La NBA negli anni’50 era lontana anni luce dai fasti e dagli standard odierni. Il gioco era quanto di più lontano possibile si possa immaginare al giorno d’oggi. L’introduzione dell’orologio dei 24 secondi, ad opera dell’italo-americano Danny Biasone, aveva contribuito a rendere più interessanti le partite. Tuttavia, per una Lega che lottava per la propria stessa esistenza, stretta nella morsa degli altri sport professionistici americani, c’era bisogno di un ulteriore scossa elettrica. Generalmente, in questi casi, sono due gli “ingredienti” necessari per la riuscita di tale ricetta. In primis, una rivalità tra due atleti, magari opposti proprio in uno scontro diretto nei rispettivi ruoli, ed una rivalità tra due squadre, preferibilmente incontrandosi in svariate occasioni e sempre quando l’aria diventa più rarefatta. E’ facile intuire come ambedue gli elementi siano stati ben presenti nella carriera di Bill Russell.
L’anno che segnò la svolta in tal senso è identificabile nel 1959. Russell, come tutti i Celtics, era desideroso di vendetta dopo la sconfitta alle Finals dell’anno precedente contro gli Hawks. Bill migliorò ulteriormente sia le statistiche che l’impatto sull’esito delle partite. Boston volò sino alle Finals dove, ad attenderli, vi era la squadra che era stata dell’idolo del numero 6, George Mikan. Per la prima volta, all’ultimo atto della stagione, i bianco-verdi ebbero come avversari i Minneapolis Lakers. La serie non ebbe storia, 4-0 e secondo titolo per Russell e compagni. Quel giorno, quasi inconsapevolmente, era iniziata ufficialmente la grande dinastia di Boston degli anni’60 e, nel contempo, la rivalità quasi a senso unico con i Lakers, poi trasferitisi a Los Angeles. Nell’autunno dello stesso anno, ecco l’evento che cambiò il panorama NBA. Il 7 novembre al Boston Garden vennero a fare visita i Philadelphia Warriors che potevano contare tra le proprie fila un centro rookie che aveva già fatto strabuzzare gli occhi in giro per l’America. In quella data avvenne il primo scontro tra Bill Russell e Wilt Chamberlain.
L’NBA ricevette nuova linfa dalle sfide tra queste grandi rivali e atleti, che avrebbero attraversato con costanza gli interi anni’60. Il leitmotiv, tuttavia, era sempre lo stesso: a vincere era Bill. Sovrastato sul piano numerico, a volte per il rotto della cuffia e/o all’ultimo tiro, ma, tranne che in rarissime occasioni, era Russell a tornare a casa con la parte buona del referto. I Celtics dominarono la decade, vincendo 8 titoli consecutivi, una cifra che sembra impossibile pensare di poter battere, almeno nell’immediato futuro. I Lakers generalmente facevano la parte dell’agnello sacrificale all’altezza delle Finals, con i vari Baylor e West che puntualmente dovevano rimandare l’appuntamento con il meritato e agognato anello. Russell e Chamberlain lottavano come due pugili su di un ring, con colpi da KO che si sferravano vicendevolmente. Wilt segnava molto di più dell’avversario, ma Bill era circondato da compagni migliori, non doveva essere il centro focale dell’attacco della squadra ed aveva imparato a contenere il proprio diretto avversario, sfiancandolo in difesa e facendolo correre da una parte all’altro del campo. Nacque la Celtics’ Mistyque, con gli avversari di Boston che partivano sconfitti già in partenza, intimoriti dal Garden e convinti della presenza di certe entità che spingevano fuori dal canestro i tiri decisivi degli avversari di Russell e compagni. Il sigaro di Red Auerbach, acceso quando la partita era da considerarsi in ghiaccio, divenne uno dei simboli di quegli anni leggendari, al pari del vomito del numero 6. Si, perchè Bill prima di ogni partita rimetteva per la tensione, frutto della concentrazione assoluta in cui si immergeva nel pre-gara, pronto a mangiarsi letteralmente i palloni dei propri rivali con feroce determinazione.
