“I San Antonio Spurs sono campioni NBA 2014”.
Un mantra, un desiderio, un obiettivo, un’ossessione per chi negli ultimi 12 mesi non ha fatto altro che ripensare alla gara 6 dello scorso anno. Alla tripla di Allen, ai cordoni che vengono tolti, a quell’anello che sembrava essere già pronto per essere indossato. Sfuggito dalle mani possenti di chi era abituato, nel momento della contesa decisiva, a strapparlo sempre dalle grinfie dell’avversario.
Ritornare sul luogo del delitto però è un’occasione troppo ghiotta da lasciarsi sfuggire. Diversa convinzione, diversa intensità, diversa voglia da parte dei nero argento. Prima ancora dei sistemi di gioco, della perfetta circolazione degli Spurs, della capacità di cambiare pelle a seconda di chi si ha di fronte.
E poi il gruppo. La magnificazione del concetto di squadra, a partire dal vertice. Da Duncan e Popovich. Un abbraccio. L’ennesimo giunto nel momento del trionfo, a sancire stima, rispetto, affetto.
E poi i “Big Three”, compagni di viaggio giunti forse all’ultima stazione. 117 vittorie ai Playoff, mai nessun trio nella storia NBA ha fatto meglio. L’istantanea di un trionfo a cui è difficile aggiungere parole d’elogio.
Una vittoria giunta al termine di una serie di finale spettacolare sì, ma molto meno equilibrata (almeno nei numeri) rispetto a quelle passate. Dopo il “Crampi Game” all’esordio e la vittoria in volata degli Heat in gara 2, in campo il divario è diventato sempre più evidente.
Le 4 affermazioni degli Spurs sono arrivate tutte con un margine pari o superiore ai 15 punti. Il “point differential” finale recita 70. Mai il margine complessivo accumulato nelle Finals NBA era stato così ampio. Così come da record è il 52,8% dal campo con cui San Antonio ha tirato dal campo (se considerassimo il valore “accresciuto” del tiro da 3 si sfonderebbe il muro del 60%). Un’immensità.
Numeri che sono la ciliegina su una torta fatta di intensità difensiva, di transizioni guidate alla perfezione, di costruzione dal p&r.
E fatta da un roster la cui panchina è risultata essere il fattore decisivo. Un dato per tutti (ve l’ho detto, visto che non c’erano parole per descrivere, ci sto provando con le cifre): Ginobili ha chiuso la serie con un +83 di plus/minus totale, il tutto condito da giocate del genere.
Se alla carica dell’argentino poi, si somma l’impatto dei vari Mills (che ha finito in crescendo siglando una fantastica gara 5), Diaw (poi diventato Splitter, visto che il francese era troppo importante per non essere titolare), ma anche dei vari Bonner, Joseph, Baynes e Ayres, la profondità e poliedricità degli Spurs è stata l’arma in più per Gregg Popovich.
E poi lui, il nostro Marco. Le sue lacrime, la sua emozione, il tricolore sulle sue spalle a sfiorare il Larry O’Brien Trophy, protagonista multiforme di una stagione NBA che noi appassionati difficilmente scorderemo.
Dall’altro lato del parquet invece, gli sconfitti e i loro dubbi, le loro ansie e l’incertezza verso un futuro tanto insondabile quanto poco promettente. Il solito enciclopedico Lebron James non è bastato neanche ad allungare la serie, ritrovatosi di colpo 7 anni indietro. Come nel 2007, a capo di un roster sfiancato, con poco da dire, umiliato dagli Spurs nell’atto finale (in Ohio in realtà, le sue cifre in primis furono deludenti).
Futuro che si deciderà tutto nei prossimi giorni, con quelle Player Option che i vari James, Wade e Bosh dovranno decidere se applicare o meno. Restare altri 2 anni in Florida e provare a continuare a scrivere la storia (magari con l’aggiunta di Carmelo Anthony) oppure separare le proprie strade e cercare nuove avventure in altri lidi (con Chicago, Cleveland e tante altre alla finestra).
Tutte speculazioni, voci di corridoio, indiscrezioni che seguiremo e commenteremo nei prossimi mesi. Adesso restano negli occhi le immagini del festa, del trofeo alzato al cielo da chi più di chiunque altro e meglio di chiunque altro ha saputo insegnarci come giocare questo sport meraviglioso.