Categorie: Editoriali NBA

La più grossa poltrona dei Chicago Bulls

 “Hear all, see all, say nothing”. E’ la citazione riportata sulla parete di un ufficio NBA.  Parole che formarono lo slogan dell’ammiraglio Wilheilm Canaris, capo della Abwehr, l’intelligence tedesca durante la seconda guerra mondiale . Ironicamente, chi ha fatto stampare quella scritta, non ha la benché minima idea di quale fosse l’origine di questo motto.

Basta uno sguardo per capire che Jerry Krause non è per niente un uomo carismatico, capace di inondare di entusiasmo chi lo circonda. Anzi, a dirla tutta detesta socializzare, un po’ per timore che qualcuno arrivi prima di lui su un grande prospetto, un po’ perchè è un pessimo comunicatore. (Da qui l’idea di stampare sul muro l’unica regola del suo modus operandi).

Eppure, da GM, ha saputo costruire una dinastia entrando nella storia, riuscendo nell’impresa di vincere per due volte, tre titoli NBA consecutivi. Perché Jerry Krause è stato il maggiore artefice dei Bulls di Michael Jordan?

 

FIUTO
Nella NBA viene accolto come un outsider. Perché non  ha mai giocato da nessuna parte, nemmeno al college, perché non sfiora il metro e ottanta ed è sempre stato notevolmente sovrappeso.  E perché ha difficoltà nel fare gruppo. Bob Ferry( ex Pistons e Bullets) ha spesso avuto scontri con Krause quando entrambi lavoravano per i Baltimore Bullets, amava punzecchiarlo alle partite, prendendo in giro il suo aspetto fisico. E per il fatto che la sua auto fosse, come una discarica, sempre piena di contenitori di cibo da poco consumati al fast food.  Krause risponde alle provocazioni lavorando ancora più duramente in ciò che gli riesce meglio: scoprire nuovi talenti. Negli anni, ha saputo trasformare l’avversione degli altri in forza, creando la sua privata rete di contatti. E’ un tipo meticoloso, passa al setaccio i più piccoli college del sud,  ottiene molto credito quando,come scout NBA per i Baltimore, scopre il futuro Hall of Famer Earl Monroe. E’ anche il primo scout che arriva a toccare il territorio europeo. ( Lui diffuse i rumors sul potenziale NBA di Sabonis e Petrovic). Quando punta ad ottenere un giocatore non chiama il suo agente per i convenevoli, ma rimane al telefono torchiandolo e segnando accuratamente ogni informazione. Nel 1967 consiglia alla franchigia del Maryland di prendere al draft un’ala di 2.08 m, rapida negli spazi brevi, con un tiro affidabile, un alto QI cestistico e proveniente dall’università del  North Dakota: Phil Jackson. I Bullets non lo scelgono, ma  le strade di Krause e Jackson si incroceranno di nuovo, vent’ anni dopo.

 

PHIL JACKSON
Chi ha portato Coach Zen (prima ancora di ottenere questo soprannome)  a Chicago? Jerry Krause. E chi è stato l’unico nella NBA a non voltargli le spalle quando cominciò l’avventura nella CBA? Sempre lui. Krause era scorbutico e iconoclasta, ma aveva un rispetto totale per Phil Jackson, con cui si era tenuto in contatto finita la sua carriera da giocatore e iniziata quella da allenatore tra CBA e campionato portoricano. Difficilmente lasciava andare qualcuno su cui aveva investito. Diede a Jackson la possibilità di mostrare la sua intelligenza stilando un report dettagliato sui giocatori più rilevanti della CBA.  Prova che supera agevolmente, Krause rimane impressionato. Phil è davvero in gamba, la sua conoscenza del gioco, l’accuratezza con cui spiega i vari modi per motivare i giocatori, troppo brillante per ricoprire il ruolo di assistant coach. Nonostante sia l’unico impiego che inizialmente può offrirgli. Richiamato da Porto Rico per un colloquio con i Bulls, Jackson si presenta con barba incolta e cappello di panama, rimandato.
La seconda occasione arriva nella stagione 87/88, Doug Collins è il capo allenatore e Jackson si contende il posto di assistant coach con Butch Beard( un altro ex Knicks).” Stavolta tagliati barba, capelli e vieni in completo ”: suggerimento che Phil coglie al volo. Non avendo preferenze né per Jackson, né per Beard, Collins autorizza Krause ad assumere Jackson come assistente allenatore dei Bulls.

