Categorie: Editoriali NBA

Love is in the air. Ecco perchè questo Draft ha segnato la fine di un’epoca.

Giovedì 26 Giugno. Esci di casa. Non ne puoi più, son giorni che studi e hai bisogno di staccare. Solito bar e solito Jägermeister. Due ciaccole fra amici (sempre gli stessi anche loro) non possono che farti bene.
Tutto molto bello, poi però lo scambio di sguardi con quello malato di pallacanestro (quanto, se non più di te) rovina tutto: «Scemo, guarda che inizia il Draft tra poco! Io vado».

Occhiata al Seiko del nonno sul polso sinistro. Risposta implacabile del giapponese: 1:20. Tra 10 minuti potrebbe cambiare tutto. Inizia la rincorsa.
Scanni lo Jäger con la stessa foga di Cobain davanti ad un paio di flaconi di Roipnol. Sguardi attoniti dei presenti, a cui rispondi con un “Razdeganiano” «Sono fatti miei!» (momento anni ’90 ) e poi via.


Meno capelli, più cattiveria, ma sullo stato di ebbrezza ci siamo.

Raggiungi l’auto, accendi e parti.
Velocità media: 80 km/h in un centro abitato e in 5 minuti compi il tragitto da Via dei Mille a Via Boito. Tutto bene fin qui. Poi il disastro, il contrattempo finale: Luci blu. Imprechi in tutte le lingue e accosti.

«Patente e libretto».

E adesso vaglielo a spiegare che sei a 200 metri da casa e fra 5 minuti comincia il Draft, che potrebbe cambiare la faccia della lega per i prossimi 10 anni (alcuni dicono come il 1984, altri come il 2003; io non sono di nessuna delle due parrocchie).

«Che? Il Kraft? Signor Errante non faccia lo spiritoso»

Momenti di tensione. Sudi freddo, contratti e per poco non “crampi” come LeBron in Gara 1. Il tempo stringe, meno 2 minuti. Alla fine ce la fai. La sfanghi, intonso come un bebè dopo il bagnetto.

«Vada piano a mangiarsi sta sottiletta, Errante!»

Si va beh, buonanotte.
Ormai sei arrivato. Macchina in garage, sali le scale, la chiave non gira – maledetta toppa! –, poi entri.
Il cane dorme, ma per saltarti addosso è sempre pronto, lo spingi via e accendi la Tv. Divano, Sky Sport 2 e la voce di Flavio Tranquillo ti accolgono. Per il rotto della cuffia, ma ci sei anche tu. Si comincia.

L’attesa è stata estenuante ed è ora il momento di sciogliere le riserve, non tanto sulla prima scelta dei Cavs – lo sai bene che prenderanno Wiggins, ci ha pensato anche Woj via Twitter ad avvisarti (maledetto spoileratore!) –, quanto per vedere come si comporterà il vero protagonista del Draft: Il Commissioner.

Stern ti ha abituato bene. Ogni anno mette in scena un one-man show degno del più ispirato Billy Crystal. Smorfie, mano all’orecchio à-là Luca Toni, e battute taglienti: questo il repertorio con cui risponde(va) ai sempre presenti fischi del pubblico. Un bell’andare. Quello che aspetti anche tu. E invece niente.


That’s what I was talking about.

Quattro mesi fa IL Commissioner ha passato la mano. Al suo posto fa l’ingresso al Barclays Center il suo (ex) delfino, Adam Silver.
Lo osservi. Sembra sicuro di sé, sorridente, ma non scanzonato come il suo predecessore. Si avvicina al podio, ma ancora niente. Stai aspettando la solita bordata di fischi.
«Dai, dai, dai che arriva – pensi – è lì da solo 4 mesi. Una fischiata, anche solo per inesperienza, io gliela farei». E invece nulla.
Anzi, si sentono distintamente applausi e urla di approvazione. Sei totalmente scioccato. Ti hanno appena privato di una delle più durature tradizioni del Draft: i Buu al Commissioner.

Mentre sei ancora intento a disperarti per la vergognosa mancanza di rispetto nei confronti degli antiqui mores, ecco che arriva la sorpresa.
Silver nomina i San Antonio Spurs (freschi campioni), come esempio paradigmatico dell’efficacia del Draft, e improvvisamente sembra di essere in Curva Nord ad ogni tocco di palla di Gattuso nel Derby.
Inconsciamente spunta un ghigno sul tuo volto e la mano si chiude in un pugnetto d’esultanza, stile-Djokovic quando recupera un game sotto 0-40.
Gioia estemporanea, tuttavia, perché realizzi immediatamente che i fischi non sono per Silver.
Solita boria del tifoso newyorkese infastidito dalla competenza manageriale di altre franchigie, che però schernisce in nome di una superiorità basata su non-si-è-ancora-capito-cosa, senza rendersi conto che è dagli anni ’70 che non vede l’ombra di un anello (?).

Una tua diapositiva dell’altra notte.

La cosa ti preoccupa e incuriosisce allo stesso tempo – i mancati fischi al Commissioner, ovviamente, non l’ignoranza del tifoso-medio newyorkese –.
Non avevi mai visto, da che hai memoria, un simile trattamento riservato al Numero 1 della Lega. È sicuramente un evento storico, ma perché, ti chiedi, perché tutto questo?

Cominci a pensare. Dai fondo a tutta la tua forza mentale, tanto che smaltisci lo Jägermeister senza neanche dover ricorrere alla tazza del water. E alla fine un barlume. Ti sovviene un’idea: Che c’entri qualcosa la gestione del Caso/Sterling?

