Nel 1971 è il turno del Nostro Eroe. Il giovane Darnell viene scelto al primo giro del Draft ABA. Con la 18^ assoluta lo chiamano gli Indiana Pacers, che gli offrono un ricco contratto. Darnell però è tentennante. È troppo legato a Mamma California e non se la sente di staccarsi dai suoi morbidi e luminosi seni. Chiede ai Pacers di aspettare almeno fino al Draft dell’NBA, perché spera in una chiamata dei San Francisco Warriors. La chiamata arriva.
I Warriors lo selezionano al primo giro con l’8^ scelta assoluta, ma i termini dell’offerta che gli presentano sono “leggermente” diversi rispetto a quanto proposto dai Pacers. Darnell si gioca l’ultima carta e chiede ai Warriors quantomeno di pareggiare l’offerta della franchigia dell’Indiana, ma a Frisco, esattamente come successo con Rick Barry, fanno le tre scimmiette.
«Va beh ragazzi, bello il sole, però credo di poter farmi piacere anche la neve.»
E così va. Indiana lo attende a braccia aperte. I Pacers sono un’organizzazione a 5 stelle. Fra le loro fila possono vantare giocatori come Mel Daniels, Bob Netolicky, Billy Keller, Freddie Lewis e Roger Brown, con i quali hanno già raggiunto due finali, vincendone una nel 1970. Nello Stato del Basketball, per la stagione 1971-1972, l’entusiasmo è alle stelle. Oltre a Darnell, infatti, i Pacers si sono aggiudicati al Draft George McGinnis, stella di Indiana University, nonché uno dei migliori prospetti a livello nazionale. Il 1971 però può essere considerato un anno di vera e propria svolta per l’intera lega. Assieme a Hillman e McGinnis entrano a far parte del circus altri due giocatori destinati a scrivere la storia di questo sport.
«For the Kentucky Colonels. At Center. 7’2’’, from Jacksonville. AAAAAARTISSSSS “THE A-TRAIN” GIIIIIIILMOOOOOOOOORE!»
E soprattutto…«For the Virginia Squires. 6’7’’, from Massachussetts. JULIUUUUUS “THE DOCTOR” EEEEEEEEEEEEEEERRRRVIIINGGG!».
È tripudio. NBA roditi un po’ il fegato!
Anche a livello di lifestyle l’ABA comincia a prendere il sopravvento. La palla rossa bianca e blu spopola nei playground. L’ABA diventa la lega preferita degli afroamericani e porta il basket di strada su grandi palcoscenici. Si gioca veloce. Si segna. Si schiaccia. Non si difende e si tira da tre punti. Tutto ciò, che prima era considerato una pagliacciata, diventa “seriously cool”. È un spettacolo itinerante, che concede ai suoi attori molte libertà rispetto all’NBA, specialmente per quanto riguarda il vestiario. Improvvisamente sembrano tutti usciti da Shaft o da Superfly. Abiti di colori sgargianti, attillati all’impossibile. Camicie con colli delle dimensioni di una guancia di Barry White. Cappelli a falda larghissima. Tonnellate di gioielli. E, soprattutto, acconciature Afro. Acconciature Afro a perdita d’occhio. VERY FLASHY!
A proposito di Afro, ricordate quando vi ho detto che tutti si ricordano di Darnell Hillman per le schiacciate e per un’altra cosa di cui vi avrei parlato? Ecco è arrivato il momento di sciogliere ogni riserva.
Darnell Hillman è proprietario del più bel casco di capelli Afro che lo sport professionistico ricordi. Anche Artis Gilmore e Julius Erving, compagni di draft di Hillman, sono degli esperti in materia, ma Hillman è il relatore della conferenza. Dà lezioni cattedratiche a tutti. La pettinatura Afro di Hillman è qualcosa di incredibile. «Way larger than a Basketball» così la definisce il diretto interessato.
«Quando finii l’esperienza con l’esercito, ero stanco di rasarmi la testa. – racconta Darnell – Una volta vidi in tv Angela Davis (attivista per i diritti civili) e rimasi colpito dalla sua splendida pettinatura Afro, a tal punto da volerla anch’io. Così li feci crescere, crescere e crescere. Dovevo pettinarli almeno 7 volte al giorno per averli come mi piacevano.» Però ragazzi, che risultato!