IL SUPPORTING CAST
Dall’omonimo proprietario Jerry Reinsdorf, Krause assume l’incarico di creare attorno a Michael Jordan una nucleo vincente. Costruire una squadra  attorno ad una guardia tiratrice era  una compito difficile. Primo, perché era un altro basket e in genere le squadre venivano modellate attorno ad un centro. Secondo, Jordan non era ancora un giocatore completo, tendeva a fidarsi più dei propri mezzi che dei compagni, per questo non riusciva a migliorare il loro gioco e per valore assoluto veniva considerato un gradino sotto Bird e Magic. Ma nel draft del 1987, Krause sceglie bene, prendendo due importanti pedine di rinforzo: Scottie Pippen e Horace Grant.  L’ impalcatura del roster per il primo three peat  viene  formata.  Pippen è  la point  forward che fa al caso di coach Zen. Il secondo violino di Michael, ma prima di tutto un facilitatore che apre il campo e gestisce i contropiedi dei Bulls. Grant,  un’ ala grande di 2.08 m, con limiti offensivi, ma rocciosa nel portare i blocchi e in tutte le piccole cose che un gregario deve saper fare (andare a rimbalzo, lottare su ogni palla vagante). Trovare i giusti elementi che calzassero a Jordan e all’attacco triangolo di Jackson, è stata una ricerca lunga 5 anni, ma Krause ha portato a termine una missione quasi impossibile. Nel draft del 1990, convince Reindorfs a puntare una delle due fiches su Toni Kukoc, che viene selezionato al secondo giro come ventinovesima scelta assoluta (e di cui si vanterà come se avesse scoperto un giacimento petrolifero). L’ala serba, un all round di 2.11 m soprannominato the waiter per i passaggi “al bacio” che serve meglio di un cameriere,  arriva ai Bulls  l’anno del ritiro di Jordan, mostrando fin da subito una straordinaria visione di gioco per un’ala di quasi sette piedi e nonostante qualche attrito con coach Jackson, dal ritorno di Michael, diventa il caposaldo della panchina tanto da vincere nel 1996 il premio di sesto uomo dell’anno.

E’ stato all’altezza di costruire una squadra da antologia, facendo ruotare attorno a Michael Jordan il miglior supporting cast che si potesse desiderare. Ma è altrettanto vero, che i Bulls di Jordan sono durati meno di un decennio ed escluse le volte in cui hanno vinto il titolo, non sono mai più approdati alle Finals. Un declino nettamente più rapido rispetto all’ ascesa. E  in questo processo di disfacimento c’è sempre lo zampino di Krause. Ribaltando la domanda( e di conseguenza la prospettiva): perché Krause è stato la principale causa della fine dei Bulls di Jordan?

DICHIARAZIONI SCOMODE
Pensate un attimo alla bufera sollevata dal caso Sterling, diminuite la potenza del vento di qualche nodo e otterrete l’impatto mediatico di un’uscita fuori luogo di Krause. Una tra tutte: “Organisations wins championships”  A vincere i titoli è la dirigenza(e non la squadra e gli allenatori, il messaggio sottinteso). L’origine di questa dichiarazione risale a quando Jordan organizzò un party a Springfield, Massachusetts e Krause declinò l’invito di His Airness. Disse che rifiutò per una forma di protesta nei confronti di Tex Winter( l’artefice del triangolo) che gli aveva mancato di rispetto e che Jordan aveva accolto sotto la sua ala protettrice nel corso degli anni.  Molti giornalisti non la bevvero, credendo che fosse il modo di Krause per rifarsi delle incessanti umiliazioni verbali di Jordan, che non era l’unico giocatore a detestare il GM dei Bulls.  Pippen aderiva alla campagna denigratoria nei confronti di Krause, il rapporto tra i due è sempre stato burrascoso. Da parte di Scottie, perché non si sentiva un ingranaggio fondamentale della macchina Bulls( vedi questioni contrattuali, al termine della stagione 97/98 aveva soltanto il quinto stipendio più alto tra i giocatori a roster) Secondo Krause, invece,  Pippen non tutelava abbastanza la sua carriera di giocatore NBA (disputando da infortunato partite di beneficenza), comportamento che da un professionista non era tollerabile. Più avanti, Krause abbassò il tiro, dicendo che in realtà con quella frase voleva dire:  “ i giocatori e gli allenatori da soli non vincono i titoli”, ma ormai il danno era fatto. Michael lo aveva soprannominato Crumbs(briciola NDR) per le maniere da zotico che aveva a tavola e quando lo vedeva salire sul pullman della squadra non perdeva mai l’occasione di prenderlo in giro per il peso o per altre stranezze.

