“Se Michael era in punta, lo forzavamo ad andare a sinistra e lo raddoppiavamo. Se era in posizione di ala, a sinistra, immediatamente arrivavamo con un raddoppio dalla punta. Se era dall’altro lato, optavamo per un raddoppio lento. Ti poteva fare male da qualsiasi posizione-diamine, ti poteva distruggere anche dallo stand degli hot dog- volevamo solo variare il panorama. Se si trovava in area, lo raddoppiavamo con un lungo. L’altra regola era che, ogni volta che ti superava, dovevamo picchiarlo. Se usciva fuori da un blocco, picchiarlo. Non volevamo essere sporchi-conosco persone che sostengono il contrario-ma dovevamo generare contatti ed essere molto fisici”.
Non doveva essere impresa semplice tenere testa a quel satanasso con la maglia numero 23 che rispondeva al nome di Michael Jordan. L’incredibile prestazione al Boston Garden, la sera in cui riscrisse il record di punti su singola gara in postseason, aveva proiettato MJ verso una condizione di dominio psico-fisico che non si vedeva, probabilmente, dall’annata extraterrestre di Chamberlain. Anche i Pistons ne fecero le spese in un paio di occasioni, vedendosi stampate in faccia prestazioni da 61 e 59 punti. Daly aveva visto sin troppo. Da quel momento in poi la strategia contro Michael sarebbe cambiata radicalmente. A dettare legge sarebbero state, spietate e crudeli, le Jordan Rules.
A vederle oggi, non si trattano certo di principi difensivi così radicalmente innovativi, come possiamo notare dall’incipit. Dumars era il predestinato marcatore di Jordan, uno dei pochi a metterlo effettivamente in difficoltà. In seconda battuta era spesso e volentieri Rodman a raddoppiare il numero 23, grazie a quella tecnica difensiva che lo rendeva irripetibilmente versatile contro ogni tipo di avversario. Laimbeer e Mahorn, poi, si prendevano il gustoso compito di mandare un certo tipo di segnale a Michael, scaraventandolo a terra alla minima occasione ed impegnandosi in omerici duelli contro le guardie del corpo di MJ, segnatamente Charles Oakley. La guardia dei Bulls si trovava sempre attorniato da uno stormo di baccanti assatanate, il cui scopo finale era quello di costringere il fenomeno di North Carolina a scaricare il pallone ai compagni, roba che, soprattutto in quei primi anni di carriera, non veniva sempre naturale e costante. Prima ancora che accorgimenti tecnici, però, le Jordan Rules divennero un memorabile esempio di guerra psicologica, che si insinuò nelle menti dei giocatori di Chicago di pari passo con le sconfitte contro i Bad Boys.
Jordan, ad ogni modo, trovava sempre la forza di tirare e segnare, in modi sempre molto spettacolari e che testimoniavano, comunque, delle difficoltà ad oltrepassare quella Muraglia di Detroit. Stante la graduale evoluzione e crescita di ambedue le franchigie, entrambe militanti nella Central Division, fu inevitabile lo scontro con una vera posta in palio, nella postseason. Già le due squadre non si amavano troppo, a causa anche della rivalità tra Thomas e Michael, nata durante l’All Star game 1985 nel quale la matricola dei Bulls, si dice, fu vittima di una “congiura” di Isiah per rubargli il proscenio e non concedergli troppe opportunità in quella partita. I due avrebbero portato i propri dissapori all’interno delle sfide che li avrebbero attesi in quegli anni.
Il primo scontro avvenne nelle Eastern Conference Semifinals 1988. Con una grande prestazione in gara-2 al Silverdome, MJ trascinò i suoi alla vittoria esterna che voleva dire 1-1 nella serie e vantaggio del fattore campo acquisito. I giovani Bulls ne furono ringalluzziti, intravedendo una storica possibilità alle porte. Non avevano però fatto i conti con i Bad Boys. Nelle gare nell’Illinois i Pistons ebbero facile gioco dei propri avversari, chiudendo poi la serie sul 4-1 e dimostrando una facilità disarmante nel disinnescare Jordan. Con una grandissima motivazione ed un’acquisita consapevolezza dei propri mezzi, Michael e soci si ripresentarono all’appuntamento contro Detroit, questa volta nelle Eastern Conference Finals 1989. Chicago vinse gara-1 in Michigan e gara-3, in rimonta, tra le mura amiche, con 46 della propria stella, portandosi così a due soli successi da una storica Finale. Lì però, il vento girò. I Bad Boys, con le spalle al muro, decisero di scatenarsi, applicando alla perfezione le Jordan Rules. Emblematico il caso di gara-5, con Michael costretto ad appena 18 punti ed 8 tiri, puntualmente arginato dai propri eversori. Detroit reagì senza voltarsi più indietro, frustrando prima fisicamente e poi tecnicamente i Bulls, vincendo 3 gare in fila ed aggiudicandosi la serie per 4-2. Da lì a poche settimane, come abbiamo visto nella seconda parte di questa storia, si sarebbero laureati Campioni del Mondo.
