Piccolo quesito per gli appassionati NBA. Sapreste nominare quali sono stati quei campioni in grado di chiudere la propria carriera nella Lega con almeno 20000 punti e 15000 rimbalzi? I più risponderebbero in fretta, giustamente, Kareem e Wilt, veri epitomi di tale speciale nonché prestigiosa classifica. Qualcun altro, più attento, citerebbe Moses Malone, ben sapendo che l’omonimo Karl ha solo sfiorato l’impresa, causa una decina di rimbalzi di meno. Lista finita, giusto? E invece no. Perché a completarla troviamo un giocatore che ha segnato un’epoca, dalla metà degli anni’60 sino alla fine dei ’70, venendo però diverse volte dimenticato quando si parla delle più grandi power forward di tutti i tempi. Questa è la storia di The Big E, Elvin Hayes.
Hayes nacque il 17 Novembre 1945 in Louisiana, nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America. In un ambiente da tipico stereotipo di campi di cotone e discriminazione razziale, il giovane Elvin riuscì a tenere i nervi ben saldi nonostante le difficoltà insite nella vita quotidiana. Se pensate che questa sia la classica storia del ragazzo prodigio, predestinato sin da subito all’Olimpo del gioco, siete totalmente fuori strada. Hayes si avvicinò alla pallacanestro totalmente per caso, ed anche dopo l’incontro ravvicinato del terzo tipo dimostrò una goffaggine nei movimenti davvero impensabile, specie per chi poi lo avrebbe ammirato per circa due decadi. Una cosa però non mancava ad Elvin: la determinazione. Con grande spirito di sacrificio, di pari passo con la crescita fisica che lo portò oltre i 2 metri di altezza, lavorò tutti i giorni sulla propria tecnica, sviluppando il movimento che lo rese famoso in seguito, il turnaround jumper. Arrivato all’ultimo anno di high school, il talento di Hayes esplose in maniera fragorosa: 35 punti di media e campionato statale vinto. Le sue prestazioni non passarono inosservate, guadagnandosi parecchie attenzioni dai college di tutto il paese. A spuntarla fu Houston, che gli garantiva anche un’evasione dal contesto sociale che lo aveva accompagnato fino ad allora. Per Elvin fu un sollievo poter preparare la valigia, destinazione Texas. Sarebbe diventato il primo giocatore di colore nella storia dell’Ateneo.
Elvin Hayes fu uno dei più grandi giocatori collegiali di tutti i tempi. La grande attesa per le sue prestazioni non lasciò certo delusi gli spettatori, neutrali e non. Trascinò i Cougars sin dal suo arrivo nel 1966, a suon di punti e rimbalzi verso vette fino ad allora inesplorate nella storia dell’Università. Durante il suo triennio, infatti, Houston raggiunse per due volte la Semifinale NCAA, venendo però battuta in ambedue le occasioni dalla UCLA di Coach Wooden. Memorabili sono rimaste le battaglie contro Lew Alcindor/Kareem Abdul-Jabbar, in particolare la partita del 20 gennaio 1968. In un Astrodome infuocato, in diretta televisiva nazionale (evento per la regular season), con oltre 50000 tifosi a far baccano, in quella che fu definita il “Game of the Century”, i Cougars interruppero la striscia di 47 vittorie consecutive dei Bruins.
A griffare il successo fu proprio Hayes, con i due liberi del 71-69 finale, a coronamento di una grandissima gara e di una grandissima stagione. Non a caso, a fine anno, venne insignito del premio di Giocatore dell’Anno. Nonostante il titolo solo sfiorato, una volta chiuso il triennio d’oro con una media di oltre 30 punti e 17 rimbalzi, ad Elvin vennero riconosciuti i giusti tributi per tale cavalcata. La sua maglia numero 44 venne ritirata, in ossequio alle prodezze di quei favolosi anni.
Snobbata la scelta al Draft ABA degli Houston Mavericks, con poca suspense, Hayes fu la prima chiamata assoluta al Draft 1968. A selezionarlo furono i San Diego Rockets, franchigia con un solo anno di esistenza alle spalle. L’adattamento al basket professionistico fu abbastanza rapido. La prima annata nella Lega, infatti, fu un autentico capolavoro. Elvin fu top scorer NBA ad oltre 28 di media, ultimo esordiente a riuscire nell’impresa, disputando l’All Star Game e trascinando la squadra alla postseason. Incredibilmente non vinse il premio di Rookie of the Year. Il riconoscimento andò ad un nome che a breve ritroveremo nella storia, quel Wes Unseld che accoppiò tale trofeo a quello, addirittura, di MVP della Lega, centrato al primo anno. Davvero altri tempi.
