Categorie: Primo Piano

From Zero to Hero

Nei primi giorni dell’anno del Signore 2014 si è diffuso un certo panico tra quei fortunati che possono permettersi di salutare l’anno nuovo alle Bahamas. Niente di eccessivamente preoccupante, nessun uragano o maremoto in questa zona notoriamente infestata da tali catastrofi: ma gira per questi luoghi paradisiaci un ragazzone di colore che ha l’abitudine di sedere al tavolo da poker e ripulire sistematicamente chiunque si trovi di fronte. Ne sanno qualcosa Jason Mercier e Scott Seiver, due giocatori professionisti usciti anch’essi alleggeriti di 30.000 presidenti deceduti dall’incontro con il nostro. Che tu sia un dilettante, un professionista o un autentico campione nel tuo ambito, mai metterla sulla sfida, sul personale, sul sentirsi superiori e sicuri di poter vincere con lui: il risultato sarà sempre lo stesso.

“With the 28th pick in the 2001 NBA Draft, the San Antonio Spurs selects… Tony Parker!”, ecco, il primo giro è andato. Inizia il secondo, che significa non avere nemmeno l’onore di stringere la mano a Stern e soprattutto contratto non garantito. Dal suo tavolo al Madison Square Garden Gilbert Jay Arenas tace e segna tutto. Sapeva che c’erano dubbi sul suo futuro tra i pro, troppo piccolo per fare la SG, troppo scorer istintivo per fare il play puro; ma pensava che una Final Four NCAA coi suoi Arizona Wildcats contasse pur qualcosa. Non è contento, non può esserlo, anche perché il padre, uno dei rarissimi genitori single di sesso maschile in una lega dominata da figli di ragazze madri, sembra ora aver avuto ragione quando gli diceva di non farsi illusioni. Gilbert invece decide che anche quella scelta numero 30 sarà un altro motivo di rivalsa. Come se ne avesse pochi.

Vengono da lontano, gli Arenas: il cognome indica una provenienza evidentemente latina, ed infatti il nonno ha origini cubane. Approdano poi a Tampa, Florida, terra dalla massiccia presenza ispanica, fino a quando Gilbert Sr. decide di fare le valigie, metterci anche il figlioletto, a cui la madre naturale preferiva altre sostanze, e andare con lui a Hollywood a cercare fortuna come attore, lusingato da una piccola parte in Miami Vice. Città nuova e sconosciuta, pochi legami, e il rapporto tra i due è ovviamente strettissimo. Passa qualche anno e diventa presto chiaro che sarà meglio puntare sul talento cestistico del piccolo Gilbert Jr. piuttosto che su quello attoriale del genitore: il ragazzino ci sa fare, ma è piccoletto, tanto che un allenatore un giorno gli dice chiaro e tondo che “sei bravo, ma non arriverai mai nella NBA. I tuoi minuti in campo nella Lega saranno zero”. Come al solito, Gilbert non si scoraggia, è troppo orgoglioso per farlo; piuttosto incassa e segna tutto, sapendo che prima o poi chiederà il conto. Perché ha una dote particolare, quasi un potere: giocatore già buono di per sé, diventa sostanzialmente immarcabile quando viene punto sul vivo, quando ha una motivazione, quando deve smentire un detrattore. Intanto si prende la sua bella borsa di studio ad Arizona, gioca due ottime stagioni e sfiora il titolo NCAA, anche se toppa proprio la finale con Duke. Poi però quel Draft, che pare confermare la profezia.

Aveva già il numero 0 al college, ed entrato nella Lega con i Golden State Warriors, autori della suddetta scelta, non può che confermarlo, a perenne ricordo delle parole del suo vecchio coach. Il quale di nuovo sembra aver ragione, quando inizialmente Gilbert il campo non lo vede mai; ma quando coach Dave Cowens comincia a dargli qualche minuto, non si tira certo indietro, chiudendo alla fine a 11 a sera la sua stagione da rookie. E l’anno successivo, con più minuti e fiducia, Arenas esplode fragorosamente: sempre in quintetto, oltre 18 punti, 6 assist e anche quasi 5 rimbalzi di media. E’ già uno dei migliori prodotti del mediocre Draft 2001, alla faccia della scelta al secondo giro, ha giocato qualche minuto in più degli zero prospettati, facendo pure vedere qualcosa, e si porta anche a casa il Most Improved. Niente male per uno i cui margini di miglioramento erano definiti come “limitati”.

