Categorie: Editoriali NBA

NBA Finals 2014, Miami Heat – San Antonio Spurs, analisi gara 3!

Uno dei migliori primi tempi offensivi della storia delle Finals NBA. 24 minuti di basket celestiale. Questa la risposta Spurs alla cocente sconfitta in gara 2 di soli 2 giorni fa. Non c’è tempo per recriminare e neanche per riflettere troppo. Il ritmo serrato della postseason ribalta rapporti di forza e pronostici.

Eroe, idolo, superstar (chiamatela come volete) della nottata è Kawhi Leonard, consacratosi definitivamente con una prestazione da 29 punti (massimo in carriera per lui ai Playoff), in buona parte incastonati in una prima frazione di gioco dei texani da tramandare ai posteri. 71 punti nel tempo, 41 nei primi 12 minuti, il 75,8% dal campo all’intervallo lungo, record nelle NBA Finals.

Il Nirvana cestistico è lì a portata di mano, basta premere play al video sopra riportato.

Gli Spurs attaccano sempre il ferro, di continuo, con un’intensità e una voglia diversa dai loro (già molto elevati) standard. Un dato per tutti: in gara 1 e gara 3 (entrambe vinte), San Antonio ha tirato 8 volte dal cosiddetto “MidRange” (il tiro “meno prezioso” che si possa prendere sul parquet); nella sconfitta di gara 2 bene 23 volte, sintomo di quanto sia importante penetrare ed andare fino in fondo.

Ed a farlo sono stati soprattutto loro, il duo che era mancato nei primi episodi della serie. Leonard e Green, bravi come non mai a buttarsi dentro, prima ancora di preoccuparsi della conclusione della lunga distanza. La guardia recordman di triple nella passata edizione delle Finals chiude con 6/6 da 2 e con ben 5 rubate. Il canestro pesante per una volta passa in secondo piano, alla squadra serve altro.

Colui che invece non tralascia davvero nulla nella sua prestazione è il numero 2 dei nero argento, infaticabile su entrambi i lati del campo. Vedere per credere.

Pick&roll laterale con Lewis e la difesa Spurs cambia sul blocco lasciando Duncan su Lebron (in questa circostanza con esiti non del tutto positivi, ma la difesa del caraibico è comunque più che competente). In generale però l’idea è stata premiata, cambiare sistematicamente quando il numero 6 in maglia Heat sfrutta il blocco dei compagni.

Per questo (e non solo) la scelta di coach Popovich è caduta su Diaw, partito in quintetto al posto di Splitter. Il giocatore francese è capace di accoppiarsi in emergenza anche con giocatori più piccoli di lui ed allo stesso tempo garantisce spaziature migliori offensivamente (oltre a qualità di passaggio seconde a pochissimi).

Inoltre, altro particolare decisivo, Diaw costringe Spoelstra a cambiare la conformazione del quintetto. Sapendo che Lewis non può tenere spalle a canestro il giocatore francese, Miami passa allo schieramento con Bosh da 4 e Andersen da 5, mandando alternativamente uno dei 2 sul numero 33 degli Spurs, togliendo forza al gioco interno dei nero argento, ma perdendo (e molto) in spaziature ed efficacia dall’altra parte.

Il +20 di plus/minus a fine gara e il +45 generale nella serie ne sono semplicemente la riprova. Boris è il fattore decisivo, almeno in casa Spurs.

Eh già, perché per la franchigia della Florida, come già ricordato in analisi precedenti, tutto passa e tutto dipende dal tiro dalla media. Di Lebron in primis e più in generale di tutta la squadra. La corona rossa nella shot chart degli Heat attorno all’area racconta molto di quanto siano stati poco produttivi da quella zona in gara 3. Pochi tentativi (soltanto 6) e tutti sbagliati. Troppo poco e troppo male per impensierire una difesa organizzata come quella dei texani. Se a questo poi ci si aggiunge il problema di un supporting cast che stanta a decollare, le preoccupazioni iniziano a diventare consistenti.

Infatti, a fronte di un Lewis silenzioso e chirurgico come quello del 2009 ad Orlando (14 punti con 7 tiri), Miami in questi primi 3 match non ha potuto contare su Mario Chalmers, invischiato ripetutamente in problemi di falli, poco incisivo, nervoso, inconcludente. Una sciagura alla quale gli Heat sperano Rio riesca a trovare rimedio.

Le speranze di vittoria dei campioni in carica passano anche (e soprattutto) dalle mani del loro playmaker.

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Pubblicato da
Stefano Salerno

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