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Emerald City Stories: “Due titoli per i New Kids at School”

Se pensate che la vittoria nel Super Bowl dei Seattle Seahawks riguardi soltanto il football americano vi sbagliate di grosso. Il 2 febbraio 2014 non ha vinto solo una squadra di football, ma una città intera che per anni è stata ignorata e bistrattata da tutto il sistema sportivo americano.

Per capire tutto ciò bisogna fare un salto indietro nel tempo di mezzo secolo. Quando nel 1962 la città si apprestava ad ospitare la Fiera Internazionale di Seattle, meglio nota come EXPO 1962. In quell’anno fu eretto lo Space Needle e Jimi Hendrix, sempre a Seattle, formò la sua prima band: i Kings Kasuals. Il successo di Hendrix, però, fu tanto immediato quanto breve.

Al termine dell’esposizione internazionale, l’unica squadra sportiva in città, di un livello superiore a quello amatoriale, erano i Washington Huskies, che disputavano il campionato di football universitario e il cui stadio aveva avuto un relativo onore di ospitare alcuni incontri di preseason di NFL. Nulla di più. Se un appassionato sportivo, a metà anni 60, avesse voluto vedere una partita di NBA, NFL o MLB, avrebbe dovuto guidare per almeno 800 miglia verso San Francisco, una distanza per molti inaffrontabile. Grazie alla visibilità internazionale ottenuta con l’EXPO e al miglioramento delle infrastrutture cittadine, però, in breve tempo Seattle ha iniziò a godere di una maggiore considerazione, anche in ambito sportivo. Fu così che nel 1967 venne fondata in città la prima franchigia professionistica in era moderna della città: i Seattle SuperSonics. Proprio mentre Jimi Hendrix lanciava il suo primo e più grande successo: “Are You Experienced?”.

Nonostante il pubblico abbia iniziato ad appassionarsi molto presto al basket e il richiamo verso le altre leghe sportive si faceva sempre maggiore, a causa dell’enorme distanza fisica dal resto della nazione ci vollero praticamente altri dieci anni perché lo scenario del grande sport U.S.A. si completasse. Nel frattempo Hendrix passò da fenomeno a leggenda.

Nel 1976 nacquero i Seattle Seahawks e nel 1977 sui diamanti del baseball comparvero i Mariners. A onor di cronaca, in città ci fu un’altra squadra di baseball prima dei Mariners: i Seattle Pilots che, in circostanze quasi grottesche, vennero trasferiti a Milwaukee appena un anno dopo la loro fondazione. In questo trasferimento si identifica brillantemente ciò che è stato, e che sotto certi aspetti è ancora, lo sport di Seattle per il sistema americano ovvero una città scomoda, in moltissimi sensi, e per questo bistrattata, alla quale venivano preferiti scenari anche meno caldi ed appassionati, ma dove i giocatori sarebbero andati a vivere più volentieri senza doversi sentire “fuori dal mondo”. Il motivo principale della diffidenza del popolo sportivo statunitense verso le squadre della “Emerald City”, però, era la loro giovane età e la conseguente mancanza di prestigio. Tutto ciò ha permesso agli americani di guardare a queste squadre come “le ultime della classe”.

La migliore definizione dello status del tifoso di Seattle all’interno del sistema sportivo americano la da Mark Tye Turner nel proprio libro “Notes for a 12 man”, in cui afferma che i Seattle Seahawks, come le altre squadre della città, anche 30 anni dopo la loro fondazione, continuavano ad essere visti come l’ultimo bambino arrivato a scuola, the “New kid at school.

 Poche volte il “nuovo ragazzo a scuola” viene accettato e quasi sempre viene ignorato.

A rafforzare questo pregiudizio ci hanno pensato anni di  scarsi risultati ottenuti da tutte e tre le franchigie in città che, anche per questo motivo, sono state troppo spesso definite addirittura come “l’epitome della mediocrità”.

I Seattle Metropolitans, prima squadra statunitense a vincere la Stanley Cup, NHL.

Prima del Super Bowl appena vinto dai Seahawks, l’unico titolo professionistico ottenuto da una squadra di Seattle, fatta eccezione delle Seattle Storm in WNBA e della leggendaria Stanley Cup dei Seattle Metropolitans nel 1917, fu conquistato dai SuperSonics nella stagione NBA 1978/1979.

