«Mattie Mae! Mattie Mae!»
«Sì signora.»
«Mattie Mae che diamine! Non senti che la bambina piange?»
«Sì signora, vado subito.»
«Mattie Mae, poi lo sai che c’è anche da rassettare la cucina e rastrellare il giardino, vero? O devo sempre dirti tutto io?»
«No signora, faccio subito.»
Mattie Mae è stanca, costretta a subire umiliazioni giorno, dopo giorno, dopo giorno, ma Mattie Mae va avanti. Mattie Mae non si arrende. Incassa, come un vecchio pugile messo alle corde, rifiutandosi di andare al tappeto, perché sa di non poterlo fare, perché sa che il fio da pagare per la sua sconfitta sarebbe troppo alto. Per lei, per gli altri, per tutti.
Mattie Mae rassetta, pulisce, cura e cresce i figli di altre donne. E fa tutto questo per l’amore dei propri, di figli, per consentire loro una vita dignitosa, combattendo ogni giorno contro un ambiente che fa di tutto – e anche qualcosina in più, se possibile – per cercare di renderla insostenibile.
The Big A e la sua Clayton.
Siamo a Clayton, Alabama. È il 1956.
Non esattamente luogo e tempo in cui vorreste essere, se il colore della vostra pelle tendesse più verso Ebony che verso Ivory – le quali, a discapito di quanto cantato da Stevie Wonder e Paul McCartney, non vivono ancora in «perfect harmony» – e se, per ragioni di carattere fisiologico, foste costretti ad orinare seduti anziché in piedi.
Insomma, ci siamo capiti spero, Mattie Mae è una donna afroamericana nel profondo Sud degli Stati Uniti.
L’ultimo gradino della scala sociale. Esseri umani destinati esclusivamente alla sofferenza. Ultime “piccole” e innumerevoli vittime d’una fantasiosa interpretazione veterotestamentaria – tanto cara alla compagine Bianca del Grande Paese delle opportunità – incardinata attorno all’emarginazione del “diverso da sé”, considerato nemico da eliminare a tutti i costi, da sacrificare sull’altare della giustizia, valore appartenente unicamente al popolo eletto. Il popolo bianco appunto, diretto discendente dei Puritani del Mayflower.
Mattie Mae ha appena terminato l’ennesima, frustrante, giornata lavorativa e sta tornando a casa, rigorosamente in pullman. Sa già che, arrivata a destinazione, dovrà preparare da mangiare ai suoi cinque figli e sperare di non doverle prendere da Travis, suo marito, per via della misera paga racimolata durante la giornata. Girata la chiave, tuttavia, Mattie si rende conto che uno dei due problemi potrebbe essersi risolto: Travis ha fatto fagotto. Ok niente botte.
I figli però sono ancora lì e bisogna prendersene cura. Mattie Mae tocca ancora a te!
Come detto, Mattie di pargoli ne ha una cinquina, dei quali quattro hanno cromosomi X-X e un destino, praticamente, già segnato: saranno donne domestiche, esattamente come loro madre prima di loro. Il quinto invece è un maschietto, ha sei anni e si chiama come il padre: Travis Grant, ma la sua storia avrà un destino totalmente diverso.
Travis è un bambino estremamente intelligente, giudizioso e attaccato alla famiglia. Un perfetto figlio del Sud degli Stati Uniti, con una sola pecca: gli piace il basket. «Capirai che gran problema!» starete pensando. Beh ragazzi…se sei “Born & Raised in Alabama”, il basket non è esattamente una tua priorità. È il classico sport al quale i ragazzini giocano, quando non si è abbastanza numerosi per giocare a Football.
