I Big Three in grande spolvero da una parte e dall’altra (crampi permettendo), le 23 perse degli Spurs, il quarto quarto da 36 punti con 14/16 dal campo per i nero argento, gli Heat in controllo fino a 6 minuti dalla fine (numero non del tutto casuale), Chalmers protagonista della sua peggior partita NBA, la solita efficace panchina per San Antonio.
Questi sono solo alcuni della miriade di spunti lasciatici in dote da una gara 1 intensa, combattuta, calda. Eh già, perché per raccontare il match tocca partire proprio da lì.
Dai condizionatori che non funzionano, dall’afa che l’ha fatta da padrona all’interno dell’AT&T Center, dalla naturale quanto involontaria coreografia generata da centinaia di ventagli sventolati ritmicamente, alla ricerca di un refrigerio difficile da trovare all’interno di una bolgia dantesca come il palazzetto del Texas della scorsa notte.
Ghiaccio sulla cervicale, ripetuti riposi. Soluzioni provvisorie che non sono bastate a tenere in partita un Lebron James costretto a lasciare il parquet nel finale causa crampi e ad assistere inerme dalla panchina al tracollo di una squadra che per lunghi tratti della seconda frazione di gioco era sembrata in grado di poter portare a casa la prima W della serie.
Episodio simbolo (e per molti decisivo) all’interno di una partita che però ha vissuto anche (e soprattutto) di molto altro.
Innanzitutto dei Big Three, da una parte e dall’altra. Polarizzatori di gioco, protagonisti indiscussi, “go to guy” da servire sempre e comunque. Per i padroni di casa giganteggiano le cifre di un Duncan bravo a sfruttare l’assenza di un vero lungo in casa Heat.
21 punti con 9/10 dal campo e 10 rimbalzi sono numeri messi assieme nelle Finals soltanto da Russell e Chamberlain, sintomatici della cronica sofferenza difensiva della squadra di coach Spoelstra nei pressi del ferro. Il 23/31 Spurs da sotto dovrà per forza di cose far riflettere lo staff di Miami.
Più di tutto la differenza nell’ultimo quarto di gioco l’ha fatta la ritrovata vera realizzativa in casa nero argento, protagonisti negli ultimi 12 minuti di una prestazione balistica ai limiti della perfezione.
14/16 dal campo, di cui ben 12 assistiti, 6/6 dalla lunga distanza. Il doppio dei canestri segnati da Miami nello stesso arco di tempo. Una efficienza offensiva pari al 106%. (percentuale che associa al tiro dalla lunga distanza un “peso” maggiore). Merito di Danny Green, tornato infallibile nel finale di gara, dopo aver incespicato a lungo nelle prime fasi di gioco (0/4 prima, 3/3 poi). Vicino a canestro poi ha banchettato Splitter, riscopertosi finalizzatore del letale pick&roll giocato a ripetizione da un Ginobili che ha sapientemente distribuito assist (11 quelli registrati dal box score).
Il tutto frutto del ritmo, viatico irrinunciabile per un attacco che, se innescato, può far male a chiunque. Lebron incluso.
Quello che lo spettacolare finale di gara non cancella però, sono le notevoli difficoltà in fase di costruzione che la squadra di coach Popovich ha incontrato per lunghi tratti dell’incontro. Le 23 palle perse e i 28 punti realizzati dagli Heat in quelle situazioni sono stati i leit motiv del match per tre quarti e soltanto il 58% al tiro ha messo una pezza ad un’emorragia altrimenti difficilmente arginabile.
Palle rubate e contropiede sono diretta conseguenza della difesa adottata da Miami sul p&r. Rischiosa da un lato, efficace dall’altro. Vediamo perché.
Prima situazione. Diaw blocca (a meraviglia) per Parker. Lewis è già pronto al cambio difensivo.
In realtà quello che gli Heat fanno è mettere pressione sul palleggiatore, raddoppiandolo, impedendo linee di passaggio, anche a costo di lasciare l’avversario solo sul perimetro (cerchietto azzurro). In questo caso il numero 33 francese ci regala una magia.
Invece, nel caso in cui sul p&r al posto del “pop” verso la linea da 3 punti, ci sia o il “roll” verso canestro o una penetrazione del portatore di palla, Lebron e compagni si adattano ed aiutano ruotando difensivamente come solo loro sanno fare.
Situazione di p&r laterale. Andersen, in marcatura su Splitter, è leggermente in ritardo. Parker se ne accorge e decide di attaccare subito, sapendo che al solito la difesa avrebbe cercato di blizzarlo e mettergli pressione. Nel frattempo, visto che Birdman esce dall’area, Allen va a posizionarsi a protezione del ferro, lasciando metri e spazio a Belinelli in angolo (scelta diametralmente opposta a quella dei Mavs del primo turno).
La giocata del playmaker franco belga funziona perché Cole cambia sul blocco di Splitter, ma Andersen al posto di “rallentare” la penetrazione è costretto a subirla, mandando all’aria il piano difensivo che prevedeva il raddoppio. In ragione di questo è Allen a frapporsi tra Parker e il ferro.
Quando il numero 9 Spurs arriva in fondo però, trova la linea di passaggio occupata dalla terza rotazione difensiva dell’azione, quella di Battier, la quale a sua volta lascia libero Leonard. La difesa però ha lavorato a meraviglia e Parker è costretto ad un passaggio difficile in salto. Volete sapere com’è andata a finire?
Coast to coast di un magnifico Ray Allen, l’unico del supporting cast della squadra della Florida in grado di incidere sulla partita con i suoi 16 punti.
In definitiva, quello che è certo è che le anomalie sono state tante, troppe per pensare che questa gara 1 sia stata realmente indicativa. 3 giorni per fare adattamenti, per far recuperare i propri giocatori dai crampi, per ragionare sulle palle perse e per aggiustare l’impianto di condizionatori.
Poi sarà di nuovo palla a due all’AT&T Center. E visto lo spettacolo offerto nei primi 48 minuti, non vediamo l’ora che venga alzata.