La stagione 1989-90 si aprì con qualche dubbio sulla possibilità del repeat. Nessuno poteva avanzare perplessità sulla consistenza e sulla forza dei Bad Boys, ma lo scetticismo aleggiava lo stesso, complice la vittoria, un po’ fortunata, contro i Lakers alle Finals ed un’ulteriore crescita dei Bulls, che avevano cambiato la propria guida tecnica, chiamando ad allenare uno spilungone baffuto e dalle improbabili cravatte che rispondeva al nome di Phil Jackson. A complicare l’assunto per Detroit la perdita di Mahorn, a causa dell’expansion draft, che voleva dire sia maggiori responsabilità per Rodman, sia un colpo comunque non da poco ad un gruppo che si era consolidato nei cinque anni precedenti. Ancora una volta i Bad Boys avrebbero dovuto sovvertire i pronostici della vigilia.
La regular season fu nuovamente trionfale, con 59 vittorie ed una striscia di 25-1 tra Gennaio e Marzo. Superate di slancio Pacers e Knicks, ecco il rematch contro i Bulls nelle Eastern Conference Finals 1990. Micheal e compagni, ispirati dal nuovo attacco, il triple post offense, avevano disputato una grandissima annata, proponendosi come serissimi candidati al ruolo di nuova superpotenza ad Est. Eppure, le prime due gare al Palace furono appannaggio dei padroni di casa, che controllarono abbastanza agevolmente i punteggi e portandosi rapidamente sul 2-0. Tornati in Illinois, però, le cose cambiarono. Nella terza partita MJ ne mise 47+10, in quella successiva “solo” 42, riportando in parità la serie. Le seguenti gare furono sempre vinte dalla formazione di casa, con le Jordan Rules a funzionare molto bene al Palace, sfruttando la reticenza di Jordan a passarla al compagno libero, come avvenne con Cartwright in una decina di azioni pressoché consecutive. Si andò così a gara-7. In un’atmosfera carica di elettricità, i Bad Boys dimostrarono perché fossero diventati campioni appena 12 mesi prima. Dal secondo quarto in poi i Bulls si sciolsero. A farne maggiormente le spese fu Scottie Pippen, autore di un’atroce serata che lo avrebbe perseguitato per tanto tempo e ne avrebbe fatto il bersaglio di MJ. Il suo bottino finale fu di 2 punti, 1-10 al tiro ed una fortissima emicrania, nata forse dalla tensione, che lo afflisse da prima della contesa. La partita non ebbe storia. 94-73 per i Pistons che vinsero così la serie per 4-3, approdando alle terze Finals consecutive.
Ad attenderli, però, non più i consueti Lakers, bensì i giovani Portland Trail Blazers guidati dalla stella Clyde Drexler. La franchigia dell’Oregon, sulle ali dell’entusiasmo, fu vicina a strappare gara-1 in trasferta, trovandosi avanti di una decina di punti a pochi minuti dal termine. Sfortunatamente per i Blazers, però, i Bad Boys avevano Isiah. Il numero 11 si scatenò in un amen, segnando 7 punti di fila ed una cruciale tripla, permettendo così a Detroit di portare a casa la prima partita. Portland, tuttavia, non mollò l’osso. Gara-2 fu ancora più drammatica, con un overtime di mezzo, evento che non si verificava da 6 anni. I Pistons si aggrapparono a Laimbeer, che con 6 triple stabilì un record per una partita di Finale. L’ultima risata, questa volta, fu di Drexler, che segnò i liberi della vittoria, prima che Clifford Robinson la suggellasse con una stoppata su Edwards. 1-1 nella serie e ritorno in Oregon al Rose Garden. Non prima, però, che su di un componente dei Bad Boys si abbattesse un colpo da KO.