E però a Travis sto gioco qua piace. Non c’è niente da fare, ne è attratto in maniera quasi mistica, morbosa. Come le zanzare dalla luce blu. Solo che a casa Grant mamma Mattie, con la misera paga che le assicura il suo impiego di aiuto domestico, riesce a malapena a mettere assieme pranzo e cena per sfamare le bocche della sua folta prole. Va da sé, pertanto, che la pecunia richiesta per fornire il giovane Travis di Spalding e canestro da appendere in cortile non sia disponibile, perché da destinare ad altri usi.
Però la passione per questo sport è troppo grande. Travis, a basket, vuole giocarci a tutti i costi e, come spesso accade, laddove il denaro non può arrivare tocca all’ingegno far la sua parte: così Travis recupera un vecchio cartone di latte, tagliandolo alle due estremità, di modo da formare un ingresso e un’uscita. Bene il canestro l’abbiamo, manca la biglia da infilarci.
A questo punto mamma Mattie, probabilmente spinta da compassione e amore per il figlio, decide di intervenire e affida al piccolo Travis una moneta da un quarto di dollaro – un investimento praticamente, viste le condizioni in cui versa la famiglia Grant –, raccomandandogli di farne buon uso e di non smarrirla. E quando mamma, che si spacca la schiena tutto il giorno per te, ti dice così, tu le dai retta, senza discutere.
Travis con quel quarto di dollaro compra una pallina di gomma, che tratta con rispetto, quasi con venerazione. Quella è il suo Spalding ed è ora di cominciare a metterla nel cesto. Travis inizia ad esercitarsi a infilare la pallina nel “canestro” da ogni distanza e posizione e, immediatamente, chiunque lo osservi capisce che in quel ragazzo risiede qualcosa di speciale. Non importa da che distanza la faccia uscire dalle sue dita, il suono che si sente è sempre lo stesso: Pong! Pong! Pong! La pallina puntualmente si infila nel cartone del latte e ne esce, ricadendo sul terreno polveroso. Una cosa incredibile. Il fatto che lo faccia da 2, 3, 6, 8 o 10 metri è assolutamente ininfluente. Pong! Pong! Pong! Sempre!
Travis gioca giorno e notte e, quando la pallina da 25 centesimi non c’è più, qualunque altro oggetto diventa buono, pur di continuare a martellare quel cartone di latte. Una palla da tennis, un cucchiaio, una moneta. Il risultato non cambia: Bottom.
Grazie a questo “allenamento” Travis sviluppa una precisione al tiro e una tecnica di rilascio senza precedenti – che gli sarebbero presto tornati utili -, ma Travis adesso è ancora un ragazzino. Deve crescere e scegliere un Liceo dove poter migliorare la propria istruzione, oltre al jumpshot. E mamma Mattie all’istruzione tiene parecchio. Sarà meglio non deluderla.
Le scuole migliori, chiaramente, sono quelle bianche. Purtroppo però siamo in Alabama, unico Stato in cui le leggi sull’integrazione razziale scolastica sembrano, a tutt’oggi, non aver attecchito. La costituzione statale prevede infatti, ancora, l’istituzione di scuole separate per i bambini bianchi e quelli di colore. E nemmeno un referendum abrogativo nel 2004 è riuscito nell’intento di cambiare le cose.
Oltretutto sono gli anni ’60 e lo Yellowhammer State è sotto l’egida del Governatore George Wallace, uomo che sarebbe passato alla storia come uno dei perdenti più influenti del XX secolo – definizione che gli deriva dal fatto di aver perso per ben quattro-volte-quattro la corsa alle presidenziali –, ma soprattutto per essere stato uno dei più fieri sostenitori della segregazione razziale “nel suo Stato”.
«Segregation now, segregation tomorrow and segregation forever» recitava il suo discorso d’insediamento per il primo mandato – ne avrebbe rivestiti addirittura quattro – a Governatore. Parole cui avrebbe dato seguito, opponendosi ferocemente e fisicamente all’ingresso ai corsi dei primi due studenti afroamericani ammessi – per disposizione Kennediana, chiariamoci – a frequentare Alabama University: Vivian Malone e John Hood. Salvo poi ritrattare il tutto per questioni prettamente elettorali, millantando una fantomatica “rinascita da nuovo cristiano” come giustificazione, in occasione della campagna per la rielezione del 1983. Insomma…un bel soggettino.
