Categorie: Primo Piano

La caduta di “Lamarvelous” – Lamar Odom

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Man mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

La frase che introduce il film L’odio, magistrale lavoro di un Mathieu Kassovitz in versione regista, riassume allegoricamente quello che sarà l’andamento della pellicola: la caduta quasi insensibile di tre ragazzi tra loro molto diversi ma accumunati dalla vita di strada verso un atterraggio che si rivelerà invece essere molto doloroso. Intriso di metafore esistenziali, il film è ambientato in una Parigi insolita, ben diversa dall’immagine stereotipata di capitale della moda e della cultura: si tratta piuttosto della Parigi dimenticata, quella delle benlieue, dei sobborghi periferici, della precarietà mista alla rabbia, dove basta una scintilla a far esplodere l’odio troppo a lungo represso.

Kassovitz racconta dunque anche un’altra faccia della propria città natale, ma è un’ambientazione che potrebbe essere universale: dove c’è metropoli infatti ci sono sobborghi periferici, dove c’è periferia ci sono persone che tirano a campare come possono. E dove c’è precarietà ci sono altrettanti volti ignoti che senza tanta pubblicità finiscono in spirali simili a quelle raccontate dal regista francese, se non peggiori.

Uno di questi milioni di volti risponde al nome di Joe Odom. Lontano un oceano dalla Parigi di Kassovitz, ma anch’egli invischiato in un quartiere operaio come South Jamaica, il sobborgo a maggioranza caraibica ed afroamericana del Queens, New York City, Joe passa gli anni ‘80 tentando di sbarcare il lunario; la sua compagna di vita, più che la donna che gli ha da poco dato un figlioletto, è una sostanza dalla felicità solo effimera come l’eroina. Difficile prendersi cura del ragazzo quando le crisi di astinenza si fanno sentire, anche quando pochi anni dopo la madre naturale Cathy muore per un cancro al colon: come troppo spesso accade in questi casi, con una madre deceduta e un padre tossicodipendente, toccherà alla nonna materna Mildred prendersi cura del dodicenne Lamar Joseph Odom.

Mentre nel quartiere Nasir Jones comincia a farsi conoscere sotto lo pseudonimo di Nas, anche il giovane Lamar inizia a mostrare cose interessanti su un campo da basket. Non che non abbia una certa attrazione verso la cultura della strada e i pericoli che essa può comportare; ma Mildred riconosce subito che il suo talento è fuori dal comune, e gli fa cambiare tre high school pur di tenerlo lontano dai giri sbagliati, mandandolo addirittura in Connecticut nell’anno da senior. Ai tornei AAU gioca con gente del calibro di Elton Brand e Ron Artest, ma è lui la superstar: 208 centimetri di pura classe cestistica, mano mancina educatissima, trattamento di palla degno di un play di 1.80, e soprattutto la naturalezza sul parquet tipica di chi ha un’affinità superiore per questo gioco.

Uno scherzo della natura insomma, che i più entusiastici già accostano a Magic Johnson e che i college fanno a gara per reclutare. La spunta la University of Nevada-Las Vegas, ma prima ancora del suo esordio nella Sin City accade di tutto: tangenti, un test scolastico superato con un punteggio sospettosamente alto, e pure una denuncia per favoreggiamento della prostituzione per il figlio di Joe, che la strada ce l’ha proprio nel sangue. Mildred lo riporta allora nella Costa, nel più tranquillo Rhode Island, dove, dopo aver saltato il canonico anno post-trasferimento, Lamar chiude la sua unica stagione coi Rams (1998/1999) a quasi 18 di media e il primo titolo della Atlantic 10 della storia del piccolo ateneo, ovviamente con una sua bomba allo scadere contro Temple.

Basta un anno di college per capire che questo è già bello che pronto anche per il piano di sopra, e infatti al Draft 1999 passano solo tre chiamate prima di sentire il suo nome alla quarta. A farlo è Los Angeles, sponda sbagliata: sono i Clippers dei talenti mai trattenuti, reduci da una prima scelta assoluta convertita in Michael Olowokandi, scelta-simbolo di quel periodo della franchigia di Sterling. Con Lamarvelous va un tantino meglio: debutto in sordina da 30 e 12 rimbalzi, e primo anno con medie simili a quelle che teneva al college (oltre 16 punti, quasi 8 rimbalzi e 4 assist), con la stessa, incredibile naturalezza nel giocare tra i professionisti che già palesava con gli universitari. Il ROY gli viene soffiato solo dalla coppia formata da Steve Francis e dal concittadino Elton Brand, che lo raggiungerà a L.A. un anno dopo; ma nonostante una buona squadra, giovane e di talento (anche Andre Miller, Corey Maggette e Quentin Richardson), sono sempre i Clippers dell’epoca a. C. (avanti Chris, il cognome è superfluo), e quindi di playoff manco l’ombra. E molto spesso nemmeno di rinnovi: nell’estate 2003 pareggiano l’offerta di Miami per Brand ma non trattengono Lamar, che ha a sua volta ricevuto un’offerta dagli Heat e vola in Florida.

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Altra squadra giovane e di prospettiva, ma stavolta un po’ più organizzata: guidati da Stan Van Gundy, i ragazzini terribili di Miami (oltre a Odom e al veterano Eddie Jones ci sono Caron Butler, un giovane di buon futuro come Dwyane Wade e un altro funambolo del Queens come il mitico “Skip To My Lou” Rafer Alston) vanno a due vittorie da una sorprendente Finale di conference e sembrano avere il futuro dalla loro. Ma quando si prospetta la possibilità di portare Shaquille O’Neal a South Beach, Riley non ci pensa due volte e rimanda indietro Odom, assieme a Butler e Brian Grant, nella Città degli Angeli, stavolta nella sponda più gloriosa.

