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Il dramma di Isaiah Austin: quando lottare non basta

Una veduta della città di Fresno

Nella terra dei Mariposans, popolo nativo americano che i primi coloni hanno deciso di chiamare Yokut, sotto il sole della città californiana di Fresno, isola lontana dalle coste per surfisti che hanno reso immortale nell’immaginario collettivo lo stato principe della west coast, si incrociano le vie che portano verso quattro immense oasi di verde incastonate nella meravigliosa e affascinante Sierra Nevada, al di là della quale campeggia e domina l’orizzonte la perpetuità della Death Valley. Da Fresno, se si imbocca l’ultimo tratto della Route 99, percorso che attraversa la California da nord a sud, si arriva a Bakersfield e svoltando a est verso la 58 con buona pazienza e tanto gasolio nel serbatoio si può attraversare perpendicolarmente l’intera nazione. Arizona, New Mexico e infine Texas. Questo è il percorso che hanno intrapreso Ben Austin e Lisa Green a metà degli ’90, trasferendosi ad Arlington dalla città dei quattro parchi.

I coniugi Austin hanno un figlio, Isaiah, che in Texas cresce in fretta e con la palla a spicchi in mano. Forte della propria prestanza fisica e di doti tecniche da fare invidia a molti si fa strada fra i giovani “ballers” nella terra della stella solitaria e viene notato da molti talent scout locali già nei primi anni alla Grace Preparatory Accademy, scuola secondaria cattolica di Arlington famosa per implementare l’educazione scolastica a quella domestica con la costante collaborazione fra genitori e professori. La dedizione al lavoro e la passione per la pallacanestro sono doti innate in un uomo e Isaiah dimostra di essere stato premiato fin dalla nascita costruendo un pezzo alla volta la strada verso la realizzazione dei propri sogni da bambino. Per farlo, però, non deve lottare soltanto contro i propri limiti, ma anche contro avversità più dure di quelle a cui un ragazzo è abituato ad affrontare.

Le sventure possono diventare delle scuse socialmente accettabili oppure la storia da narrare ai propri figli per raccontare come ce l’hai fatta e quanto hai lottato per arrivare fino in fondo. Isaiah ne avrebbe da raccontare. Come quasi ogni bambino di dodici anni, il ragazzo di Fresno partecipa ai vari camp estivi di baseball nei pressi della propria città. È in uno di quei momenti che, per una tragica coincidenza, una palla proveniente da una battuta rischia di porre fine ad un sogno non ancora iniziato colpendolo in pieno volto, in corrispondenza dell’occhio destro. Le prime visite eseguite sul posto non evidenziano nessun grave danno, ma dopo qualche giorno cominciano a verificarsi i primi problemi di vista, bruciori, annebbiamenti e temporanei blackout si fanno sempre più frequenti. Dopo che gli specialisti diagnosticano la lesione alla retina inizia una lunga serie di interventi chirurgici che si ripeteranno costantemente nel tempo fino ai primi anni di liceo, ma che non potranno evitare la completa cecità dell’occhio colpito.

Alla Grace Prep Academy, a discapito dell’handicap e delle continue operazioni, Isaiah diventa presto uno dei punti di riferimento della squadra dimostrando un’infinita forza d’animo. Nel suo anno da senior diventa il miglior giocatore in rosa, mantenendo una media di 15 punti, 11 rimbalzi e 5 stoppate a partita. Queste prestazioni lo rendono velocemente uno dei giocatori più ricercati dai college americani tanto da convincere ESPN ad inserirlo nel secondo miglior quintetto nazionale.

Una volta terminato il liceo, per Isaiah è nuovamente tempo di fare le valigie. Questa volta il viaggio sarà molto più breve. A separare Arlington e Wako, sede della prestigiosa Università di Baylor, novanta miglia di praterie texane. Sulla strada, percorrendo la highway 35, ci si può imbattere in numerosi cavalletti per l’estrazione del petrolio, simbolo della fervente economia texana del secolo scorso, piccole chiese in legno chiaro con il tetto dipinto a mano e dalla vernice scolorita dal sole che, nei mesi estivi, picchia pesante. Poco prima di arrivare a Wako si incontra un cartello ricavato da quella che sembra essere una vecchia testata di un letto di fine ‘800, con due pali in ferro battuto a definirne la larghezza e decorati, se così si può dire, alle estremità superiori da un pomello ancora quasi perfettamente sferico, nonostante l’inevitabile erosione del tempo. Al suo interno, incollata su una fitta rete di paglia simile a quella usata per le sedie di campagna, campeggiano quattro grandi lettere, anch’esse in ferro battuto e ricoperte da una vernice nera, a formare la parola HOPE, speranza. Quasi a significare che su quella strada era riposta la speranza di un ragazzo e una famiglia che mai nella vita vorrebbe arrendersi alle avversità sottopostegli dalla vita.