Se tuttavia, come detto, il ricordo di Wallace il perdente sarà eternamente preceduto dall’infamia, per Travis Grant le Parche hanno altri piani.
Andiamo con ordine però.
Di andare in un liceo bianco non se ne parla. Ipotesi irrealizzabile come quel Rolex Daytona ref. 6265, che vorreste trovarvi sul comodino la mattina – e se non vorreste voi, vorrei io –. Da qualche parte però bisognerà pure andare a studiare e a giocare a basket. Ecco la soluzione: Barbour County High School, liceo storicamente di stampo afroamericano dell’area di Clayton. Dal lato dell’istruzione il Barbour rappresenta un’ottima opzione. Per quanto riguarda la pallacanestro, invece, bene ma non benissimo: manca la palestra. Come manca la palestra? Sì ragazzi, si gioca all’aperto su un terreno più simile ad un campo di patate che ad uno di basket.
Per Travis però, ovviamente, non cambia nulla, anzi è come giocare nel cortile di casa. Ricordate il rumore? Pong! Pong! Pong! Ecco, ancora. Nel 1966, suo secondo anno al Barbour, finalmente arrivano i soldi per costruire la palestra. Che questo slancio di generosità fosse legato alla voglia di molti college di cominciare a reclutare Travis? Io dico probabile, e voi? «Perché un college dovrebbe voler reclutare un nero come Travis? E George Wallace? Non conta più niente?» vi starete chiedendo. Domanda legittima. Le risposte che vi posso dare sono due. Una è semplice, l’altra meno.
Risposta semplice: Travis Grant è un vero fenomeno, dotato di una naturalezza al tiro impressionante, e un realizzatore da percentuali stratosferiche dal campo.
Risposta meno semplice: Il 1966 è un anno molto significativo nella storia del College Basketball. Infatti nella finale del Torneo NCAA di quell’anno accade qualcosa che, fino a quel momento, nessuno avrebbe mai potuto immaginare. I super-favoriti Kentucky Wildcats di Pat Riley (sì! Quel Pat Riley!) guidati dal leggendario coach Adolph Rupp – squadra più bianca del latte della Lola – vengono battuti dai Texas Western Miners di Don Haskins, che, per la prima volta nella storia del Torneo, schiera in campo un quintetto composto di soli giocatori di colore (nei Miners ve ne erano 7 in totale). È una vittoria d’importanza storica. L’America comincia a rendersi conto che anche quegli altri “could play”. E allora eccovi spiegato il perché del reclutamento selvaggio a Travis Grant.
Fra le università maggiormente interessate a conquistarsi la pole position per accaparrarsi i servigi del giovane Travis – ancora sedicenne all’epoca –, una sembra smaniare più delle altre: Alabama State. A differenza della concorrenza, nondimeno, Alabama State può contare su un jolly non indifferente. Sulla sua panchina poggiano le natiche di Lucias Mitchell. Non esattamente il Vostro coach dall’aspetto caucasico, come avrete intuito dal nome.
Mitchell sviluppa per il gioco di Travis un amore smisurato. Travis, infatti, è un superlativo realizzatore, ma non è egoista. Lui gioca per la squadra. Non chiede mai il pallone – esattamente come mai ha chiesto nulla nella vita, nemmeno quel famoso quarto di dollaro –, son i compagni a darglielo, perché capiscono che ha qualcosa di speciale, oppure, più semplicemente, perché vogliono solo vederlo tirare un’altra volta. E poi ancora un’altra. E un’altra ancora. Non ci si stanca mai. «Ma come cacchio fa?»
