“With the 20th pick in the 2014 NBA Draft, the Toronto Raptors select… Bruno Cabolo, from San… San Paolo, Brazil”
Anche i giornali locali esaltano con entusiasmo la scelta dei Raptors.
Si può sorvolare sulla reazione unanime, abbastanza scontata. Silver ne ha persino storpiato il nome, figuriamoci.
Masai Ujiri sarà pure un genio clamoroso e alla fine imbroccherà anche la chiamata più sorprendente forse dell’intera storia del Draft. Ma è anche un po’ egoista, non pensando a tutti quei poveri disgraziati (e siamo sull’ordine dei milioni di addicted, cioè tutti al di fuori del Brazil) che questo Cabolo, o per correggere il commissioner, Caboclo, non l’hanno mai sentito nominare. Tra essi c’è pure chi quell’evento dovrebbe anche commentarlo, e il primo commento degli opinionisti statunitensi è un professionalissimo quanto eloquente “WHAT JUST HAPPENED???”. Poi Fran Fraschilla arriva a schiarire un po’ le idee, e si riesce persino a mostrare un paio di video che sembrano filmati nei ’70 (o nella Rai oggi). Comunque pochino per dare un’idea della tipologia di giocatore, e così si esemplifica con paragoni un po’ avventati, come un modestissimo “brazilian Durant”; e a questo punto ci vuole poco perché, viste le caratteristiche fisiche e tecniche e soprattutto la nazionalità, spunti a mezza voce il nome di Oscar.
“Ah va be, Robertson. Allora Masai è veramente un genio e gli altri tutti idioti a perdere il nuovo Triple-Double Machine!”. Non proprio: perché se nel Nord del continente americano il nome del più prestigioso premio cinematografico, se applicato in ambito cestistico, fa subito saltare alla mente l’Hall of Famer campione NBA coi Bucks nel ’71, nel resto del mondo l’associazione non è così scontata. E stride pure con la provenienza di cui si accennava.
In Brasile Oscar non è solo un giovane calciatore, deludente agli ultimi mondiali a domicilio come lo è stata l’intera Selecao. E’ soprattutto uno sportivo che quella maglia verdeoro l’ha sempre onorata, e che mai avrebbe permesso un’umiliazione comparabile al già celeberrimo Mineirazo. Che a difendere quei colori ci teneva sul serio, non esitando a rimetterci personalmente per non perderli; e questo nonostante un’origine non propriamente carioca.
La tanto agognata indipendenza dalla madrepatria, il Brasile, la ottenne in maniera straordinariamente incruenta. Colonia portoghese, al contrario dei possedimenti spagnoli divenne Stato a sé grazie al cosiddetto “sdoppiamento” della corona, con il re Enrico VII che, tornato a Lisbona una volta esiliato a Sant’Elena Napoleone, il cui assedio l’aveva costretto a riparare a Rio, lascia il figliolo Pedro a governare la colonia ormai autonoma. Niente guerre, juntas, Simon Bolivar e smembramenti del territorio: quasi da un anno all’altro, nel 1822 il Brasile è nazione.
Tutti in Brasile!
Ma come nel Belpaese, anche qui una volta fatto lo Stato bisogna fare i brasiliani, in senso ancor più letterale. In molte zone meno popolose urge infatti una classe dirigente, rigorosamente bianca, ed ecco allora che gli immigrati europei non solo vengono accolti a braccia aperte, ma addirittura agevolati a entrare nel Paese con sovvenzioni e assegnazioni di terre, almeno fino all’inizio del Novecento. Sono principalmente italiani del Nord-Est (i famosi taliani veneti, ancor oggi numerosi in Rio Grande do Sul), portoghesi (ovviamente) e tedeschi, mandati a colonizzare soprattutto le vaste aree inabitate del sud del Paese; ed è proprio in uno degli ultimi flussi prima della restrizione delle frontiere che sbarca, in rappresentanza dei sudditi del kaiser Guglielmo II, anche la famiglia Schmidt, il cui rampollo sceglierà la carriera militare e si stabilirà quasi agli antipodi rispetto alla maggioranza della comunità germanica, nella stupenda Natal, capitale del Rio Grande do Norte. L’esercito, nel Brasile di Getulio Vargas e dei populismi in genere, gode di discreto prestigio e il nostro discendente tedesco prolifica con pargoli ormai pienamente brasileiri, fino al 1958, quando chiude bottega con l’ultimo erede, cui dà il nome (o meglio i nomi, visto che ormai ci si è adattati agli usi locali) di Oscar Daniel Bezerra Schmidt.
