Categorie: Editoriali NBA

A NBA Carol, Secondo Quarto: Il Playmaker Del Basket Passato

Passano lentamente i minuti e il sonno di Paul è disturbato da continui incubi e più volte si sveglia di soprassalto fissando l’orologio, il tempo sembra non scorrere mai. Finalmente la sveglia segna le 00.59 ed il ragazzo attende con un nodo alla gola il defluire dei secondi che lo dividono dalla tanto agognata ora x. Giunge l’1.00, il giovane deglutisce e inizia a guardarsi intorno, niente sembra succedere; passano un paio di minuti, ancora nulla. Il play di Inglewood comincia a sospettare di essersi immaginato tutto ma, proprio mentre sta per tornare mestamente a letto, qualcosa accade. Un rumore assordante riecheggia per tutta la stanza ed ecco una figura si manifesta alla finestra. Il ragazzo inizia a squadrare il mistico spettro dalle fattezze umane dal basso verso l’alto, cercando di capire chi possa essere. Ai piedi porta un paio di PF Flyers bianche vecchio stile, consumate soprattutto nella parte anteriore, calze anch’esse rigorosamente bianche che terminano sotto il polpaccio e fanno quasi un tutt’uno con la carnagione cerea, l’orlo dei pantaloncini verdi spunta solo a metà coscia. La parte superiore del corpo è coperta da una divisa del medesimo colore dei pantaloni, la scritta Boston sul petto e appena sotto il numero 14, la scollatura della maglia è ampia e sul petto si intravede un villoso pelo. Lo spettro si presenta con sotto il braccio un vecchio pallone da basket ormai logorato, un po’ come le scarpe; le mani sono grandi e su di esse brillano svariati anelli che sprigionano una violentissima luce. Gli anelli sono per la precisione sei, non sono propriamente recenti ma sono comunque ben curati e, dopo qualche secondo di trepidazione, Paul riesce a distinguere su questi ultimi la scritta World Champions. Non ci sono dubbi, la figura che si erge davanti a lui è un sei volte campione NBA. Il fisico non è dei più robusti e l’altezza si aggira intorno al metro e 85. Paul, dopo qualche tentennamento, trova la forza per guardare il volto dell’uomo. il viso è rilassato, sulle labbra un sorriso in parte rassicurante in parte beffardo, gli occhi sono vispi e neri così come i corti capelli segnati da una lieve stempiatura. Paul ha visto mille volte quei lineamenti, impossibile non conoscerli, se l’università per cui hai giocato ti onora con una statua di bronzo all’entrata del palazzetto, evidentemente qualcosa dovevi pur valere!

“Ma tu sei Bob Cousy?” domanda trepidante il ragazzo. Lo spettro annuisce mestamente ma non proferisce parola, limitandosi a porgere la mano al giovane Paul, che, dopo qualche secondo di esitazione tende a sua volta la propria. Una volta a contatto con lo spirito, il giovane sente una stranissima sensazione e si rende conto di essersi librato in volo e di essere a tre palmi da terra. Senza perdere troppo tempo, il fantasma si lancia verso la finestra da cui era entrato portandosi appresso il piccolo play che, terrorizzato dal potenziale scontro con il muro, inizia ad urlare. Con grande sorpresa riesce tuttavia ad oltrepassare agilmente l’ostacolo e si ritrova sospeso a diversi metri d’altezza. Cousy trascina così il ragazzo in un viaggio sorvolando coast to coast gli interi States. Durante il volo Paul si rende conto che il viaggio non è solamente nello spazio ma anche nel tempo; incredulo, osserva il territorio mutare miglio dopo miglio. In breve tempo i due raggiungono la loro destinazione: Boston. Più precisamente, Bob conduce il giovane all’interno del Boston Garden dove è di scena una sfida tra i Celtics e Minneapolis Lakers. Paul osserva il programma della partita e scorge la data, 27 Febbraio 1959. Ancora sconvolto dall’incredibile viaggio, inizia a guardarsi intorno e si rende conto di essere in uno scenario mai visto prima; l’atmosfera è completamente diversa da quella che respira ogni volta allo Staples quando giocano i suoi Lakers. Sugli spalti il pubblico è quasi esclusivamente bianco così come in campo figurano pochissimi giocatori di colore. Il primo giocatore afroamericano, Earl Lloyd, ha esordito solamente 8 anni prima, nel ’50-’51, anno in cui fece la sua prima apparizione lo stesso Cousy, e il processo di integrazione non è ancora in una fase così avanzata. Infatti, in maglia bianco verde solamente quattro giocatori su dodici sono afroamericani.