Nel 1959-60 i Celtics vinsero, ad un certo punto, anche 17 partite consecutive, una striscia che ancora oggi perdura tra le più longeve di sempre. Dopo aver battuto nelle Finali dell’Est i Warriors di Chamberlain, altra costante di quel periodo, arrivarono alle Finali contro una vecchia conoscenza, i St. Louis Hawks. Russell fu straordinario, catturò 40 rimbalzi in gara-2 e 35 nella decisiva gara-7, che sancì il 4-3 per Boston, consegnando il terzo anello agli uomini di Auerbach. Nell’annata seguente il capitano dei Celtics vinse il secondo MVP della carriera, guidando la squadra al quarto titolo NBA, ancora contro gli Hawks, anche se con un più agevole 4-1. La squadra aveva ingranato e non sembrava più arrestabile.
L’annata 1961-62 fu denominata da molti come la stagione dei record. Un uomo, tale Oscar Robertson, fu capace di concludere in tripla doppia di media. Un altro, il solito Wilt, fece registrare una media di 50 punti, ivi compresi i 100 in una sola notte contro i Knicks. Un altro ancora, forse ancora più incredibilmente, soffiò ad entrambi il titolo di MVP. Russell, che oltre ai canonici 20 rimbalzi a gara chiuse con il career-high per punti (18,9), ebbe il definitivo attestato di stima dai colleghi, che riconoscevano in lui l’emblema del giocatore al servizio della squadra e disinteressato delle proprie statistiche. Il cammino nella postseason fu decisamente più impervio rispetto agli anni precedenti. Nelle Finali dell’Est, Bill si superò nel contenere lo straripante Chamberlain, che d’altro canto iniziò a manifestare qualche complesso mentale nei confronti del numero 6. In gara-7, col punteggio in parità, solo un tiro di Sam Jones consentì ai Celtics l’accesso alle Finali, da disputare contro gli agguerriti Lakers. Russell prese ancora una volta 40 carambole, 189 nell’intera serie, un record che resiste tutt’oggi. Los Angeles, nella settima sfida, ebbe l’opportunità di vincere la gara, ma sbagliò il tiro che avrebbe cambiato i destini delle due franchigie. All’overtime fu Boston a spuntarla per 110 a 107, l’ultima volta che le Finals sono state decise al supplementare della “bella”. I Lakers non sarebbero più riusciti a battere i bianco-verdi, all’epilogo della stagione, per altri 23 anni. Per Bill, Red e tutti gli altri si trattava del quinto titolo, entrando di diritto nella storia del gioco.
La stagione seguente il numero 6 rivinse l’MVP stagionale e, per la prima e unica volta, quello dell’All Star Game. La supremazia dei Celtics sul resto della Lega era quasi imbarazzante, anche grazie alle consuete trovate di Auerbach che riusciva sempre a trovare le pedine adatte al proprio gioco. Altra partecipazione alle NBA Finals e sesto titolo, sempre alle spese dei Lakers, andando a vincere la decisiva gara-6 in California. Alla fine della stagione, logorato da tanti anni sempre alla guida della squadra, si ritirò Bob Cousy, il playmaker col quale Russell, dopo l’iniziale diffidenza, aveva stabilito un rapporto duraturo. Dal Draft, tuttavia, era arrivato già un nuovo rinforzo che avrebbe avuto modo di dare il proprio contributo alla causa, quel John Havlicek che ancora oggi è leader all-time di franchigia per punti e gare giocate.
