In NBA ci sono squadre che fanno parlare di sè per qualunque cosa facciano o succeda intorno a loro, che anche senza volerlo sono sempre sulle prime pagine delle testate più importanti e sulle homepage dei principali siti specializzati, che sono sulla bocca di tutti anche per la più insignificante curiosità che le riguardi. E poi ci sono squadre che sono destinate a rimanere lontano dai riflettori per qualunque cosa facciano o succeda intorno a loro, che, nonostante un roster composto da giovani prospetti e senza stelle di rilievo, si giocano quasi in ogni stagione l’accesso ai Playoff in una giungla spietata come la Western Conference giocando anche una buona pallacanestro ma restano comunque ai margini della cronaca sportiva. E’ questo il caso degli Utah Jazz, che possiamo definire una “provinciale” nel panorama cestistico statunitense non tanto per i risultati ottenuti negli anni, quanto per la scarsa visibilità ricevuta dai media.
La storia che unisce lo stato dello Utah e la National Basketball Association prende il via nel 1979, anno del trasferimento della franchigia dei Jazz, fondata un lustro prima in quel di New Orleans nel 1974, a Salt Lake City in seguito ai tanti problemi economici che affliggevano la squadra in Louisiana. Problemi finanziari che continueranno nel tempo fino all’avvento della famiglia Miller, che dal 1985, fino ai giorni nostri, diventa proprietaria dei Jazz nella persona di Larry, cui è succeduto il figlio Greg dopo la morte del padre nel 2009.
Sebbene all’inizio di questa avventura i più avevano storto il naso per via dello scarso bacino d’utenza di Salt Lake City in una terra poco nota per la predisposizione all’interesse sportivo, i tifosi Mormoni, oltre a dimostrarsi fin da subito grandi appassionati di basket e a riempire l’allora Salt Palace per sostenere la squadra, si sono rivelati intenditori del gioco e pazienti nell’attendere le prime vittorie di rilievo della squadra dopo un periodo iniziale di assestamento. Il pubblico di Salt Lake City può tutto sommato ritenersi fortunato dato che negli anni ha visto calcare il parquet casalingo gente del calibro di Adrian Dantley, Pete Maravich, Karl Malone, John Stockton, Jeff Hornacek fino ai più recenti Andrei Kirilenko, Carlos Boozer, Deron Williams, anche se, con tutto il rispetto, gli ultimi tre qualche gradino al di sotto dei campioni citati in precedenza.
Dici Jazz e ti viene in mente Jerry Sloan, coach di Utah dal 1988 al 2011, simbolo di un era sia per la Lega sia per la franchigia. Durante il regno targato Sloan, i numeri sono lì da vedere: 19 apparizioni ai Playoff in 23 anni, 7 titoli divisonali, 2 conquiste della Western Conference e conseguenti 2 viaggi alle NBA Finals contro i Chicago Bulls in entrambi i casi. Ma in entrambi i casi lo strapotere di Sua Maestà, Michael Jordan, ha avuto il sopravvento sull’asse storico dei Jazz, “Stockton to Malone”. Dopo le dimissioni del febbraio 2011, le redini della squadra sono state prese da Tyrone Corbin, fedelissimo di Sloan prima in campo poi in panchina come assistente, che tuttora guida i Jazz e si appresta ad iniziare la sua terza stagione da capo allenatore.
La casa degli Utah Jazz è la EnergySolutions Arena, ritenuta una dei palazzetti più all’avanguardia della NBA in quanto a tecnologia e modernità. L’impianto è di proprietà della famiglia Miller ed è stato voluto fortemente dall’allora presidente dei Jazz, Larry H. Miller, che ne commissionò la costruzione nel 1990. L’arena è stata costruita a tempo di record, tanto che l’inaugurazione avvenne il 4 ottobre 1991 col nome di Delta Center, che rimase sull’insegna fino al 2006 quando la EnergySolutions comprò i diritti dell’arena e ne cambio la denominazione ufficiale. La capienza dell’arena, che ha ospitato anche le gare di pattinaggio nelle Olimpiadi invernali di Salt Lake City del 2002, è di 19911 posti a sedere.