Disciplina über alles in casa Schmidt, e ci mancherebbe considerata la professione paterna, e così anche il piccolo Oscar è un ragazzino serio che non vede una palla a spicchi fino ai 14 anni: anche perché da queste parti il pallone si prende solo ed esclusivamente a calci, specie negli anni ruggenti di Pelé e Garrincha. Occorrono i geni nordeuropei e la crescita fisica che portano in dote per suggerire quello sport semisconosciuto coi canestri, per il quale dimostra peraltro una certa sensibilità. Parte ovviamente centro nei locali Vizinhança Unidade, ma non è che quando si allontana dal ferro faccia così schifo, anzi: se ne accorge anche il coach, Laurindo Miura, che essendo un giapponese emigrato in Brasile per insegnare pallacanestro la mente deve averla aperta per forza. Inizia contro ogni logica cestistica a far tirare da lontano il proprio giocatore più alto, in un’epoca in cui il tiro da 3 non esiste nemmeno: sembra non aver alcun senso, ma ovviamente avrà ragione il nipponico.
Il primo ad assecondarlo sarà un altro coach di larghe vedute come Ary Ventura Vidal, giovane allenatore appena sbarcato alla guida della Selecao cestistica, che non esita a portare ai Mondiali nelle Filippine quel prospetto nel frattempo passato al Palmeiras di San Paolo. E’ il 1978, i verdeoro si prendono un buon bronzo, ma Oscar non ha ancora trovato la sua collocazione in campo, stretto nel contrasto tra qualità fisiche (flirta ormai con i 2.05) e attitudine perimetrale. Ci pensa Vidal a sbrogliare la matassa, inventandosi di schierarlo ala tiratrice in un periodo in cui il contadinotto da French Lick che consacrerà il ruolo è ancora un ragazzino a Indiana State. Non male la lungimiranza, visto che da lì a un anno la NBA, attingendo dalla vecchia Lega rivale, avrebbe introdotto il tiro da 3 punti e sarebbe stata solo questione di tempo perché il resto del mondo ne seguisse l’esempio. Nel giro di 5 anni non esiste più partita senza quella linea, e il carioca completa ciò che il giapponese aveva iniziato, con un risultato oltre ogni aspettativa: hanno creato la più grande macchina da punti mai vista su un parquet.
Pare forse esagerato, in uno sport che ha visto giganti farne 100 in una partita o inventarsi un gancio non arginabile, atleti staccare dalla linea del tiro libero e improvvisarsi Dio travestito da essere umano, a detta dello stesso contadinotto di cui sopra. Eppure in Brasile, tra Palmeiras, Sirio e America Rio de Janeiro, nonostante la giovane età diventa presto un’autentica iradiddio, affinando la tecnica di tiro fino a farla diventare automatica e guadagnandosi il soprannome di Mão Santa nonché un certo interesse anche fuori dai confini dell’ex colonia di Enrico VII: la più lesta è una squadra italiana di A2 con grandi ambizioni per il futuro, la Juvecaserta, dove sbarca nel 1982. Con Bogdan Tanjevic in panchina e un giovanissimo Nando Gentile a roster si va in A1 con la siga per poi salire rapidamente nell’elites del basket italiano e internazionale; Oscar passa qui gli anni migliori della sua carriera, che lo rendono tuttora un idolo assoluto in Campania. Sarà per la sua affabilità con i tifosi, sarà per gli anni d’oro vissuti dalla squadra, sarà soprattutto perché in 8 stagioni con la maglia bianconera mette a segno 9143 punti per una media di oltre 32 a gara.
Neanche la Mano de Dios sarà benedetta come la destra di Oscar quando si alza al tiro, con tanto di miracoli annessi. In quel periodo la NBA comincia ad accogliere tra le proprie fila sempre più stranieri, ma la maggior parte di essi è comunque di formazione americana, come Dominique Wilkins, Rolando Blackman o Kiki Vandeweghe, ad esempio; molto più raro, per non dire impossibile, che un professionista in Europa, per quanto fenomenale, riesca a sbarcare nella Lega più importante del mondo. Ma ormai siamo nel 1984, e a dispetto della distopia orwelliana venti caldi di Disgelo cominciano a soffiare sul mondo, e lo sport non ne è immune: e così anche al Draft NBA un fenomenale nigeriano da Houston University viene chiamato prima di tutti (compreso il Dio travestito da umano precedentemente citato), e 130 chiamate dopo (vi era qualche giro in più del vostro tipico Draft) i New Jersey Nets fanno il nome di Oscar Schmidt, from Juvecaserta, Italy. Forse riuscendo persino a non storpiarlo.