Se è vero che persino Dr. J chiede consiglio a Darnell su come ottenere degli Afro perfetti, altrettanto vero è che Darnell Hillman ottiene il nickname che lo accompagnerà per tutta la sua carriera proprio grazie ad Erving. Siamo nell’anno da rookie di entrambi. I Pacers e gli Squires si sfidano e Julius Erving fa quello che gli riesce meglio: martellare il canestro schiacciata dopo schiacciata. Il soprannome per lui è già stato creato da tempo. Ormai per tutti è “The Doctor”.
Hillman però non ci sta e fa vedere che non è da meno. I due mettono in scena uno scambio tennistico a colpi di ferro. Solo che Darnell un soprannome ancora non ce l’ha. A quel punto la palla passa in mano al telecronista a bordo campo che se ne esce con la “genialata”:
«Se Julius Erving è Dr. J., Darnell Hillman è per forza Dr. Dunk!» Nomen Omen.
Come ormai avrete capito, i destini di Darnell e Julius sembrano destinati ciclicamente ad incrociarsi. Magari passa anche del tempo senza che ciò avvenga, poi però è come se una forza magnetica li spingesse l’un verso l’altro, come se ne sentissero il bisogno. Hillman coi Pacers conquista 2 titoli ABA in back-to-back nel ’72 e nel ’73. Lo stesso farà Dr. J, che, ceduto dagli Squires ai New York Nets nell’estate del ’73, guiderà la sua squadra alla conquista dei titoli ’74 e ’76 (ultimo titolo assegnato dalla ABA prima del merger con la NBA). Assieme agli Afro e al Palmarès, dei due crescerà però soprattutto la fama di “Dunkers”.
È il 1976. All-Star Game dell’ABA e la lega se ne esce con un’altra grande trovata, destinata ad avere, anche in futuro, un discreto successo: lo Slam Dunk Contest. È il primo e vogliono le cose fatte in grande. Chiamano tutti i più forti al momento e tutti rispondono alla chiamata – altri tempi ragazzi, c’è poco da fare –. George Gervin, Artis Gilmore, ma soprattutto, David Thompson e The Doctor sono i partecipanti. La sfida, sostanzialmente, è tra Thompson ed Erving e si svolge senza esclusione di colpi. A un certo punto però lo speaker annuncia: «And now The Doctor goes to work». È il segnale.
Erving ha deciso che è arrivato il momento di dare al pubblico ciò per cui ha pagato il biglietto. Prende la palla. Si avvicina alla linea della carità. Poi la guarda. La osserva, come un falco pellegrino adocchia la piccola lepre che si nasconde fra i cespugli, e conta i passi. Fa dietrofront e si dirige verso il fondo del campo palleggiando di tanto in tanto. Tutti nell’arena hanno capito cosa voglia fare, ma nessuno è realmente preparato a ciò che sta per vedere. Ne hanno sentito parlare, ma non pensano che possa accadere. Nondimeno il Dottore ha una sinistra capacità di rendere possibile l’impensabile e ha deciso di non fare eccezioni per questa occasione.
Dal fondo del campo inizia una rincorsa ammantata di una grazia celestiale. È l’Arcangelo Gabriele, venuto ad annunciare al Vergine Mondo il gioco del Basket. La palla tricolore saldamente nella mano destra. Ultimi tre passi. Sinistro, Destro, Sinistro. No, non sono i jab di Muhammad Alì.
Si stacca dal suolo, ma non smette di camminare. E va, va, va, fluttuando in aria come una nuvola, fino a che…Pack! Palla dentro al cesto. Parquet. Tutti in piedi. Standing Ovation! Al termine di quella stagione l’ABA chiuderà i battenti. Quel vecchio volpone di Dennis Murphy aveva portato a termine la sua missione.
L’NBA acconsente ad una fusione (merger) con l’ABA. Delle 11 squadre originarie, però, ne accoglie solo 4: i New York Nets, che vengono trasferiti in New Jersey e, oltre alla magia, perdono anche il Dottore, che si accasa ai 76ers, i San Antonio Spurs, i Denver Nuggets e, dulcis in fundo, gli Indiana Pacers di Darnell Hillman.