Se assorti nella lettura di queste righe la vostra testa sta cercando di pensare al nome o al numero dello storico campione che trascinò la squadra alla vittoria del titolo NBA state perdendo tempo. I SuperSonics che si fecero beffe dei Los Angeles Lakers di Kareem Abdul-Jabbar, allenati da Jerry West, dei Phoenix Suns di Paul Westphal e che spazzarono in finale Washington Bullets, nei quali militava un certo Mitch Kupchak ora GM dei Lakers, fu un insieme capace di diventare più grande e potente della somma delle proprie parti.

A destra Lenny Wilkens

Come la quasi totalità degli appassionati sportivi sa, non è possibile costruire un gruppo vincente in poche stagioni e solo con un’accurata semina anno dopo anno si può godere di un raccolto vantaggioso. Nel caso dei SuperSonics il sacrificio iniziò molto presto, spinto dalla voglia di competizione della città, nonostante le lunghe trasferte che avrebbero caratterizzato, per forza di cose, le loro stagioni da lì in avanti. Il primo anno in NBA trascorse senza troppe pretese e terminò con un record di 23 vittorie e 59 sconfitte. Allenati da Al Bianchi e guidati in campo dall’All-Star Walt Hazzard i Sonics videro l’esordio di due fra i migliori rookie della stagione: Bob Rule e Al Tucker. La stagione seguente i tifosi non ebbero il tempo di affezionarsi a quella che sembrava poter divenire la prima stella della loro storia, Hazzard, perché questi venne ceduto agli Atlanta Hawks in cambio di Lenny Wilkens, persona che risulterà di essenziale importanza per il lascito della franchigia. Nel frattempo, Rule migliorò sensibilmente il proprio gioco in mezzo al campo, diventando il miglior realizzatore della squadra con 24 punti a partita. Nonostante il nuovo innesto e i miglioramenti dei giovani, però, la seconda stagione li vide vincenti in sole 30 occasioni. Fu così che Al Bianchi decise di dimettersi da allenatore lasciando spazio a Lenny Wilkens, che mantenne comunque il proprio ruolo di leader in campo diventando così il primo allenatore/giocatore della giovane storia dei Sonics.

L’inizio degli anni ’70 vide l’avvio della più importante rivoluzione per il basket statunitense. Dopo lunghe trattative, in giugno si decise per la fusione fra NBA ed ABA, a seguito di una votazione con 13 proprietari favorevoli su 17, ma la dura opposizione di molte franchigie rendeva l’effettiva esecuzione molto lontana.Il patròn dei SuperSonics, Sam Schulman annunciò che se l’NBA non avesse trovato una soluzione alle continue trattative, avrebbe portato la squadra in ABA, per mezzo di un clamoroso trasferimento a Los Angeles, in modo da creare una rivale in tutto e per tutto ai mitici Lakers. Fortunatamente per Seattle, le decisioni sulla fusione furono rimandate da un ricorso presentato da Oscar Robertson, che sfruttò un cavillo contrattuale per opporsi all’immediato accorpamento delle leghe, salvando così la città dalla perdita di due franchigie in un solo anno (i Pilots di baseball si stavano trasferendo a Milwaukee proprio in quel momento, n.d.r.).

Scongiurato il clamoroso trasferimento in California, la fortuna continuò a visitare il northwest-pacific e i Sonics si arricchirono di un importantissimo elemento: l’esordiente, proveniente dai Denver Rockies in ABA ed ottenuto dai Buffalo Braves, di nome Spencer Haywood, vincitore del premio di Rookie dell’Anno nel 1971 e protagonista negli anni ’80 di una breve esperienza nella Reyer Venezia prima di tornare negli Stati Uniti per chiudere la carriera fra le fila dei Washington Bullets. Il 1972 fu l’anno della prima stagione conclusa con un record positivo, 47-35. La squadra, guidata da Wilkens ed Haywood, continuò così la propria ascesa verso i vertici della lega con un sorprendente miglioramento, anche se mancò per poco la qualificazione ai playoff. Quello che accadde l’anno seguente, però, fece pensare all’inizio di un clamoroso fallimento sportivo. Nel luglio del 1972 Schulman decise di spedire Wilkens a Cleveland, in una delle più controverse e impopolari trade della storia del basket NBA. Senza la leadership del loro allenatore/giocatore i Sonics faticarono incredibilmente per tutta la stagione, terminando con un record di 26 vittorie e 56 sconfitte. Tutto sembrava essere precipitato nel vuoto, ma come spesso succede nello sport, è solo quando si arriva a toccare il punto più basso che inizia la scalata verso il successo. L’inizio di questa scalata porta il nome di una delle personalità più importanti della storia del basket americano: Bill Russell.