A qualcuno sembra una chiamata un po’ campata in aria, come se ne sentivano tante man mano che i giri passavano e non si sapeva più bene dove sbattere la testa (nello stesso 1984 venne chiamato anche il velocista Carl Lewis che a basket aveva giocato forse al campetto, con un’improbabile chiamata numero 208). Ma i Nets fanno sul serio, e già si sfregano le mani quando Mão Santa chiude a 24.5 di media le 7 gare disputate nell’Olimpiade statunitense di quella stessa estate.
L’offerta di provare a giocarsi le proprie carte negli States è ovviamente allettante, ma Oscar, pur lusingato, rifiuta e se ne torna a Caserta. Le motivazioni di una scelta tanto controversa (a chi non piacerebbe perlomeno provare a misurarsi con i migliori del mondo?) non sono da ricercare né a ragioni tecniche, né economiche, né tantomeno ambientali, ma semplicemente di orgoglio nazionale: i regolamenti internazionali infatti vietano ai professionisti NBA di prender parte ai tornei tra nazionali, probabilmente per evitare di avere un rullo compressore in ogni competizione in cui avrebbero preso parte gli americani. Ma considerano gli altri campionati, europei compresi, alla stregua di “dilettanti”, permettendo la presenza dei loro tesserati; insomma, se Oscar vorrà sbarcare nella Lega per eccellenza, dovrà in sostanza rinunciare alla propria Nazionale. E’ vero, ha 26 anni e già due Olimpiadi alle spalle, potrebbe tentare di dare alla propria carriera la svolta decisiva: ma quella maglia verdeoro è troppo importante, molto di più anche del più allettante dei contratti professionistici. Oscar decide di rimanere a Caserta e continuare a giocare con la sua Selecao, e a nulla serviranno gli assalti successivi dei Nets.
Non si potrà mai sapere l’impatto che avrebbe avuto la Mão Santa tra i Bird, i Magic, i Jordan, che in quel periodo stanno portando l’NBA a un livello superiore. A Caserta Oscar diventa in breve tempo O’Rey, il Pelé del campionato di basket italiano: vince una Coppa Italia nel 1988, diventa capocanniere quasi ogni stagione, e nel 1989 dà vita a una sfida rimasta negli annali in finale di Coppa delle Coppe con il mai troppo compianto Drazen Petrovic: in un duello tra top player di un intero continente, il sudamericano “si ferma” a 44, l’europeo ne scrive invece 62 vincendo pure la gara. In Italia ha anche modo di giocare contro un americano dalle caratteristiche simile alle sue, dominatore prima in A2 e poi nella massima serie: è Jelly Bean Joe Bryant, il cui unico erede maschio, imberbe ma già studioso del gioco, dirà in seguito che “il giocatore numero uno per me, il mio più grande idolo, è Oscar”, e non intendeva Robertson. Niente di strano per un ragazzino che vive nel Belpaese in quegli anni e segue il basket: tra Caserta e poi Pavia Oscar riscrive il record di punti segnati in A (poi superato da Antonello Riva, che disputa il doppio delle sue gare), con la più alta media punti (34.6), e svariati scollinamenti oltre quota 50 o addirittura 60.
Ma, come detto, sono i colori verdeoro quelli per cui il cuore di Oscar pulsa più forte, da onorare soprattutto dopo che per essi ha rinunciato a consacrare definitivamente la propria carriera personale. Ai Giochi di Los Angeles il suo Brasile ha un po’ deluso (nono posto finale) e urge riscattarsi a Seoul quattro anni dopo: detto fatto, non va mai sotto i 31 punti, ne schiaffa 55 ai malcapitati spagnoli e alla fine se ne contano 338 in 8 gare, per una media di 42.2. Tutti, ovviamente, record olimpici.