Joe Dumars era legatissimo al padre. Da lui aveva ereditato quella serietà ed etica del lavoro che lo avevano condotto sino al titolo di MVP delle Finals. Tuttavia, in quell’inizio di estate del 1990, le condizioni di salute di Dumars senior peggiorarono a vista d’occhio. Joe capì che al padre sarebbe rimasto poco da vivere. Chiese alla moglie di non informarlo fino alla fine della gara, per non distrarsi dal compito che gli spettava. I compagni, invece, seppero prima di lui della morte del padre. In campo, pur non riuscendo a guardare negli occhi Joe, diedero tutto per vincere su di un parquet sul quale non passavano da ben 17 anni. Dumars fu instancabile, top scorer della partita con 33 punti e guida dei Bad Boys in una partita fondamentale, in cui si ripresero il vantaggio del fattore campo. Al termine della contesa, la notizia della grave perdita lo raggiunse. Avrebbe comunque giocato il resto della serie, proprio come avrebbe voluto papà.
I Blazers, soprattutto davanti ai propri sostenitori, non volevano certamente mollare la presa. In gara-4 diedero battaglia in lungo e in largo ai più quotati avversari, portando la partita sino alle ultime battute. Thomas fu il migliore dei suoi, con un terzo quarto terrificante e qualche canestro importante nel finale. Con meno di 2 secondi da giocare e sotto di tre punti, Portland aveva un’ultimissima possibilità. La riserva Danny Young si prese un tiro da casa sua. Solo rete. Le squadre si riversarono in campo, ognuno portando acqua al proprio mulino. Solo dopo molte polemiche ed il consulto degli arbitri arrivò il verdetto finale: canestro irregolare e 3-1 per i Bad Boys. Anche gara-5, con i Blazers spalle al muro, fu sulla stessa falsariga, con i padroni di casa seriamente intenzionati a far tornare la serie nel Michigan. Ancora una volta fu il quarto quarto il periodo in cui si doveva decidere l’esito della battaglia. Con i titolari in ambasce, a prendersi tutto il proscenio fu The Microwave, Vinnie Johnson. Il piccolo play ne mise 16 negli ultimi minuti, tutti dal peso specifico incalcolabile. Con 7 decimi da giocare, il punteggio era in parità. La giocata non fu particolarmente costruita bene, il difensore in aiuto dei Blazers, Jerome Kersey, era alto ed atletico. Eppure Johnson non ebbe alcun timor reverenziale né esitazione prendendosi quel tiro dalla linea di fondo che valeva tantissimo. Il risultato è facilmente intuibile: canestro e serie chiusa sul 4-1.
I Bad Boys ce l’avevano fatta di nuovo, vincendo il secondo titolo NBA consecutivo. Thomas fu l’MVP delle Finali, giocando 5 gare molto solide e costanti, da vera spina nel fianco della difesa di Portland. Con quel secondo anello ogni critica venne zittita per sempre, quei Pistons potevano annoverarsi, a ragion veduta, tra le squadre più forti di tutti i tempi. Tuttavia, nessuno poteva immaginarsi che quella dinastia si sarebbe interrotta proprio quella sera di festeggiamenti.
Un anno dopo, infatti, i Bulls, ancora loro, schiantarono i Bad Boys 4-0 nelle Eastern Conference Finals 1991. Con un ultimo colpo di “classe”, Thomas e compagni, ad eccezione di Dumars e Salley, uscirono prima dal campo per non congratularsi con i vincitori, che li avevano detronizzati dopo tanti anni di successi. Per Detroit, anche se nessuno poteva prevederlo, si sarebbe aperto un periodo di vacche magre. Per 11 anni, infatti, non avrebbero più vinto una serie di Playoffs, non qualificandosi per cinque volte alla postseason.
Dopo la sconfitta contro i Knicks al Primo Turno l’anno seguente, il primo ad abbandonare fu il coach dei successi, Chuck Daly. Ebbe il grandissimo onore di allenare il Dream Team del ’92, ma si cimentò maggiormente dietro ai microfoni. Provò qualche fugace rientro sulla panca, prima ai Nets e poi ai Magic, per poi smettere definitivamente. Il più grande coach nella storia dei Pistons è scomparso nel 2009 a causa di un cancro al pancreas.
