Categorie: Primo Piano

Il Messia di Camden

“Allora, sei pronto o no? Muoviti, faremo tardi a messa!”

“Non ci voglio venire mamma! Voglio andare al campetto. Lo sai, è lì il Messia!”

 

Dopo una simile risposta di un figlio alla propria madre, difficile evitare il classico ceffone, o per lo meno qualche insulto misto a lamenti sulla blasfemia del pargolo e su quali errori possano esser stati commessi nell’educarlo. Ma il ragazzo in questione, un qualunque adolescente del New Jersey di metà anni ‘90, avrebbe potuto essere additato come irriverente verso la religione, ma non certo come bugiardo. Perché con ogni probabilità anche quella domenica c’è davvero un giovane che sta giocando al campetto di zona, a Whitman Park, il parco intitolato al più famoso abitante del luogo, il poeta ottocentesco Walt Whitman. Un ragazzo che sta giocando bene a quel campetto, più che bene: divinamente. Il Messia.

Alzi la mano chi non ha mai visto una puntata di My name is Earl, serie comica passata in chiaro anche nel Belpaese qualche anno or sono. La fantomatica Camden County, in cui è ambientata la serie, ha una corrispettiva nel New Jersey, ma nella vera Camden difficilmente troverete Gamberoni, bionde procaci alla Jaime Pressly e Karma da ristabilire. Più verosimilmente vedrete degrado, criminalità, persone un po’ meno affabili di Earl e Randy, e non è la solita retorica qualunquista sulla periferia americana: Camden è effettivamente una delle cittadine col più alto tasso di criminalità dell’intera nazione. Zone insomma dove la filosofia del Karma, se anche avesse valore, agirebbe al contrario.

Eppure è proprio qui che ha visto la luce quel prodigio cestistico che sembra mandato da Dio in persona per riabilitare almeno sportivamente quest’angolo oscuro d’America. La sua stessa origine ha un che di sacrale, essendo il figlio di una precedente leggenda locale che a 20 anni pensa bene di ingravidare una ragazza del luogo, tanto poi lui se ne sarebbe andato a Louisville University a vincere il titolo NCAA e poi sulla costa opposta a vincere quello NBA come comparsa di una squadra che ha in tale Magic Johnson l’attore protagonista. La leggenda non si volatilizza alla notizia della cicogna in arrivo, ma è la madre sedotta e abbandonata, Lisa Paulk, a crescere il frutto di quella passione primaverile nato poi nel febbraio 1983. I geni cestitici però sono quelli di papà, così come il cognome, che è lo stesso (guarda caso) di un genio assoluto del suo campo, quello musicale.

 

Karma o non Karma, qui c’è il forte odore di predestinazione, e i numeri del ragazzino a Whitman Park non fanno che rafforzarne il profumo soave. Una tripla da un metro dietro l’arco, l’azione dopo crossover ubriacante e inchiodata in mezzo alla difesa nonostante l’altezza si aggiri sul metro e 90 molto scarso. Non è difficile intuire chi sia il figlio di Milton Wagner, detto “Ice”, la vecchia leggenda locale: all’anagrafe è Dajuan Marquett Wagner, ma per tutti qui è semplicemente, appunto, “Da Messiah”.

Stesso ruolo paterno (guardia), fisico più minuto, infinita quantità di talento in più: con la palla tra le mani, il Messia predica come obiettivamente nessuno mai in queste zone disastrate, con buona pace del babbo. E’ un ragazzino e in quanto a fama, perlomeno circoscritta al New Jersey, attenta già a quella del Messia biblico, come solo i Beatles prima di lui; non appena ha l’età minima, se lo assicura subito il liceo del posto, la Camden High School, e con lui il fido scudiero Arthur Barclay,  buona ala ma soprattutto amico fraterno in senso letterale, visto che vive a casa Wagner e chiama Lisa “mom”.

Mentre la NBA ha un solo padrone, che gioca a Philadelphia e si appresta a trascinare letteralmente un gruppo di carpentieri a 3 vittorie dal titolo, un altro piccoletto prodigio fa magie simili nel suo ultimo anno di high school in quello stato da sempre bistrattato che è il New Jersey, e che all’improvviso si ritrova alla ribalta nazionale. Merito del Messia, che viaggia a qualcosa come 42,5 punti di media a partita (sì, avete letto bene. E sì, confermiamo che è una guardia, non il “solito” 2.10 in mezzo ai bambini), record, trofei e vittorie a valanga. Ma di liceali fenomenali se ne sono visti a bizzeffe, per entrare nella storia serve qualcosa di sensazionale.

