Categorie: Editoriali NBA

King James, il ritorno

Il Re è morto, Viva il Re. L’estate del 2010 aveva lasciato scorie nucleari e ferite profonde all’interno del Mistake on The Lake, altrimenti conosciuta come città di Cleveland. Una sorta di isteria di massa aveva pervaso gli abitanti dell’Ohio, scesi nelle strade a protestare il proprio malcontento con fermezza e durezza. Sì, perché quell’infausto “I’m going to take my talents to South Beach” aveva scosso nel profondo i tifosi dei Cavaliers, una delle franchigie storicamente più sfortunate e perdenti della pallacanestro americana. A maggior ragione se colui che aveva pronunciato l’infelice frase era stato l’idolo e sovrano indiscusso della città, LeBron James.

Le ultime annate in maglia Cavs non erano andate a buon fine. Regular season dominate, con oltre 60 vittorie all’attivo, ma uscite anticipate nei Playoffs. Gli Orlando Magic di Dwight Howard prima ed i Boston Celtics dei Big Three dopo, avevano frantumato i sogni di gloria di una squadra che aveva assaporato la gioia unica delle Finals 2007, seppur perse malamente contro i San Antonio Spurs. Eppure il peggio doveva ancora arrivare per tutti i supporter di quel fantastico numero 23, capace di fare la voce grossa sul parquet sin dal suo debutto nella Lega.

Le speculazioni sul conto di LBJ erano iniziate ben prima di quel Luglio 2010. Diverse squadre, infatti, si erano preparate all’assalto al pezzo grosso dei free agent, scaricando il cap in previsione di una firma tanto prestigiosa. I New York Knicks avrebbero fatto follie per portare James sotto le volte del Madison Square Garden, idem dicasi per i New Jersey Nets, prossimi al trasferimento a Brooklyn. Anche i Chicago Bulls erano nel mix delle pretendenti, sperando di convincere il giocatore a raccogliere il fardello di MJ. Eppure, in molti credevano, o semplicemente speravano, che Cleveland fosse ancora la prima scelta di LeBron, la franchigia da portare finalmente nell’Empireo NBA, un successo che per lui, figlio della vicina Akron, avrebbe significato doppio.

Miami Heat. Questa la nuova casa del Chosen One, reclutato da Pat Riley e Dwyane Wade in compagnia di Chris Bosh. L’amicizia che li legava sin dal Draft 2003, cementata anche dalle esperienze più o meno positive in nazionale, li aveva spinti a far nascere una novella edizione dei Big Three, pronta a spazzare la pur agguerrita concorrenza all’interno della Lega.

A Cleveland, per usare un eufemismo, la presero bene ma non necessariamente benissimo. Con scene degne delle contestazioni brasiliane agli ultimi Mondiali di calcio, per le vie della città molti tifosi si adunarono per bruciare le maglie di James. Il grande cartellone pubblicitario, We are all Witnesses, venne ritirato in fretta e furia. Il proprietario della squadra, Dan Gilbert, andò su tutte le furie, promettendo alla città un futuro più radioso ed un titolo vinto prima di LeBron. Anche al primo ritorno da giocatore alla Quicken Loans Arena le cose non andarono per il verso giusto. Atmosfera da stadio calcistico, fischi a profusione, insulti a valanga e tante prese per i fondelli verso LeQuit, accusato di aver abbandonato in fretta la nave che stava affondando.

Eppure, a ben vedere, la scelta di LBJ non fu sbagliata a priori. Lo sforzo del management dei Cavaliers per rinforzare la squadra, accontentando le richieste di James, si era rivelato sempre vano, non riuscendo a colmare le lacune note, con la coperta sempre irrimediabilmente corta contro le altre contenders ad Est. La volontà di cambiare aria era del tutto legittima, per la viva paura di restare ancorato ad una franchigia perdente e senza la possibilità di vincere quel benedetto anello. L’errore più grave in quel frangente fu la poco felice The Decision, ossia la scelta di LeBron in real time della sua prossima squadra, con tanto di stacchetto pubblicitario. Dal punto di vista mediatico la situazione non venne gestita bene dal giocatore e da tutto l’entourage, fomentando così i sentimenti di rivalsa da parte dei suoi ormai ex tifosi.

