Categorie: Editoriali NBA

7 motivi per cui i Lakers, anche nei momenti peggiori, sono sempre i Lakers

Tifare Lakers, da quando l’NBA ha aperto i battenti una sessantina e rotti di anni fa, ha (quasi) sempre voluto dire vedere la propria squadra vincere un numero considerevole di partite e ammassare Trofei e chincaglieria diamantata come fossero Goleador all’oratorio.
Purtroppo (per i tifosi), o per fortuna (degli avversari) questa diabolica tendenza sembra essersi interrotta da un paio d’anni a questa parte e, in una Città degli Angeli in preda ad un sovvertimento di gerarchie senza precedenti e ormai sempre più nelle mani degli “sfigatissimi” Clippers, i Gialloviola, il cui regno fa concorrenza per longevità a quello di Elisabetta II, pare si siano dimenticati come si vince.

Se tuttavia lo scorso anno i Lakers, pur con un record di certo non esaltante (45-37), ma quantomeno dignitoso, sono riusciti ad approdare alla Post-Season; quest’anno la stagione di Kobe e compagni ha assunto tinte tragicomiche, che nemmeno il più ispirato Mario Monicelli avrebbe saputo immaginare.

Con un’infermeria più intasata di Viale Lunigiana il venerdì pomeriggio, il record degli Angeleni, all’approcciarsi del termine di questa Regular Season, recita 25 vittorie e (ben) 53 sconfitte. Roba da Muro del Pianto. E non è finita qui.
In seguito alla sconfitta patita la scorsa notte, fra le mura amiche dello Staples Center, contro gli Houston Rockets del “freschissimo” ex Dwight Howard, anche la Matematica, che è giudice di Cassazione inflessibile, si è pronunciata.

La stagione che si concluderà il 16 Aprile all’ombra dell’Alamo contro i sempreverdi Spurs sarà la peggiore nella storia dei Lakers, da quando nel 1960 han fatto armi e bagagli, abbandonando l’algido Minnesota da cui han preso il nome – è al ‘57/’58 che risale la peggior stagione in assoluto dei Lakers, fermatisi a 17-53 –, per migrare verso i più miti climi Californiani.

Con ancora 4 partite da giocare, infatti, i Lacustri, anche nella fortunosa ipotesi che riescano a mettere assieme più W che in famiglia Bush, si arrampicherebbero fino a 29 vittorie, il che li porrebbe sotto di una partita rispetto alla versione 1974-1975 della franchigia che, guidata da Bill Sharman e orfana di Jerry West e Wilt Chamberlain, avrebbe concluso la Stagione Regolare con un record di 30W e 52L.

Nondimeno Noi di Nbareligion.com, che abbiamo a cuore i destini e la salute di tutti i nostri lettori e vorremmo evitare, vista la folta compagine di tifosi Gialloviola al pomodoro, la possibilità di suicidi di massa, abbiamo deciso di alleviare le vostre frustrazioni e sofferenze buttando giù una lista di motivi per i quali valga ancora la pena perorare la causa-Lakers.

Perché la squadra del cuore è come la mamma: non la scegli e le vuoi bene per tutta la vita.

Detto questo, nella speranza di un redivivo Kobe per l’annata prossima ventura e di un Nick Young scopritore delle camice a tinta unita, possiamo cominciare:

 

MOTIVO N. 7: SALARY CAP

Per prima cosa vogliamo concentrare lo sguardo sul futuro prossimo della franchigia, che non appare certamente roseo, ma neppure del colore preferito di Henry Ford.

All’apertura della prossima Regular Season, al momento, i Lakers hanno la certezza di avere a libro paga gli stipendi di soli 3 giocatori: Kobe Bryant, Steve Nash e Robert Sacre, ai quali potrebbe eventualmente aggiungersi il milione e spiccioli di Swaggy P, che entrerà in Player Option. Anche se, a mio parere,  potrebbe andare in Opt Out e stare a vedere un po’ che aria tira attorno a lui.
Questo significa che Kupchak & Co. avrebbero a disposizione un discreto margine di manovra per cominciare il re-building.

Ora la mia sensazione è che i Lakers staranno “tranquilli” quest’estate, “accontentandosi” della scelta alta che l’urna del Draft molto probabilmente assegnerà loro (realisticamente fra le prime 10, se va grassa magari anche le prime 5, che in una Draft Class piena come questa è un bell’andare) e magari firmando qualche Free-Agent non di primissima fascia, compatibilmente con le richieste economiche.
Per intenderci Greg Monroe, che non sembra contentissimo della sua situazione a Motown, potrebbe essere un’ottima presa, anche in prospettiva futura, a patto che si riesca a contenere le sue richieste economiche, che verosimilmente spingeranno verso un Massimo Salariale.