Chiuderà poi top scorer del torneo anche a Barcellona (nonostante un Dream Team in circolazione) e ad Atlanta, a 38 anni. Le Olimpiadi insomma potevano andare peggio, ma il capolavoro arriva ai Giochi Panamericani nel 1987 a Indianapolis: dopo aver trascinato i suoi in Finale, incontra i padroni di casa, guidati da futuri All Star NBA come David Robinson e Danny Manning. Gli USA, come spesso è accaduto loro, credono di aver già l’oro in tasca quando chiudono il primo tempo avanti 68-54; ma non hanno fatto i conti con Oscar, che rimonta quasi in solitaria e la va a vincere 120-115, bagnando l’oro con 46 punti, di cui 35 in una seconda metà in cui non sbaglia sostanzialmente nulla. Cartolina notevole per chi avesse dubbi sulle sue possibilità in NBA e soddisfazione doppia per Ventura Vidal, tornato sulla panchina della Selecao per prendersi l’oro grazie alla sua creatura ormai inarrestabile.
Dopo il triennio non felicissimo in Spagna al Valladolid (in cui comunque fa in tempo a vincere anche qui la classifica marcatori nel 1994), a 37 anni Oscar se ne torna nel suo amato Brasile, girandolo in lungo e in largo (Corinthias, Bandeirantes, Barueri, Flamengo) e appendendo le proverbiali scarpe solo nel 2003, alla veneranda età di 45 anni; poteva pure continuare, era stato top scorer del campionato in ogni singola stagione dal ritorno in patria, ma decide che può bastare così. E si iniziano dunque a fare i conti, non certo semplicissimi visti i numeri in ballo: tra Brasile, Italia, Spagna e Nazionale, punti a referto ne sono sempre andati tanti, un’infinità, e alla fine la somma dice 49.737. Circa 11 mila in più del miglior realizzatore della storia NBA Kareem Abdul-Jabbar. Impossibile fare paragoni, per gare giocate e livello di gioco e avversari completamente differente, ma quel ragazzino discendente di immigrati tedeschi a cui non si sapeva che ruolo dare in campo è, almeno ufficiosamente, il realizzatore più prolifico della storia della pallacanestro. La più letale macchina da punti mai vista su un parquet, appunto, e quasi certamente il migliore a non aver mai calcato un palazzetto NBA: se ne rendono conto anche gli americani, che nel 2013 lo inseriscono nella prestigiosa Hall of Fame di Springfield, onore non proprio scontatissimo per chi non ha mai giocato da loro. Basco in testa, qualche chilo in più rispetto ai bei tempi, ma è sempre il solito Oscar, allegro e affabile nonostante da qualche tempo combatta l’unico avversario veramente temibile, un cancro al cervello. E finora, quell’eterno ragazzo sta sommergendo di punti anche questo nemico.
Sono passati trent’anni da quell’incredibile Draft del 1984. Tante cose sono cambiate, a cominciare dalla condizione degli international: tanti, all’ordine del giorno in ogni Draft e in ogni partita, alcuni in grado di ritagliarsi un’eccellente carriera nei pro, e ovviamente liberissimi di giocare anche per le proprie nazionali, siano esse il Dream Team americano (più o meno Dream a seconda delle edizioni) o le meno blasonate, ma sempre più competitive, nazionali del resto del globo. Ma la storia, si sa, tende a ripetersi, e le combinazioni di eventi a ripresentarsi, in un Eterno Ritorno ipotizzato da Nietzsche e dalle filosofie orientali da cui attinse: ecco allora che a trent’anni di distanza troviamo un altro Draft potenzialmente ricchissimo e in grado di cambiare la geografia della Lega, scelte inoltrate che potrebbero diventare tranquillamente All Star, e pure un brasiliano chiamato tra lo stupore generale. Pensare che il buon Cabolo, per rimanere sulla definizione di Silver, possa agognare alla Hall of Fame, per quanto Masai possa essere bravo, sarebbe un po’ troppo anche per lo stesso Zarathustra. Ma se oggi è qui, se si rischia la sua scelta anche da completo sconosciuto, è anche (soprattutto?) per l’esempio di chi prima di lui ha dimostrato come un brasiliano potesse benissimo stare, e forse dominare, anche in questa Lega. Grazie a una carriera unica e, francamente, irripetibile. Con buona pace dei Fraschilla, degli opinionisti e di Zarathustra.