Stati Uniti d’America, inizio anni Ottanta. Dopo un lungo decennio di generale appiattimento e perdita di interesse da parte del pubblico, la NBA ha trovato nuova linfa. Merito di due grandi protagonisti e antagonisti, Magic e Larry, capaci di ridare slancio ad una Lega sull’orlo del baratro, portandola di peso verso un’epoca d’oro con le proprie giocate mirabolanti sul parquet. A raccogliere il testimone, sempre in quel magico periodo, ecco un giovanotto col numero 23 in quel di Chicago, che avrebbe proiettato l’NBA verso quel fenomeno globale che è ancora oggi. Eppure, a ben vedere, uno spettro, sinistro e poco raccomandabile, aleggiava ed imperversava nello stesso lasso di tempo.
Un gruppo, nel vero senso del termine, coeso, compatto, ruvido, talentuoso e spigoloso, ad immagine e somiglianza di una delle città più dure d’America, Detroit. Sì, perché gli Eighties non furono solo Showtime, Celtics Pride o MJ Mania. Nel Michigan infatti, vestendo la casacca dei Pistons, era nata la leggenda dei Bad Boys, una delle squadre più indimenticabili nella storia della Lega.
Le origini del mito, come quasi sempre accade in certe storie, hanno un che di umile e, nel nostro caso specifico, perdente. Dall’anno di grazia 1963, quando la star era Bailey Howell, sino al 1983, i tifosi della città dei motori non ebbe di che gioire degli spettacoli loro propinati sul parquet. In 20 anni, infatti, i Pistons si qualificarono alla postseason solamente 5 volte, collezionando tante magre figure, tra cui una stagione da 16 misere vittorie nel 1980. Poi, con pazienza, bravura ed un pizzico di buona sorte, tutte le tessere del mosaico iniziarono ad andare al proprio posto.
I protagonisti dell’epopea dei Bad Boys avevano dei tratti comuni che li avrebbero accompagnati nel corso di quella memorabile cavalcata. Determinazione, durezza, voglia di vincere e di sovvertire i valori in campo, mostrando a tutti il proprio valore.
L’anima nera e leader spirituale del gruppo fu, indiscutibilmente, un centrone bianco del Massachusetts, che iniziò la propria carriera addirittura in Italia, a Brescia. Nessuno aveva creduto in lui, come dimostrava la scelta al Draft spesa dai Cavaliers per assicurarsene i servigi, la numero 65. La trade che lo portò ai Pistons nel Febbraio 1982, tuttavia, avrebbe cambiato per sempre i destini del giocatore e della franchigia. Questo perché Bill Laimbeer aveva tante doti da portare alla causa di Detroit: rimbalzi come se piovessero, leadership, tiro frontale da fuori e difesa dura, a dispetto di mezzi atletici trascurabili. Il record forse più duraturo detenuto dall’ex Notre Dame, destinato probabilmente a perdurare secula seculorum, fu quello delle risse scatenate. Con Laimbeer di mezzo non poteva non esserci almeno una scaramuccia. Colpa delle costanti proteste verso i fischietti, dei continui flop di cui divenne il maestro, delle provocazioni ripetute e dei tanti, tantissimi, colpi sporchi di cui si rese partecipe, facendo roteare due tra i gomiti più appuntiti mai visti sui parquet a stelle e strisce. Bird, Barkley, Parish, Lanier furono tra i (molti) nomi noti che non resistettero all’invitante tentazione di colpire Bill con pugni derivanti dalla pura frustrazione. Il nemico pubblico numero 1 non poteva che essere lui.
The Baddest Bad Boy of them all, un biglietto da visita abbastanza eloquente per la power forward di quei Pistons. Acquistato dai Bullets nel 1985, Rick Mahorn portò nel Michigan un devastante concentrato di forza bruta, fisicità e cattiveria. Era l’ideale spalla di Laimbeer, andando gomito a gomito in vere e proprie battaglie sul parquet contro i rivali dell’epoca. Principe del flagrant foul, Mahorn era sempre in prima linea quando si trattava di scaraventare a terra un malcapitato avversario senza tanti complimenti, impedendo l’accesso al cuore della difesa di Detroit.