Se fino ad allora la carriera di Elvin Hayes era stata più o meno trionfale, dalla seconda stagione in poi il tempo volse verso il brutto. Amato dai fans, il giocatore aveva rapporti non certo idilliaci con compagni ed allenatori. Nonostante le statistiche rimanessero ottime, i problemi creati da Hayes nello spogliatoio rovinavano, immancabilmente, la chimica della squadra. Frequenti furono le frizioni col nuovo allenatore, Alex Hannum, che già qualche anno prima aveva avuto il suo bel da fare con Wilt Chamberlain. Le valanghe di punti e rimbalzi non bastarono: San Diego non si qualificò alla postseason per due anni consecutivi. Cominciarono a fioccare frequenti critiche da parte della stampa, che centravano il proprio mirino sull’attitudine del giocatore e le sempre più numerose sconfitte. Neanche il trasferimento della franchigia a Houston invertì l’inerzia negativa del connubio Hayes-Rockets. Altra stagione ad oltre 25 punti di media, altri Playoffs mancati ed altri contrasti col nuovo coach, Tex Winter. L’avventura in Texas era finita.
La stagione 1972-73 vide l’esordio di Elvin con la maglia dei Baltimore Bullets, che di lì a breve si sarebbero trasferiti a Washington. Gli anni nella Capitale sarebbero stati i più importanti della sua carriera. Presenza fissa all’appuntamento galante con la postseason, in coppia con quell’Unseld che gli aveva soffiato il ROY qualche anno addietro, Hayes diventò la colonna di una squadra sempre più ambiziosa nella Eastern Conference. L’occasione propizia, esaurito il ciclo dei Knicks di Reed e Frazier e con i Celtics non dominanti come quelli di una decade prima, sembrò arrivare nel 1975. I Bullets raggiunsero la Finale con i favori dei pronostici contro gli avversari di turno, i Golden State Warriors guidati da Rick Barry. L’incantesimo si ruppe proprio all’ultimo. In uno dei più grandi upset nella storia delle NBA Finals, i Warriors travolsero 4-0 Elvin e compagni. Le critiche si fecero ancora più feroci. Hayes disputava sempre grandissime annate, ma la squadra sembrava incapace di compiere il passo decisivo. Il treno sembrava scappato definitivamente e con esso l’occasione per Elvin di mettere a tacere le critiche una volta per tutte.
La stagione 1977-78 sembrava la solita in quel di Washington D.C. Hayes a crivellare di colpi le retine avversarie, ma squadra destinata alla solita eliminazione precoce. Arrivati ai Playoffs, inaspettatamente, il vento girò. La squadra di coach Motta si sbarazzò di Atlanta, San Antonio e Philadelphia, ritrovandosi catapultata a delle improbabili NBA Finals. Avversari di turno i Seattle Supersonics, col vantaggio del fattore campo. Le squadre si scambiarono i colpi come pugili su di un ring, ma alla fine, sotto 2-3, i Bullets si risollevarono, vincendo gara-7 in trasferta e laureandosi Campioni NBA. Hayes era stato il miglior realizzatore dei suoi, ma nella gara decisiva aveva messo da parte l’egoismo e si era messo al servizio del collettivo, finendo con soli 12 punti. Ben più importante era l’aver conquistato il tanto agognato anello, dopo anni di insuccessi e roventi critiche. Sprizzava gioia da tutti i pori. “Vincere finalmente il titolo completa il quadro, perché nessuno si potrà mai più azzardare a dire che E non è un campione”. Giustizia era stata fatta.
Washington tornò in Finale l’anno successivo, sempre contro i Sonics. Elvin e compagni non riuscirono a bissare l’impresa e vennero sconfitti da una formazione vogliosa di vendetta. I numeri calarono solo lievemente nelle stagioni successive, ma il logorio di Hayes ed Unseld era abbastanza evidente. Nel 1981 la squadra non si qualificò per i Playoffs. L’anno successivo, Elvin venne rispedito al mittente, gli Houston Rockets. A 36 anni suonati era ancora una macchina efficiente, in grado di stare in campo per parecchi minuti e produrre buoni numeri. L’ultima stagione di Elvin Hayes è stata la 1983-84. Da panchinaro, quasi 40enne, sfiorò l’ennesima doppia doppia di media della carriera. Finita l’annata, per lui era tempo di chiudere l’incredibile esperienza cestistica.
Riposta la canotta in un cassetto, Elvin è tornato all’Università di Houston per completare le ultime materie prima della laurea. Scontata elezione nella Hall of Fame (1990) e tra i 50 migliori giocatori di ogni epoca, negli ultimi anni Hayes si è dedicato tanto alla pallacanestro, come opinionista televisivo, quanto ad un suo vecchio sogno da bambino, ossia diventare un poliziotto.
Le cifre finali di Elvin sono da capogiro. Stiamo parlando di un giocatore da oltre 1300 gare disputate e 50000 minuti in campo, una cifra astronomica. Ottavo realizzatore all-time, con oltre 27000 punti segnati, Hayes è anche il quarto rimbalzista ogni epoca della Lega, avendo scollinato oltre quota 16000. Vale a dire, il primo degli umani, dopo Wilt, Bill e Kareem. Davvero non male per quel ragazzino che sapeva a malapena prendere un pallone da basket in mano.
Alessandro Scuto