Categorie: Editoriali NBA

Miami, tutto da rifare?

La caduta è stata netta, fragorosa. Il lungo percorso, iniziato la notte di Natale del Dicembre 2011, è giunto al termine. Sì, perché erano 3 anni che i Miami Heat non conoscevano il sapore amaro della sconfitta, da quella debacle contro i Dallas Mavericks al primo tentativo dell’esperienza dei Big Three. Dopo due stagioni coronate da altrettanti anelli, ecco il brusco stop. Non è bastato essere entrati nella storia, centrando la quarta Finale consecutiva, roba che non si vedeva in giro da 3 decadi. Il sogno di completare l’agognato Three-Peat è svanito per mano dei San Antonio Spurs, sotto i colpi dell’MVP Kawhi Leonard, artefice massimo del 4-1 con cui i Texani si sono riappropriati del Larry O’Brien Trophy, contestualmente relegando gli Heat ad un record di 2-2 in quattro anni di Finals. Un risultato buonissimo, ottimo, per il quale molte squadre firmerebbero col sangue. Ma, forse, non proprio quello che ci si aspettava in quella calda estate del 2010.

L’annata della formazione della Florida è stata molto altalenante, con tante luci ma anche sinistre ombre. Nella off-season, memori della battaglia contro gli Indiana Pacers, ecco arrivare la grande scommessa Greg Oden, reduce da anni e anni di inattività ma chiamato a mettere il proprio corpaccione contro Roy Hibbert e gli altri big men della Lega. La perdita di Mike Miller, di cui si è sentita la mancanza nei Playoffs, era stata tamponata con gli innesti di Roger Mason Jr e Toney Douglas, quest’ultimo arrivato a stagione in corso in cambio del pretoriano Joel Anthony. Per cercare di dare più profondità al roster, ecco il ritorno del figliol prodigo, al secolo Michael Beasley. Nessuna delle operazioni di mercato ha avuto però gli esiti sperati.

Il mantra della stagione di Miami è stato chiaro sin dall’opener contro i Bulls: far riposare il più possibile l’acciaccato Dwyane Wade. Operazione riuscita, a guardare dalle partite giocate dal prodotto di Marquette, 54, il minimo dall’infausta annata 2007-08, eccezion fatta per quella del lockout. Niente più rincorse a record stagionali o al primo posto nella Conference, più o meno deliberatamente lasciato in mano ai Pacers sin da Novembre.

Eppure la regular season non era partita malaccio. 13W in 14 incontri disputati, con l’unica battuta d’arresto arrivata in casa, di un punto, contro Boston grazie al tiro allo scadere di Green. Anche la transizione tra 2013 e 2014 era avvenuta a suon di vittorie, 11 su 13, con una sconfitta in overtime a Sacramento. Poi, dopo una lieve flessione a Gennaio, ecco forse il momento migliore, a cavallo dell’All Star Game, costellato da 11 affermazioni in 12 incontri, dominando il viaggio ad Ovest e culminando nella storica serata da 61 punti del mascherato LeBron James contro i Bobcats. Da lì in poi, però, qualcosa non è andato più come prima.

Un’invisibile mano ha scosso profondamente le duellanti nella Eastern Conference. E se Indiana entrava in una spirale irreversibile, con inimmaginabili spaccature nello spogliatoio, non meglio andava in casa Heat, in una sorta di rivisitazione di “Se Atene piange, Sparta non ride”. Gli stop, non sempre contro formazioni di un certo lignaggio, si sono accumulati, uno dietro l’altro. 5 L in 6 gare a metà Marzo, la solita sconfitta sul campo dei Pacers, le 3 battute d’arresto conclusive per chiudere la stagione col record di 54-28, senza riuscire ad approfittare dei problemi di chi stava davanti in classifica e rinunciando, di fatto, al primo posto ad Est. Il tutto nonostante il solito James e l’ennesima annata da MVP: 27,1 punti, 6,9 rimbalzi, 6,3 assist, 1,6 recuperi ed il nuovo massimo in carriera alla voce percentuale dal campo, 56,7%.

Anche le statistiche di squadra non avevano mostrato particolari problematiche, a dispetto di una flessione rispetto alle stagioni precedenti e di preoccupanti atteggiamenti, soprattutto difensivi, nelle ultime settimane. Quinti per offensive rating, idem per punti concessi (97,4), undicesimi per defensive rating e dodicesimi per punti segnati ad incontro, 102,2. Primo posto in solitaria, invece, per quanto concerneva la percentuale di realizzazione, un ottimo 50,1%, quasi a compensare l’ultima piazza per rimbalzi catturati.