L’ingaggio di Bill Russell come allenatore al posto di Bucky Buckwalter, che succedette a Tom Nissalke nel corso della stagione appena conclusa dopo la clamorosa cessione di Wilkens, si rivelò ben presto una mossa azzeccata. Con una quintetto composto da Haywood, Slick Watts, Fred Brown e il rookie Tommy Burleson, i Sonics si qualificarono ai playoff per la prima volta nella loro storia, dove vinsero al primo turno contro i Detroit Pistons, allora militanti nella western conference, per poi perdere in sei gare contro i futuri campioni dei Golden State Warriors. La stagione seguente vide l’addio di Haywood, che si unì ai New York Knicks, e il conseguente adattamento della squadra per compensare la perdita della loro prima arma offensiva. Con Brown al comando dell’attacco e Watts, futuro Defensive First Team of the Year, a guidare la difesa, i Sonics si qualificarono nuovamente ai playoff. Nonostante il cammino fu subito interrotto dai Phoenix Suns, Brown e Burleson si misero in mostra con delle prestazioni maiuscole. Nella stagione 1976/77, però, non si vide quel miglioramento che, grazie a due anni di esperienza nei playoff, tutti si aspettavano. Terminando con un ennesimo record negativo, Bill Russell lasciò la guida della squadra e al suo posto venne assunto Bob Hopkins. Con il nuovo coach la squadra partì a rilento e, dopo sole 22 gare si decise per un ulteriore cambio in panchina. Fu così che Lenny Wilkens tornò a Seattle e si rivelò come un amuleto per i Sonics che, con un record di 47 vittorie e 35 sconfitte, si classificarono terzi nella Pacific Division riuscendo a conquistare un posto ai playoff. Superando i Lakers, i Portland Trail Blazers e i Detroit Pistons, guidati dal solito Brown e da un allenatore che riuscì a costruire un gruppo affiatato, arrivarono in finale, dove dovettero arrendersi ai Washington Bullets. Nonostante la sconfitta la squadra non venne rivoluzionata per la stagione seguente. Era chiaro che l’apporto di coach Wilkens sarebbe potuto risultare decisivo ai fini della vittoria. Fu così che al termine della regular season, i SuperSonics si laurearono campioni della Pacific Division per la prima volta nella loro storia. Pronti a riscattare la sconfitta dell’anno precedente avanzarono fino alle finali di conference, nelle quali batterono i Suns in sei partite, garantendosi il diritto di partecipare alle NBA Finals per il secondo anno consecutivo. Ad aspettarli trovarono ancora una volta i Washington Bullets. Questa volta l’esito finale fu completamente differente. In cinque gare i Sonics sconfissero i campioni in carica conquistando il primo, e unico, titolo NBA della loro storia, undici anni dopo la loro fondazione.

Un gruppo di gregari costruito per collaborare e lavorare l’uno per l’altro, senza primi della classe desiderosi di un posto sul monte Rushmore di qualche futuro campione. Una squadra di “new kids at school” che fece ritorno nella Città di Smeraldo con un anello al dito, in una delle più allegoriche situazioni immaginabili. Allegoria ripresa e riportata in auge proprio dai Seahawks campioni del mondo quest’anno.

Lenny Wilkens con il Larry O’Brien Trophy

Cinquant’anni dopo questo storico titolo, dopo il trasferimento dei SuperSonics ad Oklahoma City e con la città amputata di uno dei più preziosi arti che la componevano, la rivincita sportiva è arrivata con il titolo dei Seahawks campioni NFL ed è stata, per forza di cose, per mano di un gruppo di “ultimi della classe”. Un insieme di giocatori snobbati nel corso degli ultimi 3 draft e in poco tempo diventati fra i più forti di tutta la lega. Ambasciatori sul campo del sentimento che ha sempre accompagnato i tifosi della città di Seattle. Quel dente avvelenato da anni di indifferenza e mediocrità sportiva. Per questo motivo ogni titolo nella Emerald City è un evento di importanza universale che sfonda le barriere della specialità sportiva e lancia un avviso diretto soprattutto verso il mondo della palla a spicchi: “La città di smeraldo c’è e non si farà dimenticare facilmente.”

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Pubblicato da
Alberto Calò

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