In effetti, ci rifletti bene, l’affaire Sterling e l’abilità mostrata dal Silver nel maneggiarlo hanno rappresentato un punto di svolta, un unicum nella storia dei rapporti fra la Lega e i proprietari.
È la prima volta che alla lista dei reietti, dei giubilati dall’NBA si è aggiunto il nome di un proprietario di una franchigia.

Uno scenario, che nel corso del trentennale regime-Stern sarebbe parso impossibile.
Spesso schierato dalla parte della ownership, il buon David. Sempre concentrato nel tentativo di conquistarne la fiducia e pronto a qualsiasi sacrificio sull’altare dell’unico dio Profitto, pur di ottenerla.
Un capitano dispotico, sfrontato e sornione, che ha saputo traghettare la Lega attraverso momenti difficili, conducendola in baie serene, tranquille e con incassi da $5 miliardi.
Uno splendido uomo d’affari, che è riuscito a raggiungere traguardi importanti, ottenendo sicuramente rispetto, ma neanche la metà di quel consenso e apprezzamento da parte della base della piramide gerarchica che dà forma all’NBA (Giocatori e Tifosi), che ha conseguito Silver in soli 4 mesi.

Un po’ Principe machiavellico (“chi governa è meglio che sia odiato, piuttosto che amato”) e un po’ Marie-Antoinette (“Il popolo non ha il pane? Che mangi le Brioches”), Stern ha racchiuso in sé questi aspetti, almeno agli occhi dei più.
E proprio guardando alla faccenda relativa al proprietario dei Clippers, cominci a cogliere tutto ciò e la distanza che Silver sta cercando di mettere fra sé e chi lo ha preceduto.

Le tendenze razziste di Sterling erano ben note alla Lega già una decina d’anni fa, a seguito del patteggiamento richiesto da Donald su questioni di discriminazione legate alla sua attività d’immobiliarista. Condotta grave almeno quanto quella che ne ha portato all’esclusione, ma in relazione alla quale Stern non aveva preso alcun provvedimento.
Silver, invece, ha messo immediatamente un separè ideologico, pur mostrando la solita riverenza: «Non ero io il Commissioner all’epoca».
E ha indicato una nuova via: «Le dichiarazioni di Sterling mi offendono prima di tutto come essere umano».
Ecco, appunto, l’umanità. Questo è l’aspetto su cui sta spingendo – foss’anche solo in superficie, ma tant’è – maggiormente Adam Silver in questi primi mesi di mandato.
Umanità che si è colta nelle dichiarazioni post-MVP, post-discorsone emotivo, post-lacrime di Kevin Durant, che recitavano: «This is what the NBA is about».

Good Vibrations trascinate fino alla sera del Draft – storicamente luogo in cui il Commissioner sale in cattedra, entra in scena e appone la firma –, quando Silver dà ai tifosi quello che vogliono vedere: più ragazzi che si commuovono e festeggiano con le famiglie, quando chiamati a salire sul palco. E infatti ne invita ben 21 in Green Room, anziché i 13 dell’anno precedente. Di più, meglio e ancora di più.

E infatti eccolo che arriva. Le coup de théâtre.
Silver, ormai conquistato dai comparativi, non si accontenta.
Fra la 15^ chiamata (Adreian Payne, un altro la cui storia fa concorrenza a Philadelphia) e la 16^ (Jusuf Nurkic, figlio della Bosnia post-Jugo), in un trittico da Kleenex umidi, chiama simbolicamente Isaiah Austin, sfortunato centro della Baylor University a cui la Sindrome di Marfan ha sbarrato la strada.
Una carriera stroncata sul nascere. Un ragazzo che non potrà più fare ciò che ama di più.

Ormai sei totalmente sopraffatto. Il livello di estrogeni sale, entri in contatto col tuo lato femminile e cominci a temere di non poter più avere un’erezione. Mentre ti disperi pensando a tutto ciò, cogli non solo la classe del gesto di Silver – tu come molti dei giocatori NBA su Twitter –, ma anche la sua natura di spartiacque, di paravento materiale, non solo ideologico, dall’epoca-Stern.

E in esso percepisci la volontà, sottintesa ma forte, di cambiare rotta, di voltare pagina – pur con grazia e la riverenza dovuta ad un mostro sacro –, di intraprendere una strada di maggior sostegno spirituale e concreto al capitale umano dell’NBA (i Giocatori) e alla ragione del successo di ogni movimento sportivo (i Tifosi).

Un gesto piccolo, allegorico, con il quale viene posta fine ad un’epoca.

Che Stern sia stato il male e Silver sarà il bene non sei convinto. C’è una sottile correlazione: se proprio Stern deve essere classificato come un male, allora è di certo un male necessario, che ha spianato la strada a Silver. Perché solo dal dissenso può nascere il consenso e viceversa.

Una cosa è certa, e di questa sei convinto profondamente: questo Draft lascia molto di più di qualche 1^, 2^ o 3^ scelta.
Questo Draft comincia a scrivere su una pagina bianca.
I tifosi hanno mal sopportato Stern, ma amato fischiarlo nell’unico momento democratico della vita di un Commissioner. Per ora Silver li ha privati della gioia di farlo, ma lo ha fatto senza imposizioni, inducendoli a rinunciare con una carezza, un sorriso e una pacca sulla spalla.
Comincia una nuova era. Tira un’aria diversa in NBA e – John Paul Young ne andrebbe fiero – è l’aria dell’Amore.
LOVE IS IN THE AIR.

Simone Errante

 
 

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Simone Errante

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