Facile vedere adesso l’errore commesso in quel giugno di due anni prima. Ma i Warriors si mangiano comunque la mani, ossa comprese: perché come seconda scelta, Arenas è già free agent, e ovviamente ha mezza NBA alle costole. Certo, è “ristretto”; ma la franchigia che l’ha scelto supera il cap, e può pareggiare solo offerte per le prime scelte, non per le seconde. Il suo caso darà adito addirittura a un’eccezione a lui intitolata, la “Gilbert Arenas Rule”, appunto, che permetterà di pareggiare offerte anche per le seconde scelte. Ma intanto i Warriors possono solo salutare col fazzoletto il loro giovane play, che accetta l’offertona dei Wizards e vola nella capitale.

Washington è una squadra in totale ricostruzione dopo il biennio chiaroscuro (più scuro che chiaro in realtà) del secondo rientro di Michael Jordan, che non ha portato gli esiti sperati. “Ma adesso basta superstar sempre con la palla in mano, serve un play alla vecchia maniera che metta ordine, uno alla Kevin Ollie!”. Non è andata esattamente come il coach, Jordan anch’egli, ma battezzato Eddie, si augurava, ma si ricrede anche lui quando Gilbert, dopo una prima stagione nella Capitale tormentata da guai fisici (che portano altri detrattori, future vittime inconsapevoli della sua rivalsa), nella seconda ne scrive 25 di media giocando 80 partite, diventando ovviamente All Star e riuscendo là dove anche His Airness aveva fallito: riportare i Wizards ai playoff, aiutato dal fido Larry Hughes, con cui forma un’ottima coppia di guardie, e dall’ala Antawn Jamison. La corsa dei tre maghi capitolini si infrange al secondo turno contro il colosso da poco giunto in Florida, quel Shaquille O’Neal che il buon Brendan Haywood non può marcare nemmeno nei suoi sogni più bagnati. Ma è comunque arrivata la prima serie vinta da 23 anni a questa parte, marchiata a fuoco dal jumper allo scadere dello 0 in gara 5 allo United Center di Chicago, che un paio di buzzer del genere deve averli visti nei ’90. Con buona pace dell’ordinato Kevin Ollie.

E’ l’anno di grazia 2004/2005 e il ragazzino che non doveva giocare un singolo minuto nella Lega non solo ci gioca eccome, ma è anche diventato l’Agent Zero (dal nome di uno degli X-Man secondari nella saga creata da Stan Lee), l’uomo delle missioni impossibili, come riportare i derelitti Wizards ai playoff. Nel 2005/2006 continua su questa strada, sfiorando addirittura i 30 di media e dimostrando talvolta una palese immarcabilità, e, incredibilmente, non venendo convocato per l’All Star Game (ci andrà solo in sostituzione di Jermaine O’Neal). Ma è nella stagione successiva che mostra cose che se non sono degne di un vero e proprio supereroe della Marvel, ci manca veramente poco. Il 12 dicembre 2006 torna a casa a Los Angeles contro i Lakers, ed evidentemente ha voglia di fare bella figura con i conoscenti: 60 a casa di Kobe, 16 nel solo overtime (record), career high e abbattuto il record di franchigia che apparteneva a Earl Monroe, “che è stato e sempre sarà The Black Jesus”. Dieci giorni dopo mantiene la promessa fatta a D’Antoni, reo di averlo escluso da Team USA, e schiaffa il cinquantello ai suoi Suns. A gennaio ci ha preso gusto, e prima segna la tripla della vittoria sui Bucks, poi due giorni dopo omaggia Martin Luther King nel giorno a lui dedicato mandando per aria allo scadere un buzzer in faccia a Deron Williams: non guarda nemmeno come finisce, è già voltato ad esultare perché sa benissimo che il pallone vedrà solo la retìna. In quel 2006/2007 è il leader, forse anche tecnico, ma sicuramente carismatico ed emozionale, dell’intera NBA: un Hibachi (altro soprannome tratto da un forno giapponese, per la sua capacità di “prendere fuoco” a comando) in grado di infiammare la Lega intera.

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Imprese incredibili, che però non vanno di pari passo coi risultati di squadra: la sua voglia di vincere non si discute, tanto che dopo la cocente eliminazione ai playoff del 2006 (fuori 4-2 al primo turno con i Cavaliers di Lebron, con due partite perse di un punto) chiede di ridursi lo stipendio per rinforzare la squadra. Nonostante ciò, l’anno dopo incontra un avversario insormontabile anche per quello che ormai è veramente una sorta di supereroe come lui: la Sfortuna, che come si sa ci vede benissimo e a marzo gli fa cadere Gerald Wallace sul ginocchio, mandando in frantumi il collaterale. Un epilogo inglorioso per una stagione straordinaria, playoff saltati e inizio di un lungo biennio fatto di riabilitazione, poche partite, tante ricadute, tentativi quasi rabbiosi di rientro nonostante il ginocchio continui a dar problemi, come nei playoff 2008, quando gioca quattro partite nella terza sfida in tre anni coi Cavs in condizioni pietose, non riuscendo comunque ad evitare la terza eliminazione consecutiva.

