Categorie: Hall of Famer

Wild Dunk Bill

La storia di Billy Ray Bates sarebbe passata del tutto inosservata a chi vi scrive se non fosse stato, qualche anno fa, per quel genio che risponde al nome di Federico Buffa, autore del solito, ennesimo, ottimo articolo, incentrato sul giocatore in questione. Bates ha disputato solo 187 gare nella Lega, un’ inezia; eppure, la sua vicenda merita di essere raccontata, come caso esemplare di talento cristallino sprecato da una vita dissoluta. Una categoria che tra i professionisti ha annoverato file di potenziali stelle, non da ultimo quel Michael Beasley che in questi giorni prova l’ultimo rilancio della propria carriera in quel di Miami.

Billy nacque il 31 Maggio 1956, prodotto del ruralissimo Mississippi. Ottavo di nove figli, crebbe raccogliendo cotone, elemento tipico del Sud degli Stati Uniti, e altri prodotti della sua terra. A sette anni subì la grave perdita della figura paterna, andatosene troppo presto a causa di un perenne problema con la bottiglia, un elemento che troveremo più avanti nel racconto. Bates, nonostante l’importante lutto, si avvicinò sin dalla tenera età alla poco edificante arte del bere. Di pari passo crebbe anche il suo fisico, che lo fece avvicinare alla pallacanestro, complici due mani enormi ed un’elevazione straordinaria.

Alla Kentucky State University Billy mise a ferro e fuoco i canestri avversari, chiudendo le sue ultime due annate ad oltre 20 punti di media. Scelto al terzo giro del Draft 1978 dagli Houston Rockets, nonostante un grande potenziale le porte della NBA gli vennero sbarrate. Motivo? Il suo agente chiese per il proprio assistito un contratto garantito, con l’ovvia risposta negativa del management dei Rockets. Bates fu così costretto a ripiegare sulla non proprio ambitissima Continental Basketball Association, con la maglia dei Maine Lumberjacks. Billy si scatenò, vincendo il titolo di Rookie dell’anno e la gara delle schiacciate nel relativo All-Star Game. Proprio per le tremende affondate, capaci di rompere tanti ferri, al giocatore fu affibbiato il soprannome “Dunk”, “schiacciata”, un notevole biglietto da visita che non poteva lasciare indifferenti, nemmeno al piano di sopra. Fu così che i Portland Trail Blazers, nel Febbraio del 1980, lo firmarono con un decadale, per saggiarne la reale consistenza tra i pro. Per il nativo del Mississippi, si apriva il varco verso la NBA.

La Blazermania dopo il titolo del 1977 non accennava ad attenuarsi, eppure Portland aveva il look sinistro della squadra da fine dell’Impero Romano. Perso il faro Bill Walton, la scossa all’ambiente la diede proprio l’ultimo arrivato, Bates. L’impatto immediato si ebbe sui malcapitati San Diego Clippers, sommersi da 40 punti in 30 minuti. Nei Playoffs, nonostante la sconfitta al primo round contro Seattle, Billy fu il migliore dei suoi, con 25 punti di media. Altra annata e stesso leit-motiv, con una post-season da addirittura 28 ad incontro. Era diventato l’idolo dell’Oregon, per le sue giocate spettacolari ed i canestri come se piovesse. I più piccoli avevano la sua canotta, il suo faccione campeggiava pure in alcuni spot pubblicitari.


Il matrimonio di lunga durata con i Blazers non fu tale. Dopo un’altra stagione in doppia cifra, Bates venne scaricato da Portland. I problemi erano troppo evidenti: alcol e droga, tanto da dover andare in uno specifico centro di recupero. Il ragazzo che non sapeva cosa fossero gli assegni, a testimonianza delle sue origini molto umili, si trovava di nuovo con un pugno di mosche in mano. Tentò un rientro nell’annata 1982-83 prima con i Washington Bullets e poi con i Los Angeles Lakers campioni in carica, ma durò una ventina di partite. A 26 anni era fuori dalla Lega. Eppure Billy aveva ancora tanto da dare al basket.

Próxima estación: Filippine. Nella patria di Imelda Marcos era arrivato un dittatore dei parquet, pronto a stravolgere le classifiche del campionato asiatico. Bates nella PBA fu semplicemente “il” giocatore per antonomasia, dalle memorabili schiacciate in contropiede alle raffiche di punti messi a referto con enorme facilità. Divenne uno degli idoli del paese. Come ebbe a dichiarare lui stesso qualche anno dopo :”

Quelle persone mi amavano. Lì, ero come Michael Jordan. Avrei potuto avere qualsiasi cosa quando avessi voluto. Dovevo solo schioccare le dita. Avevo la mia villa, la mia macchina ed una guardia del corpo armata di Uzi. Dovevo respingere le donne.”

La versione dell’Estremo Oriente di Wilt Chamberlain continuò il personalissimo giro del mondo. Giocò in Svizzera, di nuovo negli States nella WBL, in Messico e Uruguay. Dopo aver fatto vedere grandi cose ai quattro angoli del globo, si presentò il “piccolo problema” della vita post-pallacanestro.

17 Gennaio 1998. Una stazione di rifornimento del New Jersey è vittima di una rapina che frutta un misero bottino, pochi dollari. L’aggressore, armato di coltello, ha anche ferito l’inserviente all’orecchio. Dopo varie ricerche, viene arrestato dalla polizia e finisce in carcere. E’ ovvio intuire che il protagonista della vicenda sia proprio Billy Ray Bates. Nel penitenziario si mantiene in forma, giocando sempre a pallacanestro con gli altri detenuti. In un’intervista nel 2004 diede addirittura appuntamento ai tifosi dei Blazers per un ritorno nella NBA. A quasi 50 anni. Era una boutade, ma serviva a chiarire la particolarità di tale essere umano e giocatore.

Dopo la scarcerazione nel 2005, Bates è stato di nuovo pizzicato sotto effetto di stupefacenti, finendo nuovamente in prigione per alcuni mesi qualche anno più tardi. Da allora, non è più rientrato tra i casi di cronaca nera. Ha lavorato in una catena di alimentari e poi come tecnico per una compagnia di riciclaggio. L’onore più grande è arrivato, manco a dirlo, dalle Filippine, dove è stato introdotto nella locale Hall of Fame. Nell’isola ha provato anche la carriera di allenatore, con scarsi risultati ed un licenziamento precoce. Ma laggiù, nessuno potrà mai scalfire la leggenda del Black Superman. Così come a Portland, nonostante la fugace apparizione da vera e propria meteora, i nostalgici ancora ricordano le gesta del numero 12 che faceva ammattire il Memorial Coliseum.

Alessandro Scuto

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