricky resta solo coi suoi pensieri e i suoi fantasmi, e il giorno dopo viene trovato cadavere. Lascia un biglietto, in cui indica come causa del gesto estremo proprio i problemi coniugali con Valerie, di cui è innamorato ma che, afferma, non lo ricambia e si sta approfittando di lui e del suo status di privilegiato. Eppure, molti conoscenti e amici non riescono a credere che dietro ci siano solo delle difficoltà famigliari, di cui i più nemmeno sospettavano minimamente.
Si parlerà di problemi economici dopo l’acquisto della lussuosa casa, di pressione per le aspettative dei suoi cari e dei Kings per la stagione successiva. Ma la verità e la risposta a questi interrogativi può essere solo una: non c’è una risposta, non ci può essere, ed è stupido arrovellarsi nel cercarla ad ogni costo. Come ogni suicidio, nessuna motivazione può spiegare efficacemente la rinuncia alla vita, specie quando si tratta di un ragazzo che non aveva ancora compiuto 25 anni; tutte le speculazioni restano parole al vento di fronte ad un dramma simile. Niente può convincere chi l’ha conosciuto e non ha mai sospettato nulla, papà Bill e mamma Clarice, Valerie, gli amici e conoscenti: per loro ogni possibile perché risulta insoddisfacente e vano. Solo Ricky poteva conoscere le radici della propria inquietudine, evidentemente tanto profonda da non poter certo essere alleviata da vuoti privilegi materiali; e l’unica cosa che resta a noi che lo ricordiamo è sperare che almeno sia riuscito a trovare la pace che cercava e che non ha potuto conoscere in questo mondo.