Categorie: playoffs 2014

Top & Flop: le pagelle di Oklahoma City-San Antonio (Gara 6)

TOP

BORIS DIAW: 8. Si destreggia come un pesciolino nel suo acquario preferito. Gioca di intelligenza, evita di alzare i ritmi, imbavaglia la Chesapeake Arena senza versare una goccia di sudore. La sua interpretazione delle dinamiche della pallacanestro è visionaria, va oltre il verosimile. Ma grazie alla collaborazione di compagni altrettanto immaginifici, l’assurdo prende forma nel polverone di Gara 6. Chiude con 26 punti ed un “merci” proveniente dalle corde vocali del mentore Pop. SAVOIR FAIRE

TIM DUNCAN: 8. Affronta le intemperie del secondo tempo e dell’overtime senza il supporto morale del fedele scudiero Tony. Va a rimbalzo come un fringuello di primo pelo, moltiplica le energie e si esalta quando le tenebre provano ad oscurare la prospettiva delle Finals. Sul 97-95 rischia di combinare la frittata facendosi stoppare da Ibaka e commettendo un fallo sciocco, ma poi sistema tutto salendo in cattedra imperioso. In un soffio di supplementare porta Serge a scuola di perno, aprendo lo champagne che inebria gli Spurs in attesa della rivincita contro Miami. FAINA

KAWHI LEONARD: 7,5. Contro la Piovra, mai abbassare la guardia. Il futuro di San Antonio è già presente, e da un pezzo. Suona la carica allungando le mani e sporcando una quantità industriale di palloni, garantendo a coach Greg una serata di ordinaria amministrazione. Le percentuali al tiro non infiammano i cuori dei matematici, ma la sua prestazione va letta scavalcando le bugie dell’apparenza. Resta in campo 44 minuti, senza mai un calo. E’ lui la bombola d’ossigeno che permetterà ai vecchietti di provarci un’altra volta. COLONNA

MANU GINOBILI: 7. Scatta il selfie della partita immortalandosi nella potenziale tripla decisiva, ma nemmeno la sua freddezza riesce nell’impresa di scongiurare l’incubo overtime. Regala la solita massiccia dote di saggezza ad un quintetto imbottito di soluzioni, e aumenta il tasso di imprevedibilità di un attacco già devastante. “El Contusiòn” fa da cerotto alla ferita lasciata da Parker, completando il capolavoro senza la minima variazione del battito cardiaco. GLACIALE

COREY JOSEPH: 6,5. Il dato è fresco di Gara 6, ma il leit-motiv accompagna dal principio una serie squilibrata. 51-5: è questo lo sconcertante contributo offerto delle panchine. Profonda quella di San Antonio, preoccupantemente sterile quella dei Thunder. L’amico Corey è l’insegnamento proveniente dalle recenti battaglie, l’esempio da seguire per reagire alle violente mazzate. Con la sua grinta ha rialzato uno spogliatoio in ginocchio e ha dimostrato come un gregario possa risultare determinante. Con il 9 seduto e circondato dagli spray, ha schiaffeggiato la timidezza penetrando e sfidando l’intera difesa di Okc. Così, solo così, ci si guadagna il rispetto in Texas. IMPAVIDO

GREG POPOVICH: 9. Il concetto di gruppo, la filosofia di squadra, il collettivo che si contrappone all’individualità. Si fosse innamorato di un pallone da prendere a calci, questo guru avrebbe vissuto a Viareggio e si sarebbe chiamato Marcello Lippi. Parallelismi affascinanti, metodi vincenti sorretti da un segreto: il rispetto per gli uomini. Pop sa dosare bastone e carota, alterna battute e sfuriate, ma non cambierebbe mai un suo soldato per nessuna alternativa al mondo. Il successo si costruisce sulle lavagne, ma sopratutto nei cervelli. Chiedetelo a lui. Dovrebbe saperne qualcosina. MAESTRO

KEVIN DURANT: 7. Se la nave affonda e i passeggeri non sanno nuotare, arriva il 35 e carica tutti in spalla fino a terra ferma. E’ molto più di un Mvp, anche nella notte dei sogni infranti. Saluta il proscenio con 31 punti e 14 rimbalzi, giusto per non rovinare le medie esorbitanti di una stagione da incorniciare. Gli infilano dita negli occhi, gli fanno lo sgambetto, lo placcano, ma lui niente. Si arrende solo ai cecchini in nero-argento, figure impietose che lo obbligano a vestire i panni della stella cadente. ELEGANZA

REGGIE JACKSON: 7. Ha cancellato il signor Sefolosha Thabo dalla distinta di Oklahoma City come una gomma nuova di zecca. Mister Pordenone ha scalato le gerarchie di coach Brooks con pazienza, facendosi trovare pronto nel momento in cui l’allarme infortuni ha invocato la sua freschezza. In Gara 6 regge il confronto con Danny Green, punge e piazza qualche ottimo guizzo. Ma contro la voracità dei campioni dell’Ovest, purtroppo per lui, ogni sforzo è vano. MATURO

RUSSELL WESTBROOK: 6,5. Decatleta forever. Quando si infiamma la contesa lui corre, salta e lancia il peso (Spalding) più di ogni altro concorrente. Sfida le leggi di gravità collezionando sonore frustate sull’avambraccio, contatti che gli garantiscono ben 18 viaggi in lunetta. E’ concreto e fa appello alla sua proverbiale grinta, ma alle olimpiadi del basket americano dove in palio c’è l’anello (e non una medaglia) arrivano sempre primi i maratoneti texani. MOTORINO

FLOP

TONY PARKER: 5. Il 17 Maggio scorso è stato il suo compleanno. Ecco, ma regalargli un bell’amuleto contro la jella? No?. Sarebbe cosa buona e giusta. Ogni anno il francesino deve dribblare acciacchi e malanni, avversari che non si liquidano con un semplice crossover. Il manifesto del ko è il riscaldamento pre-gara, condotto trotterellando su una gamba sola con l’obiettivo di preservare la pericolante caviglia sinistra. Dopo Playoffs vissuti da mattatore, al varco lo aspetta Mario Chalmers. Speriamo, in nome dello spettacolo, che il play nativo di Bruges arrivi integro all’appuntamento. MACUMBA

KENDRICK PERKINS: 4,5. Mette a referto zero punti. Scuotere la retina non è il suo mestiere, ovvio, ma se a questa trasparente esibizione offensiva sommiamo una pessima prova in fase di contenimento abbiamo il motivo dell’eliminazione dei Thunder. Muovere quei chili ad una velocità che non sia quella dei replay è pura utopia. Duncan e Splitter lo fanno impazzire. Da quelle parti dovrebbero sbrigarsi a capire che sotto canestro urge un salto di qualità. ZAVORRA

SCOTT BROOKS: 4. “Lasciare? E perchè?”. La misura è colma. Il popolo di fede “oklahomiana” ne ha abbastanza di delusioni ed illusioni. La pazienza ha varcato il limite e i tifosi della Chesapeake Arena chiedono a gran voce il licenziamento del loro stratega. Troppe lacune sotto il profilo tattico, troppo divario fra l’esuberanza dei titolari e l’inconsistenza delle seconde linee. Questa l’accusa. Troppi infortuni nei momenti cruciali dell’avventura (Westbrook, Ibaka), troppi sconosciuti valorizzati per troncare il rapporto. Questa la tesi difensiva. La verità? Ogni storia ha la sua fine. Lieta o cruda che sia. E forse, senza nascondersi dietro una parete di alibi, sarebbe più coraggioso voltare pagina. BERSAGLIO

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