Un sorridente K-Love, il cui futuro, a detta di molti, sembra già tinto di Giallo-viola.

In questo modo i Lakers potrebbero puntare con decisione all’estate 2015, dove, scaduto naturalmente il contratto di Steve Nash, avrebbero spazio per dare l’assalto alla Free-Agent class contestuale, che vanterebbe nomi del calibro di Kevin LoveAngeleno di nascita e che mai ha fatto mistero di una simpatia per il Purple and Gold – e Rajon Rondo, il quale andrebbe a coprire finalmente quel buco in cabina di regia che nelle idee iniziali del Front-Office sarebbe dovuto spettare a CP3.
Così facendo, i Lakers tornerebbero ad essere una contender e potrebbero competere ad alto livello fin da subito.

Il piano, messo giù così, sembra piuttosto efficace. Peccato che vi siano una serie di variabili che potrebbero farlo saltare con il tritolo.
Una su tutte: LeBron James.
King James infatti entrerà in Early Termination Option quest’estate e se a El Segundo dovessero anche solo fiutare una sua disponibilità a cambiar conference e vestire Gialloviola, ecco che lo scenario assumerebbe dei contorni leggermente differenti.

In tal caso, infatti, sarebbe plausibile un rilascio immediato di Nash e conseguente spalmatura del suo ingaggio – tramite Stretch Option – per alleggerire ulteriormente il Cap, in modo da poter accontentare il Re in tutto e per tutto e cominciare, così, a disegnare la linea di successione ereditaria che porta da Philadelphia ad Akron.
Insomma, in entrambi i casi si cascherebbe in piedi.
Il problema è che al momento si tratta di pure simulazioni. Stiamo giocando a The Sims, in poche parole. Il futuro dei Lakers resta infatti di difficile pronosticazione, visto che attualmente non si ha alcuna certezza nemmeno per quanto riguarda la guida tecnica della squadra, che, salvo sorprese, sarà strappata dalle mani di Baffo D’Antoni, per essere assegnata a Non-si-sa-ancora-chi.

 

MOTIVO N. 6: WINNING/LOSING

Emblematica copertina di Sports Illustrated in occasione del titolo del 1972. In evidenza Wilt Chamberlain, da sempre considerato l’archetipo del giocatore vincente, ma anche straordinariamente perdente.

Se il futuro dei Lakers è ancora avvolto da una densa nube d’incertezze, che non rappresenta un appiglio sicuro in momenti di sconforto come quelli attuali, non resta altro da fare che rivolgersi al passato per ritrovare il sorriso e rintuzzare la fiamma della fede, ormai ridotta a lumicino. E scavare nel passato dei Lakers è un po’ come mettere piede ad El Dorado.

Uno dei motivi che rende la franchigia californiana qualcosa di assolutamente speciale, quasi un unicum nella storia dello sport professionistico, è legato al rapporto Vittorie/Sconfitte.
I Lakers infatti sono, al contempo, una – se non LA (questa volta non sta per Los Angeles) – squadra fra le più vincenti e perdenti di sempre.

Dal loro ingresso nella lega hanno disputato ben 31 serie Finali (10 più della loro nemesi in verde), aggiudicandosene 16, ma lasciandone per strada 15.
Addirittura, dopo il trasferimento a Los Angeles, hanno dovuto aspettare 12 anni e ben 8 apparizioni al mese di Giugno – vincono il titolo nel 1972 all’ottava finale disputata, dopo averne perse 7 fra ’62-’63-’65-’66-’68-’69-’70 –, prima di riuscire a mettersi al dito un anello che facesse il paio con la fede di nozze.

Insomma, la mediocrità non fa assolutamente parte del Pedigree di questa franchigia.
Si vince tantissimo sì, ma si perde anche con una certa regolarità. Non è forse anche questo il bello dello sport?

 

MOTIVO N. 5: GREEN IS THE WAY TO WIN

«Tieni stretti gli amici, ma ancor più stretti i nemici» così diceva Sun Tzu, o forse era Andreotti? Poco importa.