Dopo un 2008/2009 da 19 vittorie, i Wizards non possono che ringraziare ogni santo del cielo quando a fine marzo 2009 Gilbert torna finalmente a calcare il parquet con continuità. In estate lavora ancora sul suo recupero e si presente all’esordio della nuova stagione con 29 punti. Gioca con continuità, il ginocchio risponde bene e inizia a ingranare: prima tripla doppia dopo oltre 5 anni a dicembre, cui segue una prestazione da 45 punti da ex ai Warriors, che ricorda fortemente quelle dell’Agent Zero dei tempi d’oro.

Fosse andata avanti così, ora forse staremmo parlando di una star ritrovata dopo un grave infortunio; ma Gilbert stavolta trova le sliding doors sbagliate, e deve fare mea culpa. La Sfortuna infatti c’entra poco, se vieni beccato con due pistole scariche nello spogliatoio del palazzetto. E vieni beccato perché le hai tirate fuori in spogliatoio per “ragionare” su un debito di gioco col compagno chierichetto Javaris Crittenton. E mentre aspetti le decisioni della NBA sulla vicenda, entri in campo alla presentazione a Philadelphia mimando di sparare ai tuoi compagni con le dita. Situazioni e atteggiamenti notoriamente graditissimi al commissioner David Stern, che ovviamente squalifica i due pistoleros per tutto il resto della stagione.

Stavolta al rientro i Wizards non lo aspettano esattamente a braccia aperte. Inizia benino nel 2010/2011 (17 di media), ma la squadra non gira e alla prima occasione viene ceduto a Orlando. Non è più lui, e non solo per il numero di maglia, cambiato per provare a dare un taglio all’atteggiamento che l’ha portato alla squalifica: 8 punti a sera, medie da panchinaro qualsiasi. Un po’ pochino per uno che prende circa 20 milioni a stagione, e il suo faraonico contratto siglato nel 2008 (a detta dello stesso Arenas “il peggiore mai sottoscritto da una franchigia”, per la gioia di Rashard Lewis e Amare Stoudamire che perdono il poco edificante titolo) viene amnistiato. Firma con Memphis, sempre a fare il cambio d’esperienza del play titolare: va se possibile ancora peggio. Quando la passata stagione finisce a giocare negli Shanghai Sharks in Cina e nemmeno loro esercitano l’opzione per il secondo anno, è evidente che la carriera dell’uomo che partendo da zero era divenuto un eroe è arrivata ormai al capolinea.

A 34 anni appena compiuti, non si può certo dire che Gilbert se la passi male. Ha guadagnato tantissimo in carriera e passa le sue vacanze natalizie alle Bahamas ad arrotondare umiliando professionisti a Texas Hold’em: poteva andare peggio. Ma per quanto non sia ufficiale, col basket sembra aver ormai chiuso, ad un’età in cui i più raggiungono la piena maturità sportiva. Un mezzo fallimento a vederla così, eppure Arenas non ha mai smesso di essere amato da chi segue questo sport: sicuramente per le emozioni che ha saputo regalare su un parquet, unite al personaggio incredibile che è stato e che è ancora. Ma soprattutto perché si è sempre guadagnato i suoi successi col lavoro e l’applicazione, fin da quando quel famoso coach predisse gli ancor più famosi zero minuti. Con le motivazioni, rafforzate dai tanti detrattori, dall’infinito orgoglio di smentirli sempre e comunque, perché Gilbert Arenas non era un predestinato, non aveva una base di talento esorbitante, eppure è arrivato, dallo zero che era, ad essere un eroe, un supereroe come l’Agent Zero creato da Stan Lee, solo grazie al lavoro e alla mentalità vincente. Quando però ha toccato la vetta, dominando la NBA dal suo metro e 90, e critiche e perplessità sono via via venute meno, è mancata allora anche la principale motivazione ed è tornato sulla Terra. Complice sicuramente anche la sfortuna, ma soprattutto a causa di un atteggiamento ormai rilassato, non più puntato sul suo obiettivo. Eppure, anche oggi che è fuori da ogni radar professionistico, provate a sfidarlo anche solo a una partitella a carte. Prima ancora che sia finita, starà già esultando a braccia aperte, e saprete già quale sarà l’esito: sempre lo stesso.

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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