Inutile ricordare come, dopo un inizio complicato soprattutto per gli scarsi risultati dei Lakers, i 7 anni in gialloviola siano i migliori della carriera di Lamarvelous: due titoli (2009-2010) e tre Finali consecutive (anche nel 2008, sconfitti dai Celtics), con medie sempre intorno ai 15+10, anche quando viene spostato nel ruolo di sesto uomo, nel quale diventa addirittura più determinante (vincerà anche il trofeo di Sesto uomo dell’anno proprio nell’ultima stagione a L.A. nel 2011, primo Laker insignito di tale premio). Negli anni d’oro delle Finali arriva ad essere il vero metronomo della squadra, cambiando le partite col suo apporto dalla panchina come lungo duttile e perfettamente complementare ai più interni Gasol e Bynum. Nel 2009 poi raggiunge la fama anche fuori dal campo dopo il matrimonio con la minore delle tre sorelle Kardashian, Khloé, e la sua sempre maggiore presenza nei reality di dubbio gusto, ma popolarissimi negli States, che vedono protagonista la famiglia di starlette. Insomma, a 30 anni il ragazzino del Queens figlio di un tossicomane è arrivato alla vetta, professionalmente come nella vita privata.

Ma una volta sulla cima rimanerci è tutt’altro che scontato, e se non si può salire ancora, l’unico movimento possibile è verso il basso. La caduta di Lamar inizia dal campo di basket in cui ha sempre dominato con una facilità spiazzante: cosa che invece non accade dopo il suo approdo a Dallas per motivi salariali, nel cui sistema fatica ad adattarsi. Finisce addirittura in D-League, prima di tornarsene nella scintillante Los Angeles, dai Clippers che l’hanno scelto ormai 13 anni prima ma che ora hanno un Chris Paul in più. Non gioca una cattiva stagione, ma anche qui siamo ben lungi dal periodo gialloviola, e cominciano a girare le prime voci di un qualche problema più profondo. Le difficoltà sportive, una vita perennemente sotto i riflettori della spietata macchina dello showbiz di bassa lega in cui è finito con l’ultimo reality Khloé & Lamar, le stesse difficoltà coniugali, spesso peraltro provocate dalle sue scappatelle, e, last but not least, alcuni lutti che lasciano segni profondi (prima la perdita improvvisa, già nel 2005, del figlioletto di 6 mesi Jayden, e poi nel 2011 quella della nonna Mildred, persona centrale nella sua intera esistenza): i problemi sono molteplici, ma il risultato è la caduta tra sostanze che già avevano minato l’esistenza del padre, ben più pericolose della marijuana per cui aveva già avuto qualche problema con le norme NBA. Ma il crack, un ricavato della cocaina da fumare che crea elevata assuefazione, è tutt’altra cosa, e in estate Lamar non può più tener nascosta la propria dipendenza. E’ free agent, ma logicamente nessuno gli offre un contratto; resta senza squadra, aggravando ulteriormente il suo problema e salendo alla ribalta solo per fatti non certo edificanti (come la celebre “scomparsa” estiva a seguito del tentativo della moglie di portarlo a un centro di riabilitazione, o il video in cui fa rap in stato quantomeno confusionale).

E’ notizia del Dicembre 2014 che la moglie Khloé abbia presentato istanza di divorzio per i numerosi tradimenti e per i problemi di Lamar con la droga. Problemi che quest’ultima mazzata presumibilmente non ha fatto che peggiorare la situazione di un uomo fragile, facendo scendere Lamarvelous di un altro piano in questa sua caduta tanto repentina quanto verticale dalla vetta che aveva raggiunto grazie a quel talento straordinario che ha buttato via troppo presto. Per errori propri, certo, per un atteggiamento non sempre imprescindibile (in campo come nella vita, direbbe Nereo Rocco), ma anche per un momento di debolezza che rischia di costargli moltissimo.

Un anno e mezzo più tardi, dopo essere scomparso e riapparso sui parquet di gioco (prima in Spagna e poi brevemente ai Knicks) il “vecchio” Lamar si è fatto nuovamente conoscere tramite apparizioni in video privati (poi finiti sui social) dove prima litiga con un tifoso, e poi appare ubriaco/drogato al Night-Club fino a toccare il fondo nella seconda metà del 2015, quando il mondo NBA si sveglia con una notizia terrificante: Lamar Odom è vicino alla morte. Uno schock. Mille preghiere a quel Dio che non tutti amano, a quel Dio a cui non tutti credono, ma sempre si affidano, sempre invocano. La situazione migliora, piano piano. L’ex moglie Khloé torna al suo fianco, e sarà proprio lei a dargli forza per uscirne ancora integro. Lamar dopo mesi di lotta contro il suo stesso fisico torna ad aprire gli occhi e a respirare nuovamente aria pura. Toccare il fondo ti cambia.

Quanto? Al momento non è dato saperlo: questa storia non ha una conclusione, né positiva (come ci si augura possa finire la sua vita) né negativa. L’unica cosa sicura è che il ragazzo uscito dal Queens, proprio come l’uomo descritto da Kassovitz nel suo film, in questo momento è scivolato e sta cadendo anch’egli da un palazzo; fino a qui, tutto bene, sperando che riesca in qualche modo a frenare la propria caduta e a rendere il problematico atterraggio il più indolore possibile.

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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