Categorie: Hall of Famer

Kermit e quel pugno di troppo

Da perfetto semi-sconosciuto ad All-Star, dai miseri punticini messi a referto alla high school ai rimbalzi catturati con ferocia nella NBA. La storia di Kermit Washington parrebbe quella del classico giocatore americano “che ce l’ha fatta”, emergendo dall’anonimato, dopo ore e ore di allenamenti, per crearsi un nome all’interno del contesto più importante del basket cestistico. A stravolgere il classico epilogo da American Dream andato a buon fine, un episodio, molto grave, che ritroveremo più avanti nel nostro racconto, e che rappresenta lo snodo ferroviario non di una, bensì di due carriere nella Lega.

L’infanzia di Washington non fu certamente tra le più facili. Nato il 17 Settembre 1951 nella capitale a stelle e strisce, il piccolo Kermit si trovò sballottato a destra e sinistra a causa di ricorrenti problemi familiari. Né il padre né la madre, affetta da bipolarismo, potevano permettersi la custodia del loro figlio, che dovette così cambiare casa e affetti continuamente.

Nonostante il fisico si stesse sviluppando, lo stesso non si poteva certo dire della tecnica e della mano. Washington all’high school fu un giocatore dai numeri mediocri, che non sembrava avere un futuro particolarmente radioso avanti a sé. Invitato ad un torneo riservato ai prospetti liceali della città, seppur non da attore protagonista, Kermit riuscì tuttavia ad attirare l’interesse della American University, grazie a sangue, fatica, sudore e lacrime, parafrasando Winston Churchill.

Gli anni del college furono probabilmente i migliori nella vita di Washington. Fuori dal campo conobbe la sua futura moglie, che lo avrebbe accompagnato anche nei successivi momenti bui. Sul parquet invece Kermit fece meraviglie. Gli Eagles disputarono il torneo NIT grazie alle prestazioni del loro centro, che sfiorò la convocazione alle Olimpiadi del 1972. Grazie ad un quarantello nella sua ultima partita universitaria, Washington chiuse la sua carriera collegiale con 20 punti e 20 rimbalzi di media, un evento non certo di ordinaria amministrazione.

Dopo gli anni bui della giovinezza, il futuro non prometteva certo male. Nel Draft 1973 Kermit venne scelto alla quinta chiamata assoluta dai Los Angeles Lakers, che avevano appena visto terminare la carriera dell’inimitabile Wilt Chamberlain. Le difficoltà però erano in agguato dietro l’angolo. 3.8, 4.5, 3.4: queste il misero bottino che raccolse il giocatore nei primi 3 anni da professionista. Gli enormi problemi nella conversione da power forward a centro, la soggezione verso Jerry West e l’ambiente giallo-viola in generale e gli evidenti limiti tecnici, fecero di Washington un perfetto carneade, papabile sotto l’etichetta “bust del Draft”.

La svolta avvenne all’inizio della quarta stagione tra i pro. Frustrato dalle continue panchine e dalla mancanza di rispetto, di compagni e avversari, Kermit decise di rivolgersi al dirigente che lo aveva scelto per farsi insegnare i classici trucchi del mestiere. Fu così che Pete Newell iniziò a prendersi cura del suo protetto, per dimostrare la bontà del proprio operato e restituire ai Lakers un giocatore. Con ore e ore di massacranti sedute, Washington apprese quei rudimenti che gli sarebbero venuti buoni sui parquet della Lega. Contestualmente Newell si guadagnò quella fama, che sarebbe durata per anni e anni, di grande istruttore di lunghi, che lo avrebbe portato ad istituire il famoso big man camp alle Hawaii.

Con l’acquisizione di Kareem Abdul-Jabbar, Washington scalò alla più congeniale posizione di ala. Ritrovando la grinta del college, riuscì a stupire tutti, a partire dal front office di Los Angeles, giocando una grande stagione, chiusa sfiorando la doppia doppia di media nonostante un serio infortunio al ginocchio. L’annata successiva cominciò nella migliore maniera possibile, con più di 11 punti ed oltre 10 rimbalzi di media nella prima ventina di gare. Il ruolo di Washington era diventato quello dell’enforcer, ossia l’angelo dalla faccia sporca che si premurava di difendere i propri compagni. La NBA degli anni’70 era caratterizzata da molte scazzottate alla Bud Spencer e Terence Hill, ed in ogni squadra vi era bisogno di una figura del genere in grado di assicurare protezione e gioco duro. Addirittura Kermit apparve sulla copertina di Sports Illustrated, in un numero interamente dedicato agli enforcer della Lega. Poi, una sera di inizio inverno, avvenne il fattaccio.

