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Corey Brewer, l’uomo qualunque travestito da eroe

LeBron James e Joakim Noah. Se volete esprimere il vostro parere su Corey Brewer avete due corsie da percorrere. Sappiate che non c’è spazio per troppi ragionamenti, bisogna schierarsi. O si va in tribuna snob a fianco al “Prescelto”, dove certi oggetti misteriosi tendono a mimetizzarsi nel marasma, o ci si accomoda à coté del francesone, dove il lupo con il 13 è ampiamente rispettato perché capace di azzannare. Questione di prospettive. Ma ricostruiamo il fatto, altrimenti sto qui ad ammucchiare metafore senza materia prima.

11 Aprile 2014, tiepida notte di fine Regular Season. I Minnesota Timberwolves accolgono nella loro tana gli Houston Rockets. E’ il derby dell’ambulanza: Howard, Beverley e Kevin Martin sono costretti a foldare per acciacchi vari. Tutti in borghese. Adelman ne ha otto contati, fa il cubo di Rubik e per evitare di impazzire si inventa la soluzione più scontata. Brewer, solitamente ala piccola, gioca guardia. Ce l’ha nel bagaglio, niente azzardo. Mai scelta fu più azzeccata, è come fare jackpot alla slot machine. Dalle mani di “the Drunken Dribbler” iniziano a grandinare punti, da quel cilindro profondo come un abisso saltano fuori infiniti coniglietti che seppelliscono l’orgoglio texano. La sua partita è un puzzle di improvvisazioni dove virate, coast to coast e triple si incastrano a meraviglia. Alla fine saranno 51 incorniciati da 6 recuperi. Roba da Michael Jordan. Roba da Allen Iverson.

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Avete letto bene. Certe cifre le hanno sapute mettere insieme soltanto quei mostri lì e Rick Barry, altro “discreto” esponente del gioco immortalato dalle pellicole in bianco e nero. La cerchia è ristretta. Aperta parentesi: vi ricordate LeBron e Joakim? Ripeschiamoli e giustifichiamo la loro diversità di pensiero. Intervista a James (post-impresa): “Hai saputo di Corey Brewer?”. “No”. “Ha segnato 51 punti stasera”. “Aspetta, chi!?”. Ecco, appunto. Da uno convinto di essere su candid camera passiamo ad un altro più pacato. Intervista a Noah (pre-impresa, e questo è il bello): “Qual è il tuo ipotetico Dream Team?”. “Centro metto Abdul-Jabbar, guardie Jordan e Magic, ali Nowitzki e Brewer”. Fermi tutti. Su due piedi sembra l’ultima puntata di trova l’intruso, ma il garçon non scherza mica. Un posticino per l’ex compagno di college ha voluto ritagliarlo a tutti i costi. E noi, a posteriori, abbiamo 51 motivi in meno per considerarlo blasfemo.

CB è nato il 5 Marzo 1986 a Portland. Niente Oregon, la cornice è un angolo di paradiso appoggiato nel Tennessee. Mamma Glenda e papà Ellis lo assecondano nella sua passione, il canestro, senza opporre resistenza. E perché dovrebbero? Il piccolo ci sa fare, è svelto di piedi e impara in fretta a controllare il linguaggio del corpo. La High School diventa presto un trampolino direzione Florida University. La patria dei Gators, l’incubatrice dove stanno maturando due prospetti con la maiuscola: il già citato figlio del tennista e Al Horford. Gli effetti speciali sono immediati. 18 Dicembre 2005 ed è già tripla doppia, vittima Jacksonville. 15 punti, 10 rimbalzi e 13 assist fanno stropicciare gli occhi a una vagonata di scout, che riempiono taccuini manco fossero enciclopedie. In realtà il talento non tarda a rientrare nei ranghi, lasciando intravedere sfuriate sovrumane ma con frequenza più sporadica. L’assalto mediatico si verifica in occasione dei due titoli NCAA 2006 e 2007. E’ questo l’anno in cui Brewer capisce di essere diventato grande, di statura e soprattutto di carattere. Saluti e baci, è ora della svolta: la migrazione in NBA lo aspetta.

