La storia si ripete sempre due volte. Una come tragedia e l’altra come farsa.
Queste parole di Marx – Karl, non Groucho – mi ronzano in testa con una certa insistenza da qualche tempo, un po’ come quella zanzara che prova a rendere insonne una calda nottata estiva – anche se, di questi tempi, il caldo pare solo un ricordo sbiadito e annacquato, in tutti i sensi –. E allora che fare?
Potrei continuare a provare a prender sonno nella speranza di una raggiunta sazietà della mia sgradita compagnia notturna, ma io sono un po’ all’antica e mi piace veder negli occhi il mio nemico. Così meglio accendere la luce e mettersi alla ricerca.
Ed è esattamente ciò che ho fatto, per cercare di comprendere questa temporanea ossessione per l’irsuto autore del Capitale e, alla fine, ci sono riuscito. «Eureka» urlerebbe quel genio di Archimede.
Ho capito tutto. Non sono rimasto irretito da chissà quale ideologia politico-economica, né tanto meno soggiogato dal fascino di quella folta barba bicolore.
Per impiantarmi nella testa questa “pazza idea” – come canterebbe Patti Pravo – non è servito il DiCaprio di Inception, ma sono bastate le voci, da qualche giorno trasformatesi in officiosa realtà, della trade che ha consegnato Kevin Love al passato dei Minnesota Timberwolves e, contestualmente, al futuro dei Cleveland Cavaliers; le mie sinapsi – senza dubbio neanche lontanamente comparabili a quelle di un genio come Archimede – hanno poi fatto il resto.
Chiariamoci, la dipartita del biondo Californiano dalla terra dei laghi aleggiava come uno spettro sulla franchigia da lungo tempo, né tanto meno sono rimasto colpito dalla destinazione da lui scelta per il prosieguo della sua carriera.
È dall’apertura del mercato giocatori, invero, che faccio parte della parrocchia “Love andrà dove lo porterà il cuo…ehm, pardòn, LeBron James”.
Ciò che ha maggiormente catturato la mia attenzione, in verità, è da ricercarsi nelle modalità di questo divorzio, i cui contorni, da tempo ormai, ricalcano in maniera sinistramente diabolica quelli di un’altra Love Story (scusate il gioco di parole) fallita, che ha interessato i Timberwolves e un talaltro di nome Kevin, che con il Nostro Love ha ben più in comune del nome di battesimo e della posizione in campo.
Mi riferisco, ovviamente, a Kevin Garnett, giocatore che ha “rivoluzionato” il ruolo di Point Forward con l’inizio del nuovo millennio – aprendo la strada al suo omonimo – e trascorso, esattamente come il suo successore, buona parte dei suoi anni migliori – nel suo caso, in realtà, gran parte – proprio a Minneapolis, intrappolato in una relazione dorata con i T-Wolves, prima di separarsene affinché fosse qualcun altro (v. Boston Celtics) a mettergli finalmente un anello al dito.
Ora Love sembrerebbe destinato – uso il condizionale, perché il tutto deve ancora passare al vaglio dell’NBA – a compiere un percorso analogo a quello del suo predecessore.
Tuttavia non è questo che mi ha riportato alla mente la lapidaria sentenza Marxista di cui sopra.
Questa è la punta del proverbiale iceberg, lo schizzo a carboncino, la tappa conclusiva di due esperienze analoghe, ma la cui analogia risiede non nel distacco finale, bensì nel percorso.
La separazione è solo il momento conclusivo di una relazione, è come ci si arriva quello che conta. E nel caso di specie – o meglio in entrambi – è stata l’incuria da parte di uno dei due coniugi verso l’altro a giocare un ruolo determinante. Proprio così, è qui che si colloca la ripetizione, è qui che risiede il trait d’union delle due esperienze: nell’incapacità – al secondo tentativo – ormai conclamata dei Timberwolves di riuscire a costruire un contesto realmente vincente attorno alla propria star Point Forward, sia essa Garnett o Love.
Il tutto assume più significato attenendosi ai fatti.
Il trio delle meraviglie
Sfogliando l’album dei ricordi vediamo un giovanissimo Kevin Garnett scelto da Minnesota con la 5^ chiamata assoluta al Draft del 1995.
Nelle due stagioni successive s’intravede un abbozzo di progetto, tanto che al Garnett vengono affiancati un giovane Stephon Marbury (poi giubilato per intemperanze caratteriali, che penderanno su di lui come una spada di Damocle per il resto della carriera) e l’ottimo Tom Gugliotta, che in Minnesota vive le sue migliori stagioni (20,6 e 20,1 p.ti di media nel ’96/’97 e ’97/’98).