Isaiah muove i primi passi nella prestigiosa università battista di Baylor mentre continua a convivere con quell’handicap che, qualora diventasse di dominio pubblico, rischierebbe di compromettere seriamente il sogno di competere fra i giganti del basket mondiale. La perdita della vista dall’occhio destro, infatti, rimane un segreto vincolato fra le mura del Ferrell Center, palazzetto dove i Bears disputano gli incontri casalinghi. Nel contempo, già dalla stagione da freshman il ragazzo dimostra di essere fra i più degni di nota della propria classe, cestisticamente parlando. A coronamento dell’ottima stagione, infatti, arrivano le nomine per la 2013 All-Big 12 third team e per la Big-12 All Rookie team. Il 4 aprile 2013, in occasione del NIT Championship Game contro Iowa, Isaiah risulta essenziale nella vittoria dei Bears per 74 a 54 con 15 punti. 9 rimbalzi, 5 stoppate, 4 assist e 2 recuperi.

Al termine di questa sorprendente stagione, il coraggio e la volontà, e soprattutto la speranza, portano Austin a decidere, in accordo col proprio agente, di dichiararsi eleggibile per il Draft NBA 2013 ma poche settimane prima del grande evento un infortunio alla spalla lo convince a fermarsi a Wako per un secondo anno scolastico.

Quella da sophomore non è una stagione ai livelli della precedente per tutti i Bears, ma Isaiah riesce comunque a distinguersi guadagnandosi la nomina nel 2014 Big-12 All-Defensive team grazie ad una media di 3,1 stoppate e 5,5 rimbalzi a partita. A Wako, intanto, il ragazzo è sempre più stimato e incoraggiato. I compagni di squadra lo considerano un punto di riferimento ed un esempio da seguire, essendo a conoscenza delle sventure che ha affrontato prima di arrivare alla Baylor. È sull’onda dell’entusiasmo generale e personale che arriva la decisione irrevocabile di saltare gli ultimi due anni di college per entrare, finalmente, nel Draft NBA.

L’impronosticabilità degli eventi che la vita ci costringe ad affrontare, però, è a dir poco incredibile, a volte malefica e intrisa di quell’accanimento quasi animalesco che i superstiziosi chiamano sfortuna. Quella sfortuna così cieca da scagliarsi impietosamente contro chi ha sempre lottato e sofferto e, nel momento di più alta estasi, è pronto a celebrare la dolce ed entusiasmante vittoria dopo le sofferenze. È così che Isaiah si sente il 21 giugno 2014. Pronto ad alzare le mani al cielo e gridare “Ce l’ho fatta!!”. Mancano solo cinque giorni al Draft 2014 quando la sfortuna decide di  scagliare un altro bastone fra le ruote del carro che lo avrebbe condotto al Barclays Center, là dove si sarebbe riunito con decine di future star del panorama cestistico internazionale nel Draft, probabilmente, più prestigioso degli ultimi dieci anni.

La diagnosi della sindrome di Marfan è quell’enorme macigno sotto il quale si rompe ogni prospettiva futura del giovane ragazzo venuto dall’ovest. La malattia può colpire ogni tipo di tessuto connettivo presente nell’organismo, specialmente il sistema scheletrico, gli occhi, ma anche il cuore, i polmoni e, ovviamente, il cervello. Ogni sintomo e conseguenza di questa particolare patologia genetica è inconciliabile alla vita di uno sportivo professionista e l’addio ai propri sogni diventa, per forza di cose, l’unico traguardo possibile, al termine del percorso di chi non ha mai rinunciato alla propria lotta ed è costretto ad arrendersi ad un avversario troppo forte per essere sconfitto.

Quello che la lega ha deciso di fare nel corso del Draft è stato visto da milioni di persone. La chiamata di Isaiah Austin da parte del commissioner Adam Silver, che ha deciso di annunciare a scelta simbolica del giovane in forma di premio alla costanza e come piccola consolazione per quel premio infranto proprio pochi giorni prima che venisse realizzato. Quello che in pochi conoscevano è il percorso che Isaiah ha dovuto affrontare per arrivare qui, al Barclays Center, il 29 giugno, prima di doversi arrendere, ma non senza poter dire di aver lottato, forse, più di tutti.

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