 

COMPLESSO DI INFERIORITA’
C’è anche una componente psicologia nella responsabilità di Krause di smantellare la squadra concluso il secondo three peat.  Fintanto che Phil Jackson sedeva sulla panchina dei Bulls, le operazioni di mercato di Krause sarebbero rimaste in parte oscurate dal genio tattico e spirituale di coach Zen. Krause era profondamente geloso del successo di Phil, era un mix di invidia e venerazione per l’ex Knicks, che a differenza sua, era alto, snello e stimato nell’ambiente NBA. La prima crepa nel rapporto con Krause si forma quando il GM dei Bulls accusa Jhonny Bach, assistente di Jackson, di essere una delle principali fonti  della realizzazione del best-seller di Sam Smith: The Jordan Rules. Un racconto del titolo 1990-91 che cercava di sfatare il mito di Michael e di fornire uno sguardo dietro le quinte del mondo segreto e meno luminoso dei Chicago Bulls. Sospetto così fondato, dal punto di vista di Krause, che anni dopo si concretizzerà nel licenziamento di Bach. Gli eccessi di questa reazione erano dovuti al fatto che non vedeva riconosciuti abbastanza i suoi meriti. Voleva dimostrare al mondo di saper costruire una squadra da titolo senza dipendere da Michael Jordan e dall’attacco triangolo di Tex Winter. In fondo una cosa che accomunava tutti e due c’era: la competività.

MICHAEL JORDAN
Qualcuno si ricorda  Mr. Swackhammer, il cattivo di Space Jam proprietario del parco divertimenti Moron Mountain?  Ecco, di recente ho letto alcuni rumors su internet che ritengono che il personaggio tratteggiasse il profilo di Donald Sterling. Ovviamente le notizie al riguardo erano post dichiarazioni razziste, quindi di vivissima attualità. Personalmente, vedo più analogie con la figura di Jerry Krause. In primis, per la silhoutte e le smorfie identiche,in secondo luogo, per la scena in cui il boss dei Monstars esibisce il suo lato più malvagio. Quando stringe l’accordo con Michael, secondo cui se Jordan avesse perso la partita, sarebbe diventato di  sua proprietà e avrebbe intrattenuto i clienti di Moron Mountain per sempre. Funesto scenario che si risolve con l’ happy ending della schiacciata allo scadere di MJ che usa i “poteri”di cartone animato per estendere il braccio e poter insaccare la palla da distanza proibitiva nel mondo reale( anche per un superatleta del suo calibro).
Una cosa non molto diversa fu detta da Krause, al secondo anno nei Bulls, quando intimò Jordan di stare a riposo dopo una frattura al piede sinistro che l’aveva tenuto fuori per gran parte della stagione. Michael sosteneva di sentirsi completamente guarito, ma Krause si rifiutò di lasciarlo giocare finchè i medici non avessero dato l’okay. Quando Michael chiese spiegazioni, Krause rispose che i dirigenti avevano preso quella decisione perché Jordan era una loro proprietà. I conflitti tra i due aumentano, sono le due persone con maggiore potere all’interno dei Bulls ed è lo stesso Jordan a rimarcare il ruolo di capobranco:  “Lui è una persona molto competitiva, io ero un giocatore molto competitivo. Ma non ho ancora visto la dirigenza di una squadra vincere titoli con la febbre e  non l’ho vista giocare con le ginocchia usurate”  Jordan cercava in ogni modo di mettere il bastone tra le ruote di Krause. Lo demonizzava, cercava lo scontro diretto, in parte perché era l’unico che non assecondava ogni suo desiderio.  In parte perché Krause voleva farsi vedere con i giocatori, far credere che fosse uno del gruppo.

E’ vero, i fallimenti di Krause non sono stati pochi. Anche nei tentativi iniziali di costruire attorno a Jordan una squadra competitiva. Ma dal draft del 1987 di Pippen e Grant è iniziato il processo di svolta da “un uomo al comando” a “corazzata inarrestabile”.

E quando Jordan è tornato dalla sua parentesi con il baseball, Krause ha rimesso in scena lo spettacolo. Rimasto Pippen da sparring partner, con gli innesti Kukoc, Rodman, Harper, Longley, Kerr, Wennington e pochi altri, Jordan  è riuscito a chiudere il secondo ciclo di successi, il secondo three peat.

Sì, forse senza Michael non sarebbero arrivati gli anelli. Ma anche senza Pippen, Rodman, Harper, Kerr e Phil Jackson. “Players and coaches alone don’t win championships, organizations do.”

Forse Krause non aveva tutti i torti.

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Pubblicato da
Pietro Caddeo

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