Più d’ogni cosa, però, Mitchell apprezza Travis dal punto di vista umano. «Oltre ad essere un giocatore fenomenale, è soprattutto un ragazzo di un’umiltà fuori dal comune» avrebbe detto di lui qualche anno più tardi. E così Lucias diventa per Travis quel padre, che, sostanzialmente, non aveva mai avuto. Travis è totalmente conquistato da Mitchell e disposto a seguirlo in capo al mondo.
«Volevo giocare per lui [Mitchell ndr] – dice con aria sicura – non m’interessava di Alabama State, né di nessun altro posto».
E al termine del suo anno da senior alla Barbour, chiusosi a 42 di media – ripeto: 42 di media! – e vari rifiuti a College, soprattutto “bianchi”, disposti a tutto per lui, può finalmente tener fede alla sua promessa e riunirsi al suo padre putativo. C’è un problema però: Mitchell nel frattempo ha accettato l’offerta di allenare i Thorobreds della Kentucky State Univerisity a Frankfort, Kentucky, vero baluardo dei college afroamericani, e Travis, che non ha mai preso un aereo, ha una paura fottuta di volare. Se a ciò aggiungete che, durante il volo, sopra Nashville, il pilota è costretto ad un atterraggio di emergenza, il quadro si complica leggermente e i due rischiano di non ricongiungersi.
«Non volevo più risalire su quell’aereo!» racconta Grant.
Lasciatosi alle spalle le disavventure logistiche, Travis approda finalmente nel Bluegrass State, dove, nel frattempo, Mitchell ha cominciato ad imporre il suo marchio di fabbrica: il lavoro duro. I Thorobreds si allenano 7 volte durante la settimana e 2 volte nei week-end. Il più classico dei “no pain, no gain!”.
Mitchell imposta la squadra su tre concetti fondamentali: Motion Offense, Pressing difensivo a tutto campo e, soprattutto, “Team Ball”/Gioco di squadra. Ciò cui il vecchio Lucias tiene maggiormente è proprio lo spirito di collaborazione fra i suoi giocatori. La palla si passa. Senza se e senza ma. Non ci sono giochi offensivi particolarmente elaborati. L’unico dettame è «passare la palla e andare a lezione». Eh sì, ho dimenticato di dirvelo. Coach Mitchell, esattamente come mamma Mattie Mae, tiene l’istruzione in certa considerazione e se, per caso, qualcuno dei suoi ragazzi decide di fare troppe defezioni fra i banchi, la punizione sul campo d’allenamento è severa.
«Avevamo paura di saltare le lezioni» racconta Travis Grant.
Ad ogni modo, l’esigenza di cementare lo spirito di squadra nasce anche dal fatto che i Thorobreds, cui Grant va ad aggiungersi nel 1968, sono una squadra zeppa di singoli incredibilmente dotati. Fra tutti, due spiccano in particolare detenendo il ruolo di leader della squadra: William Graham – che sarebbe stato scelto con la 14^ chiamata al 6° giro dai Phoenix Suns nel 1971 – e, soprattutto, il centro Elmore Smith – detentore, a tutt’oggi, del record di stoppate in una singola partita NBA (17!) e di una doppia-doppia da quasi 14 punti e 11 rimbalzi di media a partita durante la sua carriera fra i pro (non malissimo direi) –.
Tuttavia piano piano, sottovoce – à-là Marzullo – e un jumpshot alla volta, com’è nel suo stile, Travis comincia a farsi apprezzare dai compagni, che, in allenamento, rimangono totalmente estasiati dal modo in cui fa uscire quella palla dalle sue mani, disegnando parabole di precisione Cartesiana, che puntualmente si insaccano dolcemente nella retina.
«Aveva un tiro in sospensione morbidissimo – dice di lui proprio Elmore Smith – guardarlo tirare mi ha aiutato a migliorare la mia tecnica di tiro».