Fatto sta che Galliani – con la sua malcelata affezione per i frequentatori di Appiano Gentile – non è stato l’unico a metter in pratica questo noto adagio.
Nel 1971 infatti Jack Kent Cooke, proprietario dei Lakers – e anche di Los Angeles Kings (NHL) e Washington Redskins (NFL), una sorta di Paul Allen ante-litteram – nell’era pre-Buss, stanco di vedere i Suoi prendere sculacciate a destra e a manca, ma soprattutto desideroso di cingere d’alloro l’Arena romaneggiante fatta costruire ad Inglewood [Forum ndr], si è ricordato del proverbio sopracitato.

Sharman all’epoca della panchina gialloviola.

Cooke affida pertanto la guida della squadra a Bill Sharman. Uno che da giocatore con la maglia di quegli altri, quelli verdi, un paio di delusioni e di George Foreman rispettivamente a Lakers e Jerry West li aveva rifiliati.
Sharman poggia le natiche sul pino dei Gialloviola portandosi dietro un curriculum di tutto rispetto: 4 titoli da giocatore (tutti con la maglia dei Celtics) e 2 da allenatore (uno coi Cleveland Pipers in ABL e uno con gli Utah Stars in ABA).
Superate le scontate difficoltà iniziali, Sharman riesce ad istillare nella squadra la scintilla di ciò che più gli compete: La vittoria.
E i Lakers, composti, fra gli altri, dai primi Big-Three della storia – West-ChamberlainBaylor – compilano una stagione da record.

Dopo aver messo assieme una striscia di 33 vittorie consecutive – ancora oggi imbattuta –, gli Sharman-Boys chiudono la stagione regolare con 69 vittorie e 13 sconfitte – a tutt’ora record di franchigia – e conquistano, in 5 partite contro i New York Knicks, il primo titolo dal trasferimento nella città degli Angeli.

Sharman avrebbe continuato ad allenare i Lakers fino al 1976, quando le sue corde vocali, irrimediabilmente danneggiate da anni di urla e proteste, gli avrebbero imposto lo Stop.
Cooke, e Buss dopo di lui, non se n’è voluto assolutamente privare e ha optato per metterlo dietro ad una scrivania.
Anche da lì però il vecchio Bill ha “renzopianeggiato”, divenendo l’architetto – prima come GM e poi come Presidente – di quella fantastica squadra che avrebbe dominato gli anni ’80, apponendovi ad imperitura memoria l’etichetta “Showtime”.

Fox stoppa Iverson.

Un altro former-Celtic che ha trovato grande fortuna nel passaggio di Conference sarebbe venuto qualche anno dopo. Più precisamente nel 1997. Stiamo parlando di Rick Fox.
Il riccioluto Canadese, noto principalmente per la naturale attrazione magnetica suscitata verso il gentil sesso, è stato una pedina fondamentale per i successi dei Lakers targati “Phil Jackson”. Non tanto sul parquet, dove, pur essendo un giocatore dotato di straordinaria intelligenza, ha dovuto concedere il proscenio ad altri compagni più celebri e dotati, quanto all’interno dello spogliatoio, dove è riuscito, finchè gli è stato possibile, a porre un freno agli ego delle due Primedonne di turno [leggasi Kobe e Shaq] in vista di un bene superiore: l’anello di campioni NBA.

Ecco quindi spiegato un altro motivo che rende speciali i Los Angeles Lakers. Perché solo una squadra tale è in grado di costruire e vincere, mettendo da parte le animosità nei confronti dei rivali di sempre e poggiando la propria sorte su qualcuno che è stato dall’altra parte della barricata per molto tempo.

Ah dimenticavo, la lista potrebbe anche non essere finita qui. Che Rajon Rondo sia il prossimo?

 

MOTIVO N. 4: THE SHUNT

Il 17 Gennaio del 1960 i Lakers, ancora domiciliati a Minneapolis all’epoca,  hanno appena perso 135-119 contro gli Hawks al Kiel Auditorium di St. Louis. È la quarta sconfitta consecutiva, settima nelle ultime nove partite. L’unica cosa che Baylor e compagni vogliono fare è tornare a casa e dimenticare.
C’è un problema però, la situazione atmosferica sulla pista dell’aeroporto di St. Louis è Bladerunneriana. Il bimotore Douglas DC-3, messo a disposizione della squadra dal proprietario Bob Short, su decisione del pilota Vern Ullman, ritarda la partenza. La squadra nel frattempo attende al Gate d’imbarco. È il numero 13, ma nessuno vi presta attenzione.
Dopo oltre due ore d’attesa, nonostante la pioggia battente, ma con la speranza di un miglioramento delle condizioni atmosferiche ad alta quota, si decide comunque di decollare.

Tommy Hawkins, uno dei sopravvissuti all’incidente, in ginocchio sul playground fatto edificare dai Lakers sopra al campo di grano, che ha permesso alla squadra di salvarsi.