Nel 1993 fu la volta di Laimbeer di appendere le scarpette al chiodo, dopo una vita di botte e rimbalzi. Fece l’analista in tv, prima di diventare un apprezzato allenatore WNBA, senza mai perdere, ovviamente, la proverbiale lingua lunga. Il suo fedele compagno di lividi, Mahorn, metabolizzò in fretta il mancato titolo nel ’90. Vestì le maglie di Sixers (in due occasioni), Nets, Virtus Roma ed ancora dei Pistons, prima di ritirarsi ad oltre 40 anni nel 1999, optando poi per la trafila TV/WNBA. Memorabile, una volta lasciato il Michigan, una scazzottata con Laimbeer, proprio lui, in una partita tra Philadelphia e Detroit. Incorreggibili.
Di Dennis Rodman si conoscono vita, morte e miracoli. Con la scomparsa del nucleo originale dei Bad Boys divenne un rimbalzista terrificante ma non riuscì a guidare la squadra verso grandi trionfi. Nel 1993 venne ceduto agli Spurs. Stessa sorte per Vinnie Johnson, che dopo lo sweep contro i Bulls svernò un’ultima annata all’ombra dell’Alamo per poi ritirarsi nel’92. Per The Microwave sarebbero arrivati anni e anni da analista per i Pistons ed un’attività avviata, sempre con base nel Michigan ovviamente. Per un altro componente di quella panca, Salley, il prosieguo della carriera fu ricco di successi. Per l’istrionico protagonista dei Bad Boys, che avrebbe portato con successo tali caratteristiche sui set cinematografici, sarebbero arrivati altri due anelli. Con i titoli del 1996 (in maglia Bulls) e del 2000 (coi Lakers), Salley sarebbe diventato il primo ed unico giocatore a vincere titoli in tre decadi diverse, impresa eguagliata solo da Duncan lo scorso Giugno.
Joe Dumars resistette in maglia Pistons sino al 1999, vedendo anche i tonfi della franchigia dopo i trionfi degli anni Ottanta. Il suo contributo alla causa non finì di certo lì, diventando in breve President of basketball operations. Dopo una prima fase di successi, la sua stella si andò offuscando, sino alle dimissioni nello scorso Aprile dopo 30 anni ininterrotti con Detroit, rimanendo però in seno alla franchigia come consulente. Non che per il suo compagno di backcourt le cose siano andate tanto meglio.
Isiah Thomas restò con i Pistons sino al 1994, prima che un infortunio al tendine d’Achille gli sconsigliasse ulteriori fatiche in regular season. Nonostante sia stato, forse, il miglior giocatore nella storia della franchigia, per Isiah le opportunità nel Michigan furono sostanzialmente nulle. Girovagò in lungo ed in largo, ma la sua carriera da allenatore si è decisamente arenata dopo l’esperienza ai Knicks. Oggi è analista in studio per NBA TV.
Le sconfitte, le vittorie, le gioie, i dolori, i fasti e le amarezze, tutti sentimenti provati da quell’incredibile gruppo di ragazzi. I Bad Boys cambiarono, probabilmente per sempre, il modo di intendere la difesa di squadra, inasprendo i contatti e portando il gioco verso una fase di fisicità accentuata, come fu facilmente intuibile negli anni seguenti ai due titoli vinti. Non erano bellissimi da vedere, sicuramente mai amati dai tifosi in giro nella Lega, eppure quei Pistons furono rivoluzionari a proprio modo e piacimento, conquistandosi un posto nella storia che nessuno avrebbe mai più potuto toglier loro. Ancora più importante, i Bad Boys furono una vera Squadra, con la s maiuscola, un gruppo di persone che traeva forza e vantaggi nel rimanere compatti ed uniti, superando le avversità e le battute d’arresto, magari digrignando i denti o mostrando i muscoli, ma comunque centrando l’obbiettivo finale della vittoria. Gli anni passati assieme hanno contribuito alla nascita di una vera e propria leggenda, che ha legato tra loro molti di quei personaggi, come testimoniato da carriere parallele e dalla reunion di qualche mese fa, per festeggiare il venticinquesimo anniversario dal titolo dell’89. Un’occasione che ha permesso a tutti i sostenitori dei Pistons di omaggiare una squadra forgiata e plasmata ad immagine e somiglianza di una città operaia e di rivedere, anche solo per poco, alcuni dei protagonisti di quelle memorabili cavalcate. Perché a mettere un freno a Bird, Magic e Michael, solo quell’incredibile gruppo ci riuscì e con tanta veemenza, entrando di diritto nel gotha NBA.
We ride together. We die together. Bad Boys for life.
Alessandro Scuto