Tant’è vero che arriva subito un cammeo ai PO’s, nel personale “Sunset Boulevard” di Olajuwon e compagni, e la prima chiamata all’ASG (1997) sia per Garnett, che per Gugliotta (prima e unica per lui).
Tutto bene insomma per Minnie, che si affaccia al nuovo millennio con una squadra giovane e piena di aspettative. Poi però qualcosa nei cervelli ai piani alti s’inceppa.
Improvvisamente l’intellighentsia dei Wolves ritiene sia una buona idea far firmare a Garnett, all’inizio della sua terza stagione, un “contrattino” da 126 milioni di dollari, con il quale procedono al primo caso documentato di auto-gambizzazione, ben prima che Plaxico Burress la trasformasse in una moda.
Sia chiaro, il buon Kevin ha poi dimostrato di essersi guadagnato fino all’ultimo penny del suo lauto stipendio, divenendo ben più di un semplice giocatore franchigia e portando spettatori al Target Center per ben 8 primavere consecutive.
Tuttavia quelle cifre non sono esattamente le prime che vi verrebbero in mente per il vostro classico giocatore al terzo anno e con medie inferiori a 20 punti e 10 rimbalzi a partita – tanto per intenderci, persino Shaquille O’Neal, pur con un Rookie of the Year e una comparsata alle Finals sul groppone, prese meno soldi alla firma coi Lakers l’anno precedente –, ma tant’è.
Le conseguenze del faraonico contratto non tardano ad arrivare.
Marbury e Gugliotta abbandonano la nave e il meglio che i T-Wolves riescono ad affiancare a Garnett (fino all’estate del 2003) consta di elementi come Terrell Brandon – per carita, All-Star un paio di volte, ma sfido chiunque di voi a ricordarsene –, Anthony Peeler, Sam Mitchell, Cherokee Parks, Wally Szczerbiak e altri non esattamente in ballottaggio per l’Hall of Fame.
Questo appunto fino all’estate del 2003, quando in Minnesota approdano Latrell Sprewell (comunque 33enne e all’incipit della parabola discendente) e Sam Cassell (34enne e già praticamente in ciabatte), che assieme a Michael Olowokandi (una delle prime scelte peggiori di sempre), Ervin Johnson (caso emblematico di come la mancanza di una vocale nel nome di battesimo possa fare tutta la differenza del mondo), Trenton Hassell e Gary Trent danno a Garnett il miglior supporting cast avuto fino a quel momento.
E infatti arrivano 58 vittorie in regular season e una splendida cavalcata fino alle WCF, interrotta solo dai Lakers dei Big Four.
Tutto sommato, comunque, un po’ pochino, considerando che tipo di giocatore si sono trovati per le mani. E così 12 anni, un MVP della Regular Season, una finale di Conference, 19mila punti, 10mila rimbalzi e un paio d’interviste con tanto di lacrime dopo, nel 2007, KG lascia la nave e si fa cingere d’alloro dai Boston Celtics.
Ed eccoci quindi finalmente arrivati all’era-Love.
Cicerone era convinto che la storia fosse una Magistra Vitae, ma i Timberwolves – surclassando persino Hitler e la sua imitazione di Napoleone con la campagna di Russia – sono riusciti a smentirlo, sposando invece appieno la filosofia di Aldous Huxley, il quale affermò: «Il fatto che gli uomini non imparino nulla dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna».
Mai frase fu più calzante.
E dire che la partenza non è stata poi così malaccio.
Per arrivare all’Ala di UCLA, infatti, al draft del 2008 Kevin McHale (allora GM dei Wolves) sacrifica la 3^ scelta assoluta O.J. Mayo, che col senno di poi si verifica una mossa particolarmente brillante.
Love fin da subito si dimostra un giocatore più che incisivo, dominando come non si vedeva fare dai tempi di Jerry Lucas sotto le plance e trasformandosi, nel corso di queste stagioni, in una double-double machine praticamente senza eguali.
Chi invece non incide assolutamente e anzi si rivela addirittura dannoso è (ancora una volta!) il front-office di Minnie, che nel giro di sei anni riesce ad alternare 4 allenatori (McHale, Wittman, Rambis, Adelman), 3 Presidents of Basketball Ops (McHale, Kahn e Saunders) ed affiancare alla sua stella – prima di quest’ultima stagione – elementi del calibro di Ryan Gomes, Randy Foye, Johnny Flynn, Anthony Tolliver, Derrick Williams, Luke Ridnour e altri con nomi e performance più vicini a quelli di pornoattori degli anni ’70 che a giocatori di pallacanestro.