Queste quattro squadre non sono l’unica cosa della defunta lega che l’NBA decide di salvare – no, non ci sperate! La palla colorata è la prima di cui si disfano –. Nel 1979 introducono il tiro da 3 punti e nel 1984, secondo le fonti ufficiali, lo Slam Dunk Contest. Mi spiace fare il guastafeste, ma temo che le fonti ufficiali si siano perse per strada qualche pezzo.
Nella prima stagione dopo il merger (1976-1977) ha infatti luogo il primo vero Slam Dunk Contest della nuova NBA. Le fonti probabilmente non ne riportano l’esistenza, perché le modalità di svolgimento sono leggermente diverse rispetto a quanto siamo abituati. Si tratta infatti di una gara su base annuale, che si svolge nel corso di tutta la stagione negli intervalli di alcune partite e destinata a concludersi a Giugno durante una gara delle Finals.
Il gruppo dei partecipanti è composto da un giocatore per ogni franchigia. Dr. J. non c’è questa volta, perché richiede un cachet per la sua partecipazione, che la lega non è disposta a concedergli. Però l’ospedale trova comunque un primario al quale affidarsi. In rappresentanza degli Indiana Pacers c’è Dr. Dunk!
Il nostro Darnell nei turni eliminatori sbaraglia la concorrenza di Moses Malone (Houston Rockets) e di Kareem Abdul-Jabbar (L.A. Lakers) e approda alla finale, dove dovrà affrontare Larry McNeill (Golden State Warriors). È il 5 Giugno del 1977. Siamo al Portland Memorial Coliseum, Portland, Oregon. L’intervallo è quello della gara 6 di Finale fra la squadra di casa (I Portland Trail Blazers) e…i Philadelphia 76ers. In campo la città dell’amore fraterno è guidata da George McGinnis (ex compagno di Darnell ai Pacers) e, soprattutto, dal Dottore. Il leader dei Trail Blazers, invece, è un ragazzo che Darnell conosce già. I capelli son più lunghi e sul viso è spuntata una sparuta barba, ma il colore è familiare. È rosso. È Bill Walton! Quando si dice il destino!
Darnell però prima della gara è un po’ nervoso. Non perché abbia paura di perdere – McNeill non lo intimorisce affatto –, bensì perché si trova in una situazione di incertezza contrattuale. Coi Pacers, infatti, è ai ferri corti e la franchigia dell’Indiana non sembra intenzionata a rinnovargli il contratto, che è già scaduto. Non è più un giocatore dei Pacers, ma nemmeno di un’altra squadra e non sa con che maglia presentarsi alla sfida: quella dei Pacers o un’altra? Non trovando una soluzione razionale, decide di andare a berci su. Entrato in un liquor store a Portland « just to buy some booze», il gestore lo riconosce.
«Ehi ma tu sei Darnell Hillman!»
«Yeah man!»
«Darnell, quei Pacers son degli ingrati, dopo due titoli questo è il trattamento?»
«You know man! Sh*t happens»
«Sì, sì come vuoi! Ma non vorrai mica scendere in campo con la loro maglietta oggi? Senti, perché non prendi questa?»
E gli porge una maglietta che reca una scritta con il nome del negozio: The Bottle Shoppe. Darnell divertito la prende e sapete una cosa? La mette pure!
Rinfrancato da un po’ di alcool e dal nuovo pezzo di guardaroba, Darnell, marchiato “Bottle Shoppe”, si beve (ops!) McNeill, sfoggiando un repertorio di schiacciate di categoria superiore. Quella che gli consegna la vittoria è la sua preferita. La chiama “Rock The Cradle” (letteralmente “Dondola la culla”) e consiste nel depositare la palla dentro al ferro dopo averla cullata fra le braccia come fosse un neonato. Darnell Hillman diventa così il vincitore del primo Slam Dunk Contest della NBA. E oltre a questa onorificenza si mette in tasca i 15mila motivi che l’avevano indotto a partecipare.