L’altro dubbio consisteva nella squadra che si andava ora formando, col drago a tre teste destinato alle parate celebrative lungo il Biscayne Boulevard. James, infatti, non era più l’unico uomo franchigia, come era successo a Cleveland e sarebbe accaduto anche in altre formazioni, bensì aveva accettato di andare a giocare con due stelle del proprio calibro. Invece di battagliare con l’amico fraterno Wade in infinite Eastern Conference Finals, ne sarebbe diventato il compagno sul parquet, condividendone le sorti nella postseason. Le critiche più feroci si concentrarono sulla personalità e voglia di primeggiare del nuovo numero 6. Jordan, si disse, mai avrebbe accettato di diventare compagno di squadra di un Barkley, ma anzi avrebbe spinto per umiliarlo in appassionanti duelli tra le proprie squadre. Con una spada di Damocle sulla testa, e la promessa di titoli a ripetizione, iniziò così l’era James in maglia Miami Heat.

Ogni dubbio sulle capacità e sulle possibilità di LBJ di vincere venne spazzato via…con 12 mesi di ritardo, il tempo di subire una batosta dai Dallas Mavericks nelle NBA Finals 2011 e mandare ulteriormente in crisi il sistema solare di James. 2 anelli dopo, con altrettanti titoli di MVP delle Finals ed MVP della stagione, avevano fatto capire al mondo intero che LeBron era in grado di vincere un titolo NBA e da protagonista assoluto della propria formazione, relegando Bosh e Wade al ruolo di comprimari, seppur in versione 5 stelle extralusso. Leadership, maturità caratteriale, tecnica e tattica, volontà di imprimere un marchio indelebile nei confronti del resto della Lega e presenza fissa ed indiscussa nei momenti cruciali di serie e partite. Chiedere a Celtics, Thunder, Pacers e Spurs, tra le vittime eccellenti del nuovo padrone del giochino.

I Cavaliers, nel frattempo, sprofondavano sempre di più. Cambio di loghi, allenatori e giocatori non riuscirono ad invertire la rotta. Solo dal Draft sono arrivate le consolazioni migliori: 3 prime scelte assolute nel giro di 4 anni, spese per Kyrie Irving, Anthony Bennett e, per ultimo, Andrew Wiggins, più altre chiamate alte, come quelle che hanno consentito l’arrivo di Tristan Thompson e Dion Waiters. Con così tanti giovani però, unito al clima da post-bomba atomica nella stagione 2010-11, era chiaro che Cleveland fosse destinata ad anni di ricostruzione, sconfitte e speranze per un futuro che, forse, sarebbe arrivato solo tra un altro po’ di anni. Poi qualcosa è cambiato.

Nell’ultima annata qualcosa si è smosso. Le visite di LBJ a Cleveland avevano sì un sapore amaro, ma il vento si stava muovendo verso un’altra direzione. Addirittura in uno degli ultimi incontri alla Q, uno spettatore aveva invaso il campo con una maglietta riempita da una scritta pro-James, auspicandosi un suo ritorno all’ovile. All’All Star Game 2014, intanto, LeBron ed Irving manifestavano una grande intesa sul parquet, con quest’ultimo vincitore del trofeo di MVP e la stampa scatenata su possibili congiunzioni astrali future, con i due giocatori presto con la stessa maglia. C’era un ostacolo abbastanza grande, tuttavia: James infatti, esercitando la Player Option, sarebbe rimasto un altro anno in maglia Heat, leader di una squadra ancora numero 1, quantomeno ad Est, favorita dai bookmakers per lo storico Three-Peat.

