Pochi giorni fa abbiamo festeggiato un anno dalla nascita di NbaReligion (traguardo per il quale ringraziamo tutti voi che decidete di dedicarci il vostro tempo, leggendo, commentando e discutendo con noi dello sport e della Lega più bella del mondo). Inevitabile quindi, in 365 giorni (e più) in cui sono stati pubblicati migliaia di articoli, aver parlato, descritto, raccontato la vita e la carriera di Allen Iverson, idolo di molti, discusso da tutti. Perfetta e completa è la disamina fatta qualche mese in tre “puntate” (Parte 1, Parte 2, Parte 3), in cui si racconta con minuzia di particolari la sua storia, una di quelle da far leccare i baffi a chi per diletto scrive di basket NBA.
Per questo vi starete chiedendo: perché ne vuoi parlare di nuovo? Cos’altro c’è da scrivere? Beh, in realtà lo “spunto” è venuto fuori quando su Youtube ho trovato la sesta puntata della collana “I love NBA” intitolata “Allen Iverson – The Answer”. Facile intuire a chi fosse dedicato il documentario di un’ora. (riporto subito il link per chiunque abbia intenzione di vederlo) Quello che mi ha spinto a scriverne è il fatto che l’arco temporale racchiuso all’interno dei 60 minuti termina con la Finale del 2001 (non è che voglio anticipare niente a nessuno, però sono cose talmente note che non mi sembra di far un torto dicendo che Iverson quella finale l’ha persa), all’apice della carriera del giocatore dei Sixers.
Nonostante questo, escludendo quindi tutti gli insuccessi e i problemi venuti dopo, Iverson anche all’interno di un resoconto del genere, resta un giocatore che continua a non convincermi. Cerco di spiegare il perché. Il messaggio è fin troppo chiaro, facile da interpretare. Il ragazzo che ce l’ha fatta, riuscito ad evadere dal ghetto, a costruirsi una fama mondiale. Il piccoletto che giocava e vinceva (fino ad un certo punto) in mezzo ai giganti. E potrei andar avanti così per ore.
Io però ho sempre visto la questione in maniera diversa (ripeto se non fosse già chiaro abbastanza, non sto tenendo conto di tutto quello successo dopo il 2001, dei problemi degli ultimi anni e degli ultimi mesi). Il numero 3 dei Sixers è per me un fortunato per quello che Madre Natura o chi per lei ha deciso di donargli facendolo nascere. Un giocatore di 180 centimetri che vince all’High School da protagonista prima il campionato statale di Football e poi quello di Basket non è concepibile. La sua non è una rapidità “allenata”, frutto di ripetute, sudore, allunghi. E’ una strana sostanza che inizia a scorrergli nei muscoli al posto dell’acido lattico. “Mai visto un essere umano compiere movimenti a quella velocità, figurarsi con una pallone da basket tra le mani” (non ho trovato una puntata di Sport Science dedicata a questo, ma credo che qualora vi fosse i “numeri” che la descriverebbero sarebbero impressionanti).
A fronte di tutto questo la vita può metterti davanti a prove molto difficili, a situazioni in cui il confine tra giustizia e torto e talmente labile che neanche con la buona fede se ne può discernere la differenza. Proprio per questo non mi permetterei mai di giudicare i trascorsi e le vicissitudini di una vita complicata come quella di A.I.. Quello che io “contesto” ad un indiscusso campione come il 3 di Philadelphia è la totale (o quasi) assenza di abnegazione mostrata verso il gioco. Emblematico è il passaggio all’interno del documentario in cui si descrive la spaccatura (poi fortunatamente risanata) con coach Larry Brown, legata alla totale indisciplina e mancanza di impegno da parte di Iverson.
Quello che a me da i brividi nel basket (e quello che cerco) è l’esatto contrario. E’ il risultato ottenuto col sudore, con l’allenamento, con l’ossessione, con la capacità di saper diventare dominanti con lo sforzo. Per intenderci io sto tutta la vita con Russell (e non ne faccio una questione di anelli) e non con Chamberlain (nonostante i risultati, a mio avviso uno dei più grandi “sprechi di talento” della storia dello sport). Sono punti di vista, lo so. E’ che se vuoi essere un accentratore (e Iverson aveva tutte le carte in regola per esserlo) devi dare l’esempio. Devi essere quello che suda più degli altri, altrimenti non fai breccia nel mio cuore (cosa che credo interessi fino ad un certo punto al numero 3).
Jordan, Magic, Bird, Bryant e tanti altri. Grandissimi talenti, mostruose capacità. Ma soprattutto tanto, tanto, tanto impegno. Sudore (l’avrò scritta 8 volte ‘sta parola). Ossessione.
Per quello alla fine il giocatore nato in Virginia non è riuscito a vincere secondo me. Perché non ha saputo lavorare fino in fondo su se stesso. Ha sempre anteposto il suo talento (un gran ben di Dio, per carità), ma questo non gli ha permesso di fare quel salto di qualità, quello che ti allunga la carriera, quello che ti fa mettere gli anelli al dito.
Ma forse, in fondo, meglio così. Altrimenti sarebbe stato davvero amato da tutti, ma non se ne sarebbe discusso così tanto. Sarebbe stato talmente perfetta come storia che tutti si sarebbero annoiati ad ascoltarla. E certamente non ci sarebbe stato motivo per scrivere questo articolo.