E’ il 16 gennaio 2001 e i Panthers di Camden High affrontano Gloucester Township Tech, una delle rivali più accreditate del torneo. Wagner sembra piuttosto motivato dalla sfida, e inizia a segnare con la solita, disarmante facilità. Ma quel giorno la palla sembra entrare ancora più del solito: segna, segna ancora, continua, non si ferma più. A metà dell’ultimo quarto, con la partita ampiamente chiusa, esce a firmare autografi: potrebbe metterne ancora a referto, ma ritiene che il numero 100 nel tabellino punti sia, a suo dire, “a magic number”, e la chiude lì. Qualche ora dopo, quello stesso giorno, in Texas, un altro liceale, tale Cedric Hensley, ne mette 101. Sì, in una partita che finisce 178-28 contro un team di soli freshmen 14enni e brufolosi il cui centro raggiunge sì e no i 6 piedi. Niente a che vedere con Gloucester, ottima squadra a livello scolastico, che però nulla può contro il Messia, se non ammirarlo: persino un avversario dirà che “a parte il coach, ci divertivamo pure. Sai che Dajuan segnerà; ciò che non sai è quanto. Quindi dovresti almeno divertirti a guardarlo”. Chapeau.

 

Iverson è l’MVP stagionale, Wagner è il miglior liceale d’America, capace di entrare nell’esclusivissimo club delle prestazioni in tripla cifra a nemmeno 18 anni: è la rivincita dei piccoletti, sicuramente migliore e più credibile di quella di The Minis. Gli accostamenti tra i due, anche per lo stile di vita e la mentalità non esattamente da mormone, si sprecano, e per molti Dajuan ne è già l’erede designato senza aver ancora messo piede al college; quando poi John Calipari, ex assistente ai Sixers di AI, se lo porta a Memphis University sfruttando la conoscenza del padre e le sue famose doti di reclutatore (peraltro non sempre corrisposte da eguali capacità tecniche in panchina), dandogli pure carta bianca in campo, i Tigers sembrano un po’ i Sixers del college basket. La struttura in effetti è molto simile: un gruppo non all’altezza guidato da una guardia sottodimensionata che domina le partite quasi da solo (21,2 a sera per il timido freshman, unico Tiger in doppia cifra media e quarto per punti segnati dell’intera nazione). I risultati, se possibile, sono anche migliori del modello originale: vero, non partecipano al Torneo NCAA, ma vincono la Conference Usa e poi il NIT (una sorta di “torneo di consolazione” per chi non va al Torneo più prestigioso, come la vecchia Uefa rispetto alla Champion’s, per usare un paragone calcistico), battendo South Carolina in finale. Nei minuti conclusivi dell’ultimo e vincente atto della stagione i tifosi intonano il più classico dei “One more year!” per colui che li ha trascinati al trofeo; ma anche loro si rendono conto che per un giocatore in grado di essere nominato prima USA Freshman of the year e poi MVP del NIT il college inizi a stare un po’ stretto di fronte alle sempre più assordanti sirene NBA. Ed infatti dopo un solo anno in Tennessee il Messia decide di tentare la predicazione anche al livello più alto esistente.

Ok i piccoletti, ok il nuovo Iverson, ma nel Draft 2002 c’è quella pertica di cinese dalle mani tanto educate e la uno è già prenotata. I dubbi legati alla giovane età e alla taglia non esattamente NBA ready fanno scivolare Dajuan alla chiamata numero 6, addirittura dietro gente del calibro (si fa per dire, ma è facile col senno del poi) di Mike Dunleavy, Drew Gooden e il mitico Nikoloz Tskitishvili o come diamine si scrive, oltre allo sfortunato Jay Williams. A fare il suo nome sono i Cleveland Cavaliers già con la testa al Draft successivo, quello in cui sarà eleggibile, tra gli altri, il ragazzo di Akron di cui tanto bene si parla. All’ordine del perdere e perderemo, squadra (debole) in mano a John Lucas prima e Keith Smart poi (nessuno dei due raggiungerà singolarmente la doppia cifra di vittorie, tanto per capirci), e temporaneo uomo franchigia designato quel Ricky Davis passato alla storia per aver tirato verso il proprio canestro al fine di prendere l’ultimo rimbalzo mancante alla tripla doppia. Il record finale, a grandi linee, è piuttosto intuibile.

In tutto questo Wagner, nonostante il contesto, diciamo “poco stimolante” per non essere volgari, fa quello che ha sempre fatto: segna, anche contro i professionisti. Subito in quintetto e 17 punti all’esordio, incontra Iverson alla sua terza partita da professionista e ne schiaffa 29, gli stessi del pariruolo che tanto ricorda. Un paio di settimane dopo ne scrive 33 con Toronto, che rimarrà il suo career high: le ginocchia, le caviglie, e soprattutto lo stomaco, che già lo tormentava a Memphis, non gli danno tregua, e lo costringono a sole 47 partite giocate, con 13,4 punti di media finali dopo l’ottimo avvio. Acciacchi un po’ preoccupanti per un ragazzo che spegne 20 candeline solo nella seconda metà di stagione.