La terza punta di diamante del pacchetto lunghi dei Bad Boys fu colui che avrebbe rivoluzionato per sempre il concetto di difesa e quello di stravaganza. Marcatore asfissiante, lingua e gomiti sempre in movimento, uomo squadra per antonomasia, sempre dedito al sacrificio. Molto prima di diventare il go-to guy dei rotocalchi e degli articoli di cronaca, Dennis Rodman era lo specialista difensivo dei Pistons, l’uomo dalle missioni impossibili, con l’obbiettivo sempre fisso in mente di entrare nelle teste altrui. Il Verme, scelto nel Draft 1986, incarnava al meglio lo spirito della città e, nello specifico, di quel gruppo. Per cancellare fisicamente l’avversario dal campo, Rodman affinò vere e proprie tecniche di guerriglia applicate al basket, ingaggiando appassionati duelli da cavalleria rusticana contro le stelle delle altre squadre. Sfide che poi continuavano dietro ad un microfono, con dichiarazioni non sempre diplomatiche che sfociavano in vere e proprie crisi nucleari. Citofonare Larry Bird per credere.
La mosca bianca del gruppo, presenza carismatica, silenziosa ma raramente sopra le righe, arrivò nel Draft del 1985 da uno sperduto college della Louisiana. Grandissimo difensore, uno dei migliori sul perimetro nella storia della NBA, Joe Dumars fu uno dei più fieri eversori di MJ. Mai comportamenti provocatori, uomo di poche parole, pericoloso nella metà campo offensiva, Joe D differiva da molti suoi compagni di squadra in materia di atteggiamenti, ma condivideva con essi la voglia di primeggiare e di far ricredere gli scettici sulle proprie qualità. Ideale guardia dello starting five dei Pistons, l’angelo dei Bad Boys è stata una delle più grandi bandiere della franchigia.
Dalla panchina, ecco il classico supporting cast d’eccezione. A menare le danze The Microwave, Vinnie Johnson, uno dei più forti sostituti mai visti su di un campo da basket, in grado di “accendersi” in un amen una volta entrato sul parquet. Altro corpaccione che non disdegnava le battaglie sotto canestro, John Salley arrivò anch’egli nel Draft 1986, pronto a rilevare i big men titolari e garantire tante stoppate e gioco fisico. Presenza ieratica, anche per via dei curiosi baffi, James Buddha Edwards non era certo dotato della stessa ruvidezza dei suoi partner, ma col jumper e la stazza diede un valido contributo, così come diversi altri giocatori chiamati a fare da sparring partner al nucleo centrale dei Bad Boys.
Con tale concentrato di intimidazione e botte, era necessario un catalizzatore dei palloni in attacco, in grado di fare la differenza nei momenti decisivi e di porre l’accento sull’estro e sulla fantasia, magari coinvolgendo al tempo stesso i compagni. A proporre con forza la propria candidatura, un piccolo folletto che aveva giocato per Bobby Knight ad Indiana. Era imprendibile con la sfera tra le mani, facendola scomparire con palleggi ubriacanti in faccia ai propri marcatori e facendola riapparire dentro il canestro. Il tutto, sempre, con quel sorriso assassino a 32 denti. Scelto nel Draft 1981 con la seconda chiamata assoluta, Isiah Thomas divenne in breve il punto di riferimento dei Bad Boys. La lingua lunga gli procurò spesso qualche problema, come quella volta in cui Karl Malone gli aprì in due la faccia con una tremenda gomitata, i cui effetti sono visibili tutt’oggi. Trash talking a parte, di cui si dimostrò un conoscitore esperto in materia, Thomas era la stella riconosciuta della squadra, designata a portare i propri compagni verso quella Terra Promessa che il proprio nome sembrava profetizzare.
Ad amalgamare il tutto dalla panca era necessario, come logico, un coach di un certo peso e carisma, in grado di imporsi su di un tale gruppo di uomini. Nel 1983, a cercare di dare una svolta alle sorti della franchigia, Chuck Daly venne scelto come nuovo Head Coach della formazione. Non aveva grande esperienza, anzi era quasi alla stregua di un esordiente. Dieci anni esatti dopo ne sarebbe uscito come il miglior allenatore nella storia di Detroit.
Una volta fatti i Pistons bisognava fare la Eastern Conference innanzitutto. Nella stagione ’83-84, la prima di Daly, la squadra raggiunse i Playoffs dopo ben 7 anni di astinenza. Nonostante una prematura uscita contro i New York Knicks, guidati dal miglior Bernard King mai visto, erano state gettate le premesse per la crescita del collettivo, graduale ma costante. Nell’annata seguente vennero incrociate per la prima volta le lame contro una delle future grandi rivali, i Boston Celtics dei Big Three. I bianco-verdi, campioni in carica, solo dopo molte fatiche riuscirono ad avere la meglio nelle Eastern Conference Semifinals, prevalendo per 4-2 e solo grazie alle prodezze di Bird nella pivotal gara-5. Non sarebbe stata l’ultima volta che queste due compagini si sarebbero affrontate.
Alessandro Scuto