Il cammino nei Playoffs della Eastern Conference è stato quasi netto ed incontrastato, a voler spazzare ogni dubbio sul gruppo e sulla possibilità del terzo titolo in fila. 4-0 ai Bobcats, 4-1 ai Nets (dai quali avevano subito un pesante sweep in regular season), 4-2 agli artisti precedentemente conosciuti come Indiana Pacers. A voler ben guardare, però, qualche campanello di allarme era già suonato. Charlotte, priva sin da subito della propria stella, Al Jefferson, raramente era andata sotto nel punteggio, resistendo anche alle folate dei ben più quotati avversari e perdendo un paio di gare in volata. Anche contro Brooklyn non era andata così liscia, come potrebbe indicare il punteggio. Gara-2 è stata vinta nell’ultimo periodo, in gara-4 c’era stato bisogno dei 49 punti di LBJ e gara-5 era stata decisa all’ultimo possesso e dopo la tripla della vittoria dell’eterno Ray Allen. Anche nelle ECF Miami è stata pericolosamente vicina a partire dallo 0-2 in trasferta, rimontando inoltre in casa da una situazione di disavanzo in doppia cifra.

Eppure, la presenza del numero 6, giustificava l’ottimismo riguardante l’ennesimo trionfo in Finale. L’avversario però non era dei più semplici: allenato alla perfezione, molto profondo e desideroso di rivalsa dopo la sconfitta di 12 mesi prima. Dopo l’1-1 delle prime due partite, con un James spaziale e Miami vicina al bottino pieno, si pensava ad una serie lunga ed equilibrata. Invece, è stato un monologo degli Spurs, che hanno vinto meritatamente il titolo, dimostrandosi più affamati, più bravi, più forti e più motivati. Cosa che, banalmente, gli Heat non sono stati, sia per merito, enorme, degli avversari, che per demeriti propri.

Le Finals ci hanno detto diverse cose. In primis, che a questo livello non si può vincere da soli. Non l’ha fatto Jordan, non l’ha fatto Magic, non l’ha fatto Kobe, non lo poteva fare un pur ottimo LeBron, che ha chiuso le 5 partite con medie di 28,2 punti, 7,8 rimbalzi, 4 assist, 2 recuperi ed il 57% dal campo. Per paradossale che possa essere, James ha giocato meglio rispetto a 12 mesi fa, soprattutto nelle gare esterne, mostrandosi spesso e volentieri immarcabile anche per il volitivo Leonard. Aggressivo in quarti in cui la squadra non lo seguiva, bravo in altri a cercare di mettere in ritmo i compagni, è sembrato però scoraggiato nella parte conclusiva della serie e con meno mordente, a dispetto dell’incredibile inizio di gara-5. Questo perché a tradire, lui e la squadra, è stato il supporting cast.

Gli altri due componenti dei Big Three non hanno fatto tanto meglio il proprio dovere. Wade è andato in calando dalla serie contro Indiana in poi, arrivando ad essere ai limiti del deleterio contro San Antonio. Polveri bagnate in attacco, telepass in difesa, settore nel quale doveva e poteva fare molto di più. Nonostante il grande lavoro stagionale per garantirgli più benzina nella postseason, è arrivato in palese riserva, riuscendo ad essere meno efficace rispetto alle Finals 2013. Per Chris Bosh, invece, discorso diverso. Dopo aver segnato il tiro, sostanzialmente, della vittoria in gara-2, l’ex Yellow Jacket non è riuscito a ripetere le costanti prestazioni che aveva fornito nel resto dei Playoffs. CB1 si è limitato al mero compitino, mettendoci la faccia nelle dichiarazioni con la stampa ma non riuscendo ad essere efficace su nessuna delle due estremità del campo.

Il più disastroso di tutti è stato Mario Chalmers, incappato in Playoffs negativi ed una serie finale comica, per non dire imbarazzante. Snodo importante nelle cavalcate degli anni scorsi, ‘Rio è sembrato un passante capitato quasi per caso sul parquet, facendosi notare più per i falli commessi che per le giocate degne di nota. Non che la sua riserva, Norris Cole, abbia fatto tanto meglio, associandosi ad un contesto di panchina impalpabile. Il più sfortunato è stato Chris Andersen, infortunatosi contro i Nets e le cui condizioni sono andate progressivamente peggiorando, impedendogli di fornire il solito contributo di energia dal pino. Anche Allen, dopo l’ottimo inizio, si è smarrito strada facendo, ma non è ad un 39enne, seppur in splendida forma, che ci si può affidare, chiedendogli di fare il secondo violino. Ancora più emblematica la situazione di Rashard Lewis. L’ex Sonic ha vissuto il miglior mese in maglia Heat dal suo arrivo nell’estate del 2012, entrando in quintetto contro Indiana e colpendo con puntuale precisione dalla distanza, dopo aver smarrito il tocco ed essersi ritrovato ai margini della rotazione. Il problema sta nel fatto che Lewis, in diverse gare, è stato il terzo miglior giocatore della squadra, se non addirittura il secondo, denotando una collettiva e graduale diminuzione del rendimento generale della squadra. Con la vera Miami, o meglio, quella degli anni scorsi, sarebbe dovuto essere il settimo/ottavo uomo per importanza.