9 Dicembre 1977, a Los Angeles arrivano gli Houston Rockets. I giallo-viola sono stati già al centro di diverse risse dall’inizio della stagione, con i loro avversari che cercavano in ogni modo di far innervosire, riuscendoci, Jabbar. Nonostante i fatti non siano interamente chiari tutt’oggi, il casus belli fu una lotta a rimbalzo tra i lunghi dei Lakers e quelli Texani. Kevin Kunnert si allaccia con Kareem sotto canestro, la situazione sembra non degenerare, se non fosse che il centro dei Rockets viene a contatto con Washington. Un gomito tira l’altro, solo che Kermit, in una colluttazione che va via via crescendo, colpisce il suo avversario alla testa. In quel momento si avvicina al teatro delle operazioni Rudy Tomjanovich. Rudy, volto della franchigia, nonostante il grande spirito combattivo, non è sicuramente un attaccabrighe. Il suo unico errore fu quello di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato.

Evidentemente sopraffatto dall’adrenalina in corpo, Washington istintivamente tirò un terrificante pugno alla figura che aveva intravisto vicino a sé. Proprio Tomjanovich. In un silenzio surreale, con uno spaventoso rumore che fece tremare tutti i presenti, l’inconsapevole Tomjanovich fu centrato in pieno ed alla sprovvista, cadendo pesantemente a terra. Non lo sapeva, ma la sua vita era in pericolo.

Nonostante il giocatore si fosse rialzato con le sue gambe, il referto medico fu chiaro ed allarmante. Le ossa della faccia erano state spostate di quasi 1 centimetro, con conseguente riversamento di sangue e liquido spinale. In più, il tremendo pugno gli aveva provocato una commozione cerebrale e rotto mandibola e naso. Un disastro.

Tomjanovich rischiò di morire ma riuscì a farcela, tornando a giocare per qualche altro anno. Il volto era stato deturpato, il rancore verso Washington enorme, ma Rudy seppe far fronte al momento difficile. La ricompensa furono i due titoli NBA vinti con gli Houston Rockets da capo-allenatore, l’unico a saper sfruttare l’assenza di Jordan dai parquet.

Le fortune di Kermit Washington peggiorarono rapidamente in seguito all’incidente. Gli venne comminata una pesante sanzione ed una squalifica, diventando così caso esemplare per tutte le situazioni di risse, fino ad allora tollerate. I Lakers interruppero ogni contatto col giocatore, cedendolo contestualmente ai Boston Celtics. Anche nella vita privata le cose non si misero bene, con tanto di minacce di morte ai danni della sua famiglia. Quel pugno che stava per spezzare la vita di Tomjanovich, lo aveva privato della sua. 

Dopo un buonissimo scorcio di stagione con i Celtics, ed una discreta annata con i San Diego Clippers, lacarriera di Washington ebbe un sussulto col trasferimento ai Portland Trail Blazers. Grazie ad una doppia doppia di media, ed a molte defezioni, venne addirittura convocato per l’All Star Game 1980. Disputò un’altra ottima campagna NBA nell’Oregon, ma i guai fisici bussarono nuovamente alla porta. Kermit fu costretto a ritirarsi a 30 anni dalla carriera agonistica. A nulla valse un infruttuoso tentativo di ritorno con la maglia dei Golden State Warriors nel 1987. La sua avventura nel basket giocato era finita.

Appese le scarpe al chiodo, Washington ha avuto una vita post-basket molto avventurosa. Qualche risentimento verso coloro che l’hanno abbandonato o precipitosamente etichettato, magari a volte accentuato, e poche opportunità lavorative nella pallacanestro, accompagnate da investimenti e progetti umanitari a favore dell’Africa. Oggi ricopre la carica di rappresentante, per l’area della capitale, della National Basketball Players Association. Ancora oggi ricordato per l’episodio del pugno, solo una decina di anni fa è arrivato l’atteso perdono di Tomjanovich, con tanto di speciale documentario con entrambi presenti. Fortunatamente, seppur con esiti differenti, tutti e due hanno saputo recuperare da quel tremendo colpo da KO.

Alessandro Scuto

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Alessandro Scuto

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