Dopo aver avuto ragione delle sfidanti nella Eastern Conference, Miami si è ripresentata per la quarta volta consecutiva all’appuntamento con l’ultimo atto della stagione. Avversari i San Antonio Spurs, motivati sin dalla prima palla a due stagionale dalla rivincita dopo la beffa dell’anno precedente. Dopo l’1-1 delle prime due gare, i nero-argento hanno condotto una vera e propria sinfonia, dominando in lungo ed in largo e vincendo 3 partite in fila, conquistando così il quinto titolo nella storia della franchigia. James, a dispetto di quanto avvenuto nel 2007 e nel 2011, è stato davvero l’unico a combattere, trovandosi però inaspettatamente ed inopinatamente troppo solo, tradito da compagni col serbatoio di energie e motivazioni ormai in riserva. Andando ad infrangersi sugli scogli contro una Squadra con la s maiuscola, a LeBron era chiaro che servisse un restyling profondo in seno agli Heat, sperando bastasse per attirare qualche pesce grosso sul mercato.

Uscendo dal contratto come da copione, per rifirmare con altre cifre e garantendo così spazio di manovra a Miami, era opinione comune che LBJ fosse comunque destinato a restare a South Beach. Eppure, col passare dei giorni, era palese che qualcosa non stesse andando secondo i piani di Riley ed Arison.

I’m Coming Home. Questo il laconico messaggio, paragonabile all’I’m Back di Jordaniana memoria, con cui James ha annunciato il suo ritorno ai Cleveland Cavaliers. Inaspettato, inatteso, incredibile da pensarsi anche solo poche settimane fa. Eppure il figliol prodigo è tornato alla base, e l’atmosfera sul lago si è fatta elettrizzante. Proprio come non accadeva da quattro anni a questa parte.

La nuova esperienza in maglia Cavs ha molteplici valenze per Lebron. In primis, da un punto di vista economico, gli consentirà di prendere il massimo salariale, così come la durata biennale del contratto farà sì che nell’estate del 2016 si potranno ridiscutere i termini in base al nuovo salary cap e, magari, anche alle prospettive della squadra. Da un punto di vista tecnico, LBJ lascia una formazione logora e che aveva perso gli obbiettivi primari per rinforzarsi, segnatamente Lowry e Gortat, con Deng arrivato a Miami proprio in virtù della partenza del numero 6. A Cleveland James troverà una formazione giovane e atletica, sicuramente inesperta ma con tanti asset che potrebbero essere usati per arrivare ad un grande nome, primo tra tutti Kevin Love, pezzo pregiato del mercato. Infine, c’è anche, e non “solo”, una motivazione affettiva, derivante dal profondo legame col territorio e dalla volontà di rifarsi dopo il pasticcio della Decision all’epoca.

Le prospettive future sui Cavs e su LeBron sono molto incerte. C’è bisogno di migliorare il roster con un giocatore di spessore, puntellando poi qua e là con veterani/usato garantito. Come riconosciuto dallo stesso James, è impensabile pensare ad una vittoria assoluta nell’immediato. Sarebbe già un successo puntare alle prossime Finali di Conference, per poi sperare in una graduale evoluzione del roster e nella maturazione dei vari giovani in rosa.

I tifosi, perlomeno una larga fetta, non hanno perdonato ancora al Prescelto l’abbandono di 4 anni fa. Troppo dolorosa quella fuga, dopo tanti anni di emozioni, trionfi e gioie, che mai i Cavaliers avevano sperimentato nei decenni precedenti. Eppure, c’è da scommetterci, i sentimenti contrastanti di chi ancora storce il naso presto verranno abbandonati, in luogo di vecchi sapori e sensazioni. Perché quando lo vedranno uscire dal tunnel, sentire dallo speaker quel “From St. Vincent-St. Mary High School, from Akron, Ohio”, a tutti, nessuno escluso, correrà un brivido lungo la schiena e verrà la pelle d’oca. Il Re è tornato in città, sperando questa volta di riuscire nel Grande Obbiettivo in riva al lago. Inizia a Cleveland l’era di James II.

Alessandro Scuto

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