Per ora, però, Travis deve accontentarsi di mostrare i suoi talenti esclusivamente in allenamento, dal momento che la prassi, all’epoca, prevede che i Freshmen non disputino partite ufficiali con il Varsity Team. Durante una partita contro Campbell College, tuttavia, Coach Mitchell decide di fare un’eccezione. Dopo aver passato il primo tempo in panchina, Travis mette per la prima volta le Chuck Taylor in campo con la maglia dei Thorobreds nella seconda frazione. L’emozione si sente e Grant sbaglia subito il primo tiro che prende. Primi mugugni del pubblico, ma d’altronde siamo in Kentucky e lì per il basket hanno il palato fine. Il momento di appannamento dura però poco. Dopo quel primo errore Travis insacca 10 dei suoi successivi 10 tiri – ripeto 10 dei successivi 10 – e dal pubblico di studenti si leva decisa una voce, accompagnata da un dito indicante: «That guy is a human Machine!».
Travis chiude l’incontro a 32 punti, molta gloria, tanto onore e pubblico festante. Sotto il cielo di Frankfort è nata una stella…pardon, una macchina!
Travis da quel momento diventa titolare inamovibile del quintetto. La motion offense di coach Mitchell comincia a pagare dividendi altissimi in coincidenza della sua presenza in pianta stabile fra gli starters. I Thorobreds raggiungono spesso e volentieri quota 100 punti e, quando in giornata di grazia, anche i 120 e i 130. I giochi sono pochi. Si passa la palla e si tira. Tutti lo fanno, solo che Grant lo fa meglio di tutti.
Il ragazzo ha un range di tiro praticamente illimitato e nessuno è in grado di pareggiare la sua produzione offensiva. Chiuderà infatti la stagione a quasi 27 punti di media, tirando con il 62% dal campo – sì, avete capito bene: il 62% dal campo! –, il che è sorprendente, soprattutto considerando che non stiamo parlando del Vostro amato 7-Footer, che, superati i 3 metri dal canestro, comincia ad avere difficoltà a ricordarsi il proprio nome, figuriamoci depositarvi con grazia lo Spalding.
Travis Grant è un 6’8’’. Gioca Ala Piccola e ha una capacità quasi “Aaron Pauliana” – avete presente quando è in grado di gonfiarsi, piangere e urlare improperi contemporaneamente? Chi guarda o ha guardato Breaking Bad sa di cosa sto parlando, per gli altri…beh son affaracci vostri – di far sembrare facili anche le cose più difficili. Prende tiri da 4 fino a 10-12 metri dal canestro con la stessa scioltezza di un layup. Per lui è come bere un caffè al Bar, ma la cosa più incredibile è che non sembra prestarvi più di tanto attenzione. Segnare 1 o 50 punti non conta. «Points didn’t mean that much to me» dice stringendosi nelle spalle. Tutto quello che sapete – o credete di sapere – riguardo a come debba comportarsi un leader, una superstar del parquet (perché di fatto ne avete davanti una) con Grant dovete prenderlo, impacchettarlo e buttarlo dalla finestra.
Nella vita di Travis non c’è spazio per l’egoismo. Non si atteggia a prima donna e non si comporta come se i compagni gli dovessero qualcosa, soprattutto il pallone. I compagni glielo passano semplicemente perché lui è più bravo.
«Non parlava mai di se stesso – racconta Elmore Smith – Era un piacere passargli il pallone e vederlo tirare».
E Travis Grant lo prende, lo lascia andare con la stessa velocità con cui Di Caprio s’infila nelle mutandine di un’Angelo di Victoria’s Secrets e ringrazia: «Tutto merito dei miei compagni di squadra».
«Se i punti non sono la cosa che interessa di più a Grant, allora qual è questa cosa?» vi starete domandando.
Come ogni campione che si rispetti, quello che lo stimola maggiormente è vincere. Per riuscirci però gli tocca aspettare il suo secondo anno coi Thorobreds, che segnerà un punto di svolta nella sua carriera collegiale, dal quale non tornerà più indietro.
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