Non esente da colpe nemmeno il coach, Erik Spoelstra. Già sul finire della regular season ha dimostrato un po’ di confusione, risparmiando Wade ma spremendo il resto della ciurma a tratti, da James in giù, indeciso dal corso degli eventi se tentare l’assalto al primo posto o meno. Nella postseason l’intuizione più geniale è stata l’introduzione di Lewis in quintetto, ma per il resto ha sofferto molto il confronto, abbastanza impari a dire il vero, con Popovich. Nelle Finals Spoelstra non è riuscito a trasmettere la solita tranquillità alla squadra, impossibilitato a trovare uomini e line-up affidabili e fallendo nell’escogitare contromisure adeguate allo strapotere dei nero-argento. Nonostante tutto, il posto alla guida degli Heat sembra essere sempre molto saldo.

In molti si chiedono cosa cambierà nell’estate ormai arrivata in quel di South Beach. Come tutti sanno, i tre tenori hanno la Early Termination Option, cioè la possibilità di uscire dall’attuale contratto un anno prima del previsto. Per Wade poche possibilità di cambiare lido, è il volto della franchigia e terminerà la sua carriera con la maglia di Miami. Più possibilità per Bosh, spesso criticato dalla stampa, di andare a battere cassa altrove. E’ stato quello che si è sacrificato di più per il bene della squadra, modificando profondamente il proprio stile di gioco ed adeguandosi alle necessità degli Heat. Grande curiosità, e non poteva essere altrimenti, per il futuro di James. Resta? Torna a Cleveland? Va ai Rockets? Si accaserà a Los Angeles? Le domande sono tante, gli indizi nei vari sensi pure. La sensazione è che dovrebbe continuare in quel di Miami, ma la possibilità che cambi aria non è da escludere a priori. Sicuramente, eviterà tutto il battage mediatico di quattro anni or sono correlato all’infausta “The Decision”.

Pochi giocatori sotto contratto per gli Heat in vista della prossima stagione. Norris Cole entra nell’ultimo anno dopo aver firmato da Rookie, percependo circa 2 milioni di dollari. Col minimo Justin Hamilton, mentre Udonis Haslem ha una player option da 4 milioni di $, ma attualmente non si hanno ancora notizie in merito. Chi ha già deciso di uscire dal contratto è Andersen, che testerà il mercato dei free agent, monitorando anche la situazione in quel di Miami.

Il free agent di maggiore rilevanza è proprio Chalmers. Le sue quotazioni sono decisamente in ribasso dopo questa brutta postseason, difficile ancora capire se rifirmerà con gli Heat o porterà le proprie labbra ad indirizzo nuovo. Probabile saluto a Douglas, invisibile nella sua esperienza in Florida, indecisione attorno a James Jones, ai margini della rotazione ma presenza importante nello spogliatoio. Da capire anche quale sarà il futuro di Beasley, messo ai margini da Spoelstra, di Lewis e di Oden, virtualmente inutilizzato a causa di ingenti problemi alla schiena. Molto probabile il ritiro di Shane Battier, in declino costante da un anno a questa parte. Da confermare le voci riguardanti Allen, che vorrebbero He Got Game in procinto di terminare la sua grandissima carriera.

Dalle decisioni dei Big Three si capirà quale sarà il volto dei Miami Heat nella stagione 2014-15. Le voci di un possibile arrivo di Carmelo Anthony paiono abbastanza infondate, mentre nelle ultime ore è circolato qualche rumors riguardante Iman Shumpert. Sicuramente c’è bisogno di un restyling, per una squadra arrivata scarica all’appuntamento con gli Spurs, sia da un punto di vista mentale che da uno prettamente fisico. Ci sarebbe bisogno di forze fresche, gambe giovani e, magari, anche qualcuno che copra i soliti difetti a rimbalzo, senza snaturare lo stile voluto da Spoelstra da 3 anni a questa parte. Chiaro che i primi giorni di Luglio saranno decisivi per le sorti della franchigia, con un effetto domino che coinvolgerà il resto del roster. Per restare competitivi, come ha affermato Pat Riley, non si può restare immobili, pena la perdita di terreno nei confronti delle rivali. O, peggio, lo smembramento di un progetto che è stato costantemente sotto la luce dei riflettori. Un’eventualità che in South Florida si augurano non voler sperimentare nella prossima stagione.

Alessandro Scuto

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