Nella stagione 63-64 Bill fece registrare il proprio record per rimbalzi catturati, ben 24,7 ad incontro. La macchina era diventata perfetta, inappuntabile, tanto che lo stesso numero 6 definì i Celtics di quell’anno come la miglior squadra difensiva della propria carriera. Sbarazzatisi delle concorrenti della Eastern Division, in Finale ad attendere Boston c’era la grande nemesi, Wilt ed i suoi San Francisco Warriors, arrivati un paio di anni prima dalla Pennsylvania. I due duellarono alla grande, dando vita ad una vera e propria battaglia dei giganti, ma Chamberlain era troppo solo, tanto che i bianco-verdi trionfarono in appena 5 gare, assicurandosi così il settimo anello. Nell’annata seguente Bill vinse il suo ultimo MVP, guidando i Celtics a ben 62 vittorie nella regular season. Nella Finale dell’Est si trovarono innanzi i Philadelphia 76ers, che avevano appena riportato in città l’enfant du pays col numero 13. Per l’ennesima volta la postseason era il teatro della lotta senza quartiere tra Russell e Chamberlain, con quest’ultimo che vedeva inesorabilmente calare il proprio bottino mano a mano che ci si avvicinava verso la sirena finale. In gara-7 i Sixers erano sotto di un punto ma col possesso della sfera. In un’azione passata direttamente all’Olimpo della pallacanestro NBA, immortalata dall’epico commento di Johnny Most, Havlicek rubò la rimessa preservando la vittoria. Alle 1965 Finals, dopo esser sopravvissuti ad uno spavento del genere, Bill e compagni passeggiarono in 5 gare contro i soliti Lakers, vincendo per l’ottava volta il campionato.
Prima dell’inizio della stagione ’65-66, la Lega fu scossa da un annuncio molto importante. Red Auerbach annunciò il proprio ritiro al termine di quell’annata, invitando gli sfidanti all’ultima possibilità di batterlo. I Celtics, che andavano avanti ogni anno cercando nuovi stimoli per vincere, fattore importante a questi livelli, decisero che non avrebbero fatto uscire da sconfitto il proprio leggendario coach. Wilt ed i 76ers uscirono nuovamente di scena in postseason, annichiliti dalla forza di Boston. Alle Finali, ancora una volta, furono i Los Angeles Lakers a cercare la tanto agognata vittoria. Dopo gara-2, con una mossa tanto astuta quanto spiazzante, Auerbach annunciò che il futuro allenatore sarebbe stato proprio Russell. Una decisione inaspettata, in quanto avrebbe reso il numero-6 il primo coach afro-americano della Lega. Boston si portò sul 3-1, LA rimontò rimandando il tutto all’ennesima decisiva gara-7. Bill fu straordinario, mettendo a referto 25 punti e 32 rimbalzi nell’ultimo incontro. I Lakers cercarono una rimonta tanto furiosa quanto tardiva, ma i Celtics riuscirono a mantenere un vantaggio di due lunghezze, vincendo la partita per 95 s 93. La Storia era stata completata. Si trattava del nono trofeo conquistato e, soprattutto, dell’ottavo consecutivo, un Everest da scalare a mani nude.
Andata in archivio l’epoca Auerbach, c’era molta curiosità attorno all’esperimento-Russell allenatore-giocatore. In molti avevano dubbi sull’effettiva capacità del numero 6 di sdoppiarsi in questa nuova veste, dando ordini ad altri uomini che fino a poco prima erano semplici compagni di squadra. Bill riuscì effettivamente a prendere le decisioni senza farsi condizionare dai rapporti che aveva instaurato con gli altri componenti dei Celtics. In più, era conscio dell’importanza sociale della sua nomina a head coach, quasi uno specchio del cambiamento dei tempi. Un giorno venne da ospite durante una gara il nonno di Russell, che venne introdotto negli spogliatoi. A vedere bianchi e neri che facevano la doccia nello stesso posto, parlando e convivendo senza problemi di sorta, lo colsero impreparato le lacrime. Per lui, abituato alla Louisiana, era stata un’emozione assistere ad un evento ritenuto impensabile. Sul campo, per converso, le cose non andarono per il verso giusto. Dopo anni e anni di frustrazioni e cocenti sconfitte, Philadelphia riuscì a battere Boston, ponendo fine all’egemonia bianco-verde che sembrava potesse durare in eterno. Per Bill, dopo aver perso la Finale del’58 a causa dell’infortunio, si trattò della prima ed unica sconfitta nella propria carriera. Riconobbe la supremazia di Chamberlain in quell’incontro, e fu il primo ad andarsi a congratulare con l’eterno rivale. I Celtics, senza Auerbach, avevano fallito l’appuntamento con il titolo. Sarebbe riuscito Russell a far ricredere tutti quanti riguardo alle possibilità di un gruppo che lottava, tra gli altri, anche col fattore Tempo?
Alessandro Scuto