Sicuramente alla fine della partita è andato a festeggiare. Magari è anche passato a fare un salutino al suo “amico” di “The Bottle Shoppe”, ma una cosa è certa: con lui, questa volta, non c’era Dr. J. I Sixers, infatti, affacciatisi alla sfida sotto per 3-2 nella serie, perdono 109-107, consegnando il Larry O’Brien Trophy nelle mani di Walton e dei suoi Blazers e vanificando un 40ello del Dottore.
In estate i Pacers confermano i timori di Darnell e non gli rinnovano il contratto invitandolo a trovarsi una nuova sistemazione. Per lui si fanno avanti i Nets, ma la permanenza di Darnell a Garden State dura solo una stagione. Nel 1978, nonostante i 13 punti e 7 rimbalzi a partita, i Nets lo scambiano coi Denver Nuggets. All’ombra delle Rocky Mountains però comincia la parabola discendente di Darnell. Con Denver gioca solo 33 partite e la sua media realizzativa crolla a 7 punti a partita, anche se sotto le plance continua a registrare ottimi fatturati (7.5 rimbalzi di media). A metà stagione del 1978 i Nuggets lo scambiano con i Kansas City Kings, coi quali gioca fino al 1979, quando viene scambiato nuovamente. Direzione: San Francisco. Si torna a casa!
A firmargli un contratto sono infatti i Warriors, squadra che lo aveva selezionato al Draft circa 8 anni prima. E proprio i Warriors, che per primi lo avrebbero voluto in NBA, rappresenteranno l’ultima vera tappa della sua carriera fra i professionisti. Nella Baia Darnell gioca una stagione, per un totale di 49 partite, al termine della quale (1980) i Warriors lo tagliano.
Darnell, tuttavia, vuole giocare almeno un altro anno, quantomeno per arrivare a 10 fra i professionisti. Ci prova, senza successo, prima coi Lakers, che lo tagliano al termine del training camp, e poi in Italia. Nel Bel Paese si ferma dieci giorni e gioca due partite di pre-stagione, che ovviamente domina. Al termine della seconda le sue cifre sono le seguenti: 29 punti, 22 rimbalzi e 6 stoppate, solo che, con 3 minuti da giocare nel quarto periodo si fa cacciare per raggiunto limite di falli e la squadra, in qualche modo, riesce a vanificare il suo gran lavoro e perdere la partita. «Va beh, non avranno mica dato la colpa a lui» penserete. E invece no. Allenatore e stampa gli si scagliano contro dicendo che avrebbe potuto dare di più.
A quel punto Darnell capisce che nel mondo del basket giocato, per lui, non c’è più spazio. Il proverbiale chiodo, a casa sua a Sacramento, è già affisso alla parete e la decisione si rivela più semplice del previsto: appendervi le Adidas. Tornato a Sacramento inizia una vita comune, lontana dallo sport.
Lavora nell’impresa del padre, che si occupa di cromature e, sotto il sole dell’amata California, si dimentica del basket e il basket di lui. Questo fino al 1995, quando si rende conto di voler vedere nuovamente la neve. Allora fa le valigie e torna in Indiana. Home Sweet Home.
Qui trova lavoro come venditore di auto, fino a quando un bel giorno riceve una telefonata, nella quale non sperava più da lungo tempo. È il front office dei Pacers e hanno un lavoro per lui. Ancora una volta la scelta è molto semplice: accetta. Il primo incarico è quello di “Director of community relations”, che riveste fino al 1999. Dal 2000, invece, assume la carica di “Director of camps and clinics”, che riveste tutt’oggi.
Darnell Hillman oggi è un signore di 64 anni, sta dietro ad una scrivania e gli occhi, filtrati da un paio di lenti spesse, sono marroni e bonari, come sempre. Gli Afro, invece, non ci sono più e hanno lasciato spazio ad una capigliatura rada e canuta, ma non fatevi ingannare dalle apparenze.
Non provate a chiedergli se riesce ancora a prendere quel quarto di dollaro sull’angolo del tabellone.
«Hey kid! Son pur sempre Dr. Dunk. Perché non ci metti un centone e stai a guardare?»
Hai ragione Darnell. Dr. Dunk sei e sarai sempre solo tu. E sai che ti dico? Il centone me lo tengo stretto pure io!