Draft 2007. Le spifferate degli addetti ai lavori indicano Milwaukee o Charlotte come papabile destinazione di “Drunken Dribbler”, ma ad aver intasato il quaderno degli appunti è il pacchetto osservatori dei T’Wolves. Chiamata al numero 7, cappellino di Minnesota e stretta di mano con Stern. A proposito, ma perché “Drunken Dribbler”? Piccola digressione. A coniare il nickname sono stati i fans dei Florida Gators, per antonomasia tra i più fantasiosi e ironici dell’intero college basket. Il palleggiatore ubriaco tende a inciampare e cadere quando sceglie di forzare una penetrazione nel traffico. Colpa della muscolatura esile, stonata in un pianeta popolato da armadi. Torniamo a noi. Corey ci mette poco a conquistare la gente di Minneapolis. Possiede una qualità umana nobile, ma purtroppo rara: è sensibile. E lo dimostra scegliendo il 22 in onore di Malik Sealy, scomparso nel 2000 a seguito di un incidente stradale e la cui canotta numero 2 era stata ritirata dalla franchigia. Resta in riva al Mississippi per quasi quattro anni in cui, ovviamente, non vince nulla. Niente acque agitate, ma l’onda anomala destinata a scatenare l’effetto domino è sullo sfondo. Ha le treccine. Si chiama Carmelo Anthony.

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Le vie del mercato sono infinite, ed è così che strade parallele subiscono deviazioni e finiscono per intrecciarsi. Brewer schizza a New York per completare un maxi-affare che porta “Melo” al Madison Square Garden. CB accetta di fare la comparsa per una decina di giorni, non viene calcolato da mezza anima, sbotta, sbatte la porta e se ne va. E’ la ribellione più redditizia che si possa immaginare. In qualità di Free Agent si spalancano per lui i tentacoli dei Dallas Mavericks, che lo rapiscono dall’ozio, lo prendono a quattr’occhi e gli urlano: “Tu vieni con noi. Non avrai molti minuti, ma ci servi. Dobbiamo conquistare il titolo NBA”. Il palleggiatore ubriaco obbedisce e secondo voi come va a finire? Facile: sigaro. Miami torna sulla terra, i “Big Three” abbassano la cresta e si stappa lo champagne. L’anello gli dona, ma vivere notti da portaborracce alla distanza logora. “Va bene Corey, capiamo. Ecco il biglietto per Denver. Buona fortuna”. Cuban lo infiocchetta a malincuore e lo consegna in mano a George Karl, che ha il merito di renderlo parte attiva in un roster con gli attributi. Le ultime righe profumano ancora di inchiostro fresco: il ritorno ai Wolves lo abbiamo già narrato e il cinquantello è stato spiato con la lente d’ingrandimento nel secondo paragrafo, ne servirebbero altri per spiegare l’arrivo a Houston e l’involuzione (almeno offensivamente) di un giocatore destinato a lottare per conquistarsi gli spazi.

L’identikit è servito. Su questo signore è il caso di spendere qualche altra riga per esaltarne il sorriso (contagioso), la capacità di essere uomo spogliatoio, la maturità nei comportamenti e la leggerezza nell’attaccare il ferro. Ne sa qualcosa Derek Fisher, posterizzato (per usare un eufemismo) sotto il boato dello Staples Center. Meriterebbe un velo pietoso, invece, l’esperienza cinematografica di CB, volto del criticatissimo “Movie 43” in compagnia di Jared Dudley e Larry Sanders. Che ci vuoi fare? Non tutte le ciambelle escono col buco. Del resto, o sei un comune mortale o sei un fenomeno. Vero, ma esiste sempre l’eccezione. Un antico proverbio sostiene che la verità, spesso, stia nel mezzo. Ecco, vi presento Corey Brewer: un giocatore come tanti capace, per qualche ora, di travestirsi da eroe.

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MICHELANGELO MION

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Pubblicato da
Alberto Calò

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