Il volo procede tranquillamente. Chi si rilassa, chi dorme, chi gioca a carte. Fino a che un guasto elettrico al generatore di sinistra provoca lo spegnimento di luci e riscaldamento. La temperatura all’interno del bimotore comincia a scendere vertiginosamente. I finestrini si ghiacciano. La visibilità è praticamente nulla. Nell’assordante silenzio che cala sulla cabina si distingue solo qualche preghiera sparsa. Tutti sono in attesa. Ullman non perde la calma e si accorge di trovarsi esattamente sopra un campo di grano totalmente innevato. È un no-brainer per lui. Atterraggio d’emergenza.
Il Douglas plana. Poi comincia la discesa. Carrello giù e…l’atterraggio riesce!
Attutito dalla neve, il DC-3 si appoggia dolcemente sul suolo della sonnecchiante Carroll, Iowa, nel silenzio ovattato da fluttuanti fiocchi bianchi.

Nessuna vittima. Nessun ferito.

«Tutto era tornato alla normalità – ha dichiarato Jim Krebs, centro della squadra, qualche anno più tardi – Dio aveva esaudito le nostre preghiere. Avevamo spezzato la striscia negativa».

Per una franchigia che è sopravvissuta ad un disastro aereo cosa volete che sia una stagione – peraltro solo la 6^ dal 1947 – senza Playoffs?

Ah sì, il bimotore Douglas è stato poi recuperato e riparato. Indovinate con quale mezzo i Lakers, qualche mese dopo, han cambiato residenza?

 

MOTIVO N. 3: THE VOICE

Avete presente le espressioni “Charity Stripe”, “Slam Dunk”, Air Ball, No harm, no foul di uso ormai comune nel gergo cestistico? Immagino di sì.
Ebbene, tutte queste espressioni, così come molte altre, sono invenzione di un uomo che ha influenzato in maniera francamente non calcolabile il modo di raccontare la pallacanestro. Signori e signore: Francis Dayle Hern, per tutti Chick.

Chick ci mostra per quale squadra tifa.

Chick Hearn è stato uno – se non IL – dei radio-telecronisti più celebri e importanti nella storia della pallacanestro. È stato il radio-telecronista dei Lakers per circa 40 anni.

Con il suo stile secco, privo di fronzoli, dotato di una capacità descrittiva pregnante, incredibilmente concentrato sull’andamento della partita, ma al contempo fantasioso, creativo e pieno di neologismi, Hearn è divenuto detentore di una delle più grandi strisce nella storia dello sport.
La sua striscia di partite consecutive commentate – sempre sulla sideline dei Lacustri – ammonta a 3’338 nell’arco di 36 anni, dal 21 Novembre 1965 al 16 Dicembre 2001!

Un tempo praticamente interminabile, nel corso del quale la voce di Hearn ha risuonato nell’etere radio-televisivo americano, emozionando, coinvolgendo e raccontando, giocata dopo giocata, la storia dei Lakers e della NBA.
Persino i Pink Floyd hanno voluto prestare tributo a Chick Hearn, la cui voce potreste sentire al minuto 4:07 della canzone “Don’t Leave Me Now” dell’album forse più concettuale, visionario e completo della loro discografia: The Wall.

 

MOTIVO N. 2: ADAPTATION

Ulteriore motivo che rende i Lakers una squadra assolutamente peculiare nella storia della pallacanestro è rappresentato dalla capacità, mostrata nel corso degli anni, di sapersi adattare a due città diametralmente opposte – non solo a livello geografico – come Minneapolis e Los Angeles, inglobandone e assaporandone di volta in volta lo spirito, senza mai dimenticarsi di Vincere.

Sono riusciti a passare dall’essere la squadra della workingclass, a quella tutta lustrini e paillettes della Hollywood Angelena. Da George Mikan a Dwight Howard. Da Clark Kent a Superman.
Il che, nella Hollywood sempre più anemica e metrosessuale dei Ryan Gosling e degli Shia LaBeouf, nella Hollywood scevra di Superstar degne di questo titolo, lascia ben sperare per il futuro della franchigia.
Anche questa volta, ne siamo sicuri, i Lakers riusciranno a sopravvivere, a camaleontizzarsi e ad adattarsi a questa nuova realtà, senza mai perdere di vista il vero obiettivo: Vincere.

 

MOTIVO N. 1: THE JACK

Perché questo Signore, in prima fila, l’hanno solo loro.

 

 

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Pubblicato da
Simone Errante

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