Comunque sia arriva lo scontato peggior record della Lega e la prima scelta assoluta è quasi dovuta: quello da Akron di cui sopra, al secolo Lebron James, sbarca in città, e adesso s’inizia a giocare sul serio, coi vari Davis e compagnia bella a fare gradualmente le valigie. Il Prescelto e il Messia insieme formerebbero una coppia in grado di affrontare anche gli Angeli dell’Apocalisse, ma se il primo inizia presto a tener fede al proprio nomignolo, il secondo è sempre più alle prese con qualcosa che va oltre anche alle possibilità del suo enorme talento. Gioca di nuovo una metà di stagione, sotto peso e fuori forma, e i suoi numeri crollano, anche perché non è semplicissimo far bene a certi livelli con la pancia costantemente in fiamme, nemmeno se sei il Messia di Camden. E’ sempre più palese che quei bruciori ormai perpetui non possano essere solo acidità o alla peggio un po’ di gastrite da pollo fritto in dosi eccessive, e all’inizio della stagione successiva arriva la diagnosi: rettocolite ulcerosa, una malattia autoimmune che provoca sostanzialmente una cronica infiammazione dell’intestino, con tutto ciò che ne consegue. Perde in pratica l’intera stagione 2004/2005 sottoponendosi a varie terapie, ma è tutto inutile: la malattia, manifestatasi peraltro in una forma particolarmente grave e in fase molto acuta, non dà segni di regressione o miglioramento, e alla fine l’unica strada percorribile rimane quella più drastica e invalidante: l’asportazione completa del colon, ridotto ormai in condizioni pietose, eseguita nell’ottobre del 2005, alla veneranda età di 22 anni suonati.

Il Karma, si sa, alle volte può essere un bastardo e per un Alonzo Mourning che torna a giocare senza un rene e vince un titolo con la sua squadra storica ci sono tantissimi Brandon Roy costretti ad alzare bandiera bianca all’accanirsi della sorte. Dajuan per rientrare rientra pure, un anno dopo l’operazione, coi Warriors visto che i Cavs, secondo le regole del business che non guarda in faccia nessuno, non gli hanno rinnovato il contratto da rookie. La sua esperienza a Oakland è tragicomica e commovente al tempo stesso: gioca una sola partita segnando 4 punti prima di essere rilasciato per gli strascichi della sua precaria salute. L’anno successivo prova la carta Europa, finendo addirittura in Polonia al Prokom e infortunandosi di nuovo al ginocchio dopo 6 gare. Si rimette al lavoro anche con Tim Grover, vero e proprio santone dei preparatori fisici della NBA, ma è tutto inutile: la sua carriera è finita da almeno 3 anni. E ne ha 25 o 26 a star larghi. Il Messia ha già finito di predicare, prima ancora che il suo messaggio possa arrivare al pubblico.

Oggi Dajuan Wagner è tornato a casa, nella sua Camden in cui è ancora una leggenda. Sempre affiancato dall’amico/fratello Barclay, la sua ragione di vita è ora il piccolo Dajuan Jr, per il quale vuole essere più presente di quanto Milt lo fu con lui. E’ più maturo, meno impulsivo e molto più schivo e riservato, anche con quei pochi che si ricordano ancora di lui e vanno a cercarlo in quel precario angolo d’America; ma a chi riesce a strappargli qualche parola dice che “il mio più grande rimpianto non è tanto la carriera che non ho avuto per gli infortuni, quanto il fatto che mio figlio non abbia potuto vedermi giocare. E’ per lui che mi alleno ancora per provare a tornare”. Difficile ce la possa fare, purtroppo. Ma ogni tanto, a qualche esibizione che la comunità o i suoi Panthers organizzano, si riallaccia le Jordan e scende in campo. I movimenti sono un po’ impacciati, di atletismo non se ne parla, ma la classe è quella di sempre, il crossover ubriacante è ancora lì, dove nemmeno la sfortuna è riuscita ad arrivare. E in quel momento, mentre la palla passa da una mano all’altra e il difensore cade inesorabilmente sulla finta, per un momento quel ragazzo poco più che trentenne che vive senza colon e con le articolazioni distrutte torna ad essere il Messia, a predicare pallacanestro come ai tempi di Whitman Park e di Camden High, ad estasiare i fortunati presenti come quando ne scrisse 100 in quello storico gennaio del 2001. Perché se anche il fisico si può logorare, la leggenda resta immutata, in attesa di essere ricordata un’altra volta. O predicata, come preferite.

 

Le battaglie si vincono o si perdono con identico cuore. 

Io faccio rullare i tamburi per tutti i morti,

Per essi faccio squillare le trombe in alto tono e lieto,

Vivan coloro che caddero, viva chi perde in mare i propri vascelli.

Vivan color che affondano con essi.

Vivan tutti i generali sconfitti e tutti gli eroi schiacciati e gli innumerevoli eroi sconosciuti,

Uguali ai più grandi e conosciuti eroi.

(Walt Whitman)

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Pubblicato da
Giacomo Sordo

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