A onor del vero, però, pur in questo colorito carosello portato in scena dalla dirigenza dei Wolves, anche Love ha messo del suo.
Bypassando alcuni problemi d’infortunio che ne hanno limitato l’impiego (vedi stagione 2012/2013) e le statistiche in costante miglioramento (è passato da 11 punti-9 rimbalzi-1 assist di media nell’anno da Rookie agli oltre 26 punti-13 rimbalzi-quasi 5 assist a partita del 2013/2014), salta però all’occhio come le sue stagioni si siano tutte concluse intorno alla metà di Aprile e, per di più, mai con un record vincente (miglior risultato 40-42 dell’annata appena conclusa).
Insomma dopo 6 anni fra i pros la conta dei suoi minuti di Playoff Basketball è ancora ferma sullo 0. Non benissimo.
Anzitutto perché stiamo parlando di un componente ormai fisso dei quintetti dell’All-Star Game e sicuramente di uno dei giocatori con più Hype della Western Conference e dell’intera lega.
E in secondo luogo perché chi l’ha preceduto nello spot di PF nei primi 6 anni ha compilato ben 5 stagioni con record superiore al 50% (toccando addirittura le 50 vittorie nel ’99/’00) e portato la squadra ai Playoffs altrettante volte.
«Beh si ok, però Garnett ha avuto un supporting cast leggermente migliore e la Western Conference attualmente è veramente iper-competitiva» potreste ribattere e avreste anche parzialmente ragione.
Da qui si evince, infatti, come nel corso delle prime stagioni KG abbia diviso il campo con almeno 11 giocatori con una percentuale di Win Shares – una statistica avanzata che misura il contributo del singolo giocatore al conseguimento di una vittoria – su 48 minuti superiore al 10% (che è la media della lega), mentre Love è stato affiancato da solo 4 giocatori con una percentuale maggiore o uguale alla media dell’intera lega.
Parzialmente perché sì, è vero che il supporting cast a disposizione di Garnett nelle prime stagioni è stato, da un punto di vista statistico, leggermente superiore, come ci dimostra questa bella grafica, ma – sì, c’è un ma – prendendo come paradigma le due migliori stagioni (fra le prime sei) di entrambi, si nota una differenza sostanziale.
Infatti nell’annata ’99/’00 Garnett, con una squadra ampiamente rimaneggiata e orfana di due elementi chiave come Marbury e Gugliotta – sostituiti da Terrell Brandon e Anthony Peeler (non esattamente la stessa roba) –, ha trascinato la squadra al traguardo delle 50 vittorie, per poi perdere al primo turno dei Playoffs.
Love al contrario, nella sua annata migliore (l’ultima ndr), con un Roster di tutto rispetto, nonché il più competitivo avuto per le mani fino a questo momento – Rubio-Martin-Pekovic –, ha compilato un record perdente, seppur di poco (40-42) e fallito l’ingresso alla post-season, facendo di gran lunga peggio di compagini come i Phoenix Suns (48-34) – sulla carta di sicuro non superiori ai Wolves e, di certo, privi di un All-Star del calibro del suddetto -, che se la sono giocata fino alla fine per un posto fra le prime 8.
Sulla maggior competitività della Western Conference attuale rispetto a quella targata primi 2000, poi, non sono totalmente d’accordo. Forse dimenticate squadre come i Portland Jail-Blazers, i Sacramento Kings, i sempiterni Spurs, i Mavs del primo Nowitzki, nonché i Lakers pigliatutto del Three-peat. Insomma la competitività c’era (eccome!) anche all’epoca.
Tutto questo quindi per dire cosa? Che Love sia scarso e Garnett un fenomeno? No, assolutamente.
Anzi, i numeri dicono il contrario!
Confrontando infatti i dati statistici relativi alle prime quattro annate di entrambi, emerge come in realtà Love sia un miglior tiratore, un miglior realizzatore, nonché – udite, udite – persino un miglior rimbalzista di Garnett. E in generale possiamo affermare, senza correre il rischio di troppe smentite, la sua superiorità nella metà campo offensiva.
Ecco le statistiche individuali dei due nei primi quattro anni di professionismo.
Peccato che il basket preveda che si giochi in cinque e che almeno nella metà dei possessi si debba difendere. E da questo punto di vista il paragone non si pone nemmeno, considerando che tipo di giocatore e quale contributo ha fornito alla causa Garnett nella propria metà di campo.