Il ragazzo guarda minuziosamente ogni dettaglio che lo circonda e solo dopo qualche minuto si rende conto di non essere più accompagnato da Cousy. Paul si guarda intorno cercando la sua guida e finalmente la scorge. Bob è in campo a disputare la partita contro i Lakers. Il los angeleno capisce cosa deve fare e si mette ad ammirare con cura ogni singola giocata del playmaker in maglia Celtics. Il numero 14 è totalmente padrone della situazione; la sua tecnica è sublime. Con la palla tra le mani fa tutto ciò che vuole ed impossibile rubargliela. Tra un cambio dietro la schiena e un palleggio in mezzo alle gambe batte gli avversari con irridente facilità, prima di servire comodamente il compagno libero che, senza troppi problemi, può segnare due punti. Il suo stile di gioco è superiore a quello degli altri nove in campo; le movenze, il modo in cui tratta la sfera, la fluidità… tutte caratteristiche che non appartengono di certo al periodo storico in cui si trova a giocare. Bob Cousy è semplicemente di un’altra epoca, un precursore: avanti anni luce rispetto ai suoi contemporanei. Di certo non si esime dall’arricchire il proprio referto personale appoggiando comode conclusioni al ferro ma, da buon playmaker qual è, predilige servire i compagni; quando il pallone lascia le sue mani, l’esito è già scritto: altri due punti per la squadra di casa. La naturalezza con cui riesce ad assistere i suoi è sbalorditiva; realizza cose che gli altri umani non possono neanche lontanamente sognare. Riesce a capire con largo anticipo come reagiranno gli avversari e di conseguenza sa sempre cosa fare. È al tempo stesso un freddo calcolatore e un folle visionario: un mix letale, soprattutto in questa pallacanestro. La gara la domina lui senza mezzi termini; all’intervallo il punteggio è già altissimo: 83 a 64 per i Celtics, e Bob ha confezionato ben 19 assist, record di tutti i tempi per la prima metà di una sfida NBA. Nella ripresa la musica non cambia e il 14 bianco verde continua a trascinare i suoi, servendo puntualmente un ispiratissimo Tom Heinsohn, che chiuderà con ben 43 punti. Boston scherza con i Lakers; nel solo ultimo quarto, la squadra di casa realizza 52 punti, uno dei tanti primati di questa partita. A sfida conclusa il tabellone recita un perentorio 173 a 139; i passaggi vincenti di Cousy sono ben 28 che, conditi da 31 punti, vanno a testimoniare la grandissima prova del giocatore.

Quest’edizione dei Celtics è troppo forte per la squadra di Minneapolis; non a caso, quell’anno si aggiudicheranno il titolo, sancendo così definitivamente l’inizio dell’egemonia bianco verde che si imporrà tra il ’57 e il ’69 per ben 11 volte.

“That’s unbelivable” commenterà Maurice Podoloff, all’epoca presidente della NBA, appena venuto a conoscenza del rocambolesco risultato della sfida. E ciò a cui Paul aveva appena avuto l’onore di assistere era veramente incredibile; Cousy gli aveva mostrato giocate che, persino al giorno d’oggi, farebbero sobbalzare anche il più metodico e moderato osservatore di pallacanestro.

Ancora incredulo, il ragazzo osserva dagli spalti il punteggio della gara; nel frattempo, i giocatori di Boston esultano e rivolgono saluti al pubblico, ma manca qualcuno alla festa. Cousy, infatti, non è più presente sul terreno di gioco. Paul lo cerca con lo sguardo in ogni angolo del campo, ma di lui non vi è nessuna traccia. Il giovane è decisamente preoccupato quando sente una mano toccargli la spalla; si volta repentinamente e, con grande sollievo, trova il volto di Bob che sorride, quasi soddisfatto. Paul vuole complimentarsi ma, appena aperta la bocca, lo scenario che li circonda inizia a mutare e, senza capire come, il ragazzo si ritrova nella sua camera, ove tutto attorno a lui tutto è normale e non vi è alcun segno di Bob Cousy nè di partite. Il giovane controlla l’orologio che, realisticamente, segna le 1.39. Stordito e molto confuso, contempla la stanza nella penombra cercando di scorgere qualche movimento sospetto: niente. Prova a tendere l’orecchio per identificare eventuali rumori, ma tutto tace. Per qualche secondo pensa che possa essersi trattato di un sogno, ma era tutto troppo concreto e dettagliato per essere solo una finzione. Senza troppi indugi, si alza e apre un cassetto, da cui estrae un vecchio almanacco; sfoglia smaniosamente le pagine e finalmente trova ciò che stava cercando. Scorre con rapidità i risultati dell’annata 1959 e, infine, trova Boston Celtics-Minneapolis Lakers; la carta non mente e lì, vivido troneggia l’implacabile 173 a 139. È la prova che gli serve; quella partita si è svolta realmente e lui di certo non poteva conoscerla per esperienza diretta, anche se all’improvviso alla mente affiora un ricordo… possibile che suo padre gli avesse narrato lo svolgersi di quella gara? Paul rimane con qualche dubbio ma sfoggiando un sorriso a trentadue denti, va a rimettersi sotto le coperte e ripensa a tutte le giocate ammirate poco prima. Non aveva mai visto giocare Bob Cousy, le sue gesta gli erano solo state riportate. Il titolo NCAA, i sei trofei NBA, il premio di MVP, gli 8 anni consecutivi da miglior assistman della lega, i 13 All Star Game, solo parole che gli avevano tracciato il profilo di un giocatore, ma che non gli avevano mai permesso di comprenderlo e apprezzarlo realmente. Ora, dopo averlo visto all’opera, Paul si rende conto che tutti questi riconoscimenti sono giustificati, così come quel numero 14 appeso sul soffitto del TD Garden e come l’elezione a membro della Hall of Fame nel 1971.

Ansioso di scoprire cos’altro la notte avesse in serbo per lui, Paul si mette a dormire, consapevole di aver appreso più dalla partita appena vista che da anni di duri ed estenuanti allenamenti.

 

Un ringraziamento a Lorenzo Natoli di Studio&Comunicazione per l’immagine copertina.

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