QUINTETTO BASE
Trey Burke: playmaker da Michigan, scelta numero 9 dell’ultimo draft
Alec Burks: guardia da Colorado, alla terza stagione a Utah
Gordon Hayward: ala piccola da Butler, alla quarta stagione a Salt Lake City
Derrick Favors: ala grande da Georgia Tech, alla terza stagione ai Jazz
Enes Kanter: centro da Kentucky, alla terza stagione a Utah
DALLA PANCHINA
Richard Jefferson: ala piccola da Arizona, proveniente dai Golden State Warriors
Marvin Williams: ala piccola da North Carolina, alla seconda stagione ai Jazz
Brandon Rush: guardia da Kansas, proveniente da Golden State
Rudy Gobert: centro proveniente dallo Cholet (Francia), scelto alla chiamata numero 27 dell’ultimo draft
Andris Biedrins: centro ex Skonto (Lettonia), proveniente dai Warriors
John Lucas III: playmaker da Oklahoma State, proveniente dai Toronto Raptors
Brian Cook: ala grande da Illinois, la sua ultima squadra NBA è stata Washington
Jeremy Evans: ala grande da Western Kentucky, ha vinto la gara delle schiacciate all’All-Star Weekend di Orlando nel 2012
Dominic McGuire: ala piccola da Fresno State, ex Washington Wizards e Golden State Warriors
Scott Machado: guardia da Iona, proveniente dagli Houston Rockets
COACH
Tyrone Corbin: in carica dal febbraio 2011 come capo allenatore, in precedenza assistente nello staff di Jerry Sloan proprio ai Jazz a partire dal 2004
A Salt Lake City è la stagione della verità per tanti giocatori, che non sono più giovani speranze alle prime armi nella Lega ma che ormai hanno già affrontato qualche stagione di ambientamento in NBA e devono dimostrare di essere in grado di compiere quel salto di qualità che li consacrerebbe. Derrick Favors è approdato a Utah nell’inverno 2011 all’interno della trade che ha portato Deron Williams ai Nets come una testa calda ma dal grande talento. Nelle ultime stagioni sembra essersi “calmato” fuori dal campo ma sul parquet ancora fatica ad esprimere a pieno tutto il suo potenziale tecnico e il suo strapotere fisico per via della discontinuità di rendimento. Stesso discorso per l’altro lungo titolare, Enes Kanter, gigante con mani vellutate e piedi da ballerino, capace di momenti di illuminazione cestistica ma anche di blackout clamorosi e prolungati.
Non sembra avere gli stessi problemi Gordon Hayward, il leader silenzioso di Utah, versatile sia in attacco sia in difesa, il quale garantisce un rendimento costante nell’arco della stagione. Certo, non ha il carisma e la carica emotiva di Kevin Garnett o Tyson Chandler, ma sa assumersi le proprie responsabilità nei momenti chiave della partita e le sue letture dimostrano un quoziente intellettivo superiore alla media per quanto riguarda la pallacanestro. Il più atteso nella terra dei Mormoni però è di sicuro Trey Burke, play uscito dall’università di Michigan, dotato di un talento cristallino e che tutti gli addetti ai lavori candidano come il favorito nella corsa al premio di Rookie of the Year.
Stagione della verità non solo per i giocatori ma anche per general manager e coach. I risultati di quest’annata e l’evoluzione dei giovani su cui ha scommesso diranno se le scelte del GM Dennis Lindsey avranno pagato o se il progetto delle ultime stagioni imperniato sul trio Kanter-Favors-Hayward sarà da rivedere in parte, se non da accantonare del tutto. Di certo l’arrivo di Burke dà una spinta in più alla squadra di Tyrone Corbin, chiamato a dare una maggiore impronta personale allo stile di gioco che ricalca quasi in toto i dettami tecnici dell’era Sloan. Stagione della verità quindi non per tanti, ma per tutti in quel di Salt Lake City. Il motto è “largo al talento” ma basterà il talento dell’attuale roster degli Utah Jazz a consentir loro di strappare un biglietto per i Playoff? Come sempre nella Western Conference la battaglia sarà durissima, ma come sempre dimostrato anche negli ultimi anni i Jazz saranno sempre lì a sgomitare a ridosso delle migliori 8 ad Ovest per guadagnarsi un posto nella postseason: compito difficile ma non impossibile.