Nondimeno le differenze maggiori risiedono proprio in qualcosa che numeri e statistiche avanzate non sono ancora riuscite a spiegare. Quel quid pluris, quegli intangibles, che costituiscono un separè fra ottimo giocatore e campione assoluto: la personalità, la leadership, la capacità di migliorare i compagni.
Tutte qualità la cui presenza/assenza nell’uno o nell’altro Kevin si colgono bene, anche solo guardando alcuni spot pubblicitari che li hanno visti protagonisti.
Per descrivere KG mi torna in mente un vecchio spot Adidas, in cui si vede il nostro uscire di casa e passeggiare tranquillamente per strada, fin quando una persona, che cammina proprio al suo fianco, decide di salirgli in groppa. A quel punto si scatena un effetto a catena.
Man mano che la passeggiata prosegue, infatti, sempre più passanti seguono l’esempio di questo simpatico signore. Chi scende dalla propria auto, chi dall’autobus, chi addirittura si lancia da un tetto. Tutti corrono e s’inerpicano l’uno sopra l’altro, fino a formare un’enorme piramide umana, sorretta proprio dal Garnett che continua a camminare e “Sta senza pensieri”, senza che un Genny Savastano qualunque glielo debba ricordare.
Per quanto riguarda K-Love, invece, la più famosa reclame che lo riguarda lo vede interpretare un anziano signore, che si lascia convincere da un camuffato Kyrie Irving (perdinci! sarà mica un caso?) a fargli da spalla in una partita al campetto.
Insomma, tirate voi le conclusioni.
Se volessi, però, ricorrere ad una similitudine cinematografica – rimanendo sempre fedele al nome Kevin -, io direi che Garnett è come il Kevin Spacey di House of Cards: leader della coalizione di maggioranza, ambisce a diventare presidente, non ce l’ha ancora fatta, ma è disposto a tutto, anche a lasciarsi dietro qualche cadavere.
Love, viceversa, ricorda più il Kevin Costner di Un mondo perfetto: è un evaso dal carcere, perfettamente in grado di rapire un bambino – e infatti è quel che fa –, ma gli concede eccessiva libertà e finisce per farsi sparare e morire proprio per mano sua.
Sia chiaro, con questo non intendo classificare l’occhio ceruleo più ambito di Lake Oswego al pari di una piaga tumescente, lungi da me!
Love è un giocatore speciale, una macchina offensiva quasi perfetta e “la forza è tanto potente in lui”, quanto nel giovane Skywalker, ma al contempo non si può negare che manchi di quelle doti da lupo Alpha, da leader del Wolfpack, che altrimenti gli avrebbero permesso di raggiungere qualche post-season in più e di contribuire anche alla crescita dei propri compagni di squadra, così com’è stato per Garnett.
Per questo – e molto altro – alla fanbase delle Twin Cities dico: «Non disperate, gente!».
Love non era – e non è – quel condottiero senza macchia e senza paura, di cui avevate – avete e avrete – bisogno.
La trade con Cleveland, in quest’ottica, accontenta tutti, a mio modesto parere.
Accontenta Love, che finalmente può ricongiungersi al suo compagno di spot e trovarsi in un contesto, sulla carta, vincente e senza che nessuno pretenda sia lui a tirare la carretta.
Accontenta LeBron, che torna a casa e non si trova a dover predicare nel deserto.
E, per certi versi, accontenta anche i Timberwolves, che si trovano a ripartire da una base giovane, futuribile e potenzialmente elettrizzante, come dimostrano le schiacciate di LaVine e Wigginis in Summer League.
Nel 1981 Kurt Russell era impegnato a cercare una via di fuga da una New York post-atomica e trasformata in carcere di massima sicurezza, senza legge e senza dio.
Trentatre anni più tardi – e solo sei dopo il suo approdo nella Lega – Kevin Love, novello Jena Plissken, realizza la sua personalissima fuga dalla Minneapolis post-Garnett (che è ben peggio di un semplice e banale scenario post-atomico) e, idealmente, chiude il cerchio, divenendo solo l’ultimo di una lunga lista di sportivi, che hanno conseguito un maggior successo professionale solo dopo essersi allontanati dal Gopher State. Basti pensare a David “Big Papi” Ortiz (vincitore 3 volte delle World Series, dopo il trasferimento dai Twins ai Red Sox) o a Randy Moss (componente, assieme a Tom Brady, di uno fra i più forti duo degli ultimi 15 anni di NFL).
Per quanto riguarda i Wolves, per ora Marx e Huxley hanno avuto ragione, ma chi ci dice che la terza volta non sia quella buona?
Simone Errante