La storia NBA è costellata da miriadi di storie di potenziali stelle e/o futuri crac che non riescono a compiere l’ultimo e decisivo step verso la consacrazione. Oltre a coloro che non vi riescono per problemi comportamentali o ambientali, i maggiori “whatifs”, o più prosaicamente in italiano “i se”, vengono destinati a tutti quei giocatori che rimangono nel limbo o, peggio ancora, escono anticipatamente di scena a causa di infortuni gravi. Di esempi da portare a testimonianza, come detto poc’anzi, ce ne sarebbero a dozzine, sin dagli albori della Lega stessa. Restando ai giorni nostri, roba quasi d’attualità, uno dei più grossi punti interrogativi rimane su di un ragazzone, ormai ritirato, che rappresenta un po’ l’epitome del mitologico colosso dai piedi d’argilla. Con altri arti inferiori, magari, i destini delle aree NBA sarebbero stati diversi, con un nome in rilevanza sopra gli altri centri: Yao Ming.
Le origini ed i natali del più grande giocatore cinese di tutti i tempi non sono quelli comuni del professionista medio NBA. Non potrebbe essere altrimenti se nasci nella città più popolosa del mondo, Shanghai, e se i tuoi genitori erano entrambi giocatori di basket, alimentando la leggenda che vuole Yao il frutto di “esperimenti” del governo di Pechino atti a far accoppiare atleti professionisti per ricavarne pargoletti dal sicuro futuro brillante. Facezie ed illazioni a parte, il “piccolo” Ming alla nascita pesava già ben 5kg, arrivando pericolosamente vicino al metro e settanta di altezza ancor prima di diventare teenager. L’avvicinamento alla sfera a spicchi fu inevitabile, vuoi per le dimensioni che andavano ogni giorno aumentando, vuoi per il background familiare, da unire poi alla nascita di un campionato cinese, la CBA, che nel 1995-96 iniziò la propria attività. La squadra di riferimento per Yao fu quella della metropoli di appartenenza, gli Shanghai Sharks, che non si fecero scappare l’opportunità di mettere sotto contratto un prospetto che, nel frattempo, era arrivato sino ai 2,29 m di altezza.
Dopo la stagione di esordio (1997-98) di inevitabile apprendimento, le quotazioni di Yao crebbero a dismisura, di pari passo con le prestazioni sul parquet. Già nell’annata da sophomore i punti per gara erano arrivati a superare i 20 ad incontro, così come i rimbalzi, che cadevano nelle sue mani in doppia cifra di media. Gli Sharks, guidati dal loro supercentro, disputarono 3 finali consecutive, vincendo il titolo nel 2002 con Ming vicino ad un impressionante, nonostante il livello, 40+20 di media durante i Playoffs, con l’ovvio riconoscimento di MVP delle finali cinesi. Nel frattempo era arrivato anche l’esordio in nazionale, con la creazione di un legame che sarebbe diventato indissolubile nel corso degli anni. Nel 2000 Yao disputò le Olimpiadi di Sydney, un anno dopo ecco la vittoria nella competizione continentale con annesso titolo di miglior giocatore della rassegna asiatica. Il nome di Yao Ming si stava rapidamente espandendo anche al di fuori della Muraglia Cinese.
Il prodotto di Shanghai non era il classico lungagnone legnoso, poco fluido, meccanico e destinato ad entrare nella parte sbagliata del poster, insomma una sorta di Shawn Bradley con gli occhi a mandorla. Al contrario Yao era molto tecnico, dotato di ottima mano, visione di gioco e che correva bene per il campo, sempre rispetto alle dimensioni davvero mastodontiche. L’esplosività e l’elevazione non erano il suo forte, anche perché due seri infortuni al piede ne avevano un po’ ridotto le prestazioni, che comunque bastavano più che abbondantemente per il campionato cinese. Non ci volle molto perché gli scout americani mettessero sotto la lente d’ingrandimento il nuovo fenomeno asiatico, considerato un sicuro prospetto NBA.
Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano, i rapporti tra USA e Cina, storicamente molto freddi, stavano vivendo importanti fasi di disgelo. Da vero volpone, David Stern capì che il mercato asiatico sarebbe stato un vitale terreno di conquista per la propria Lega, ordinando a tutti i costi di esplorare avidamente le potenzialità dell’espansione del marchio NBA nella dimora dell’antico Celeste Impero. In breve i fan cinesi si moltiplicarono a dismisura, garantendo vitali introiti alla Lega, che aveva così battuto tutti sul tempo. Da lì fu breve l’arrivo dei primi giocatori cinesi nella NBA, segnatamente Wang Zhizhi ai Dallas Mavericks nel 2000-01 e Mengke Bateer ai Denver Nuggets una stagione più tardi. Con l’arrivo dell’estate del 2002 comunque, una volta risolti i problemi burocratici con la federazione cinese, Yao Ming era diventato uno degli uomini su cui le franchigie erano pronte ad investire tempo e denaro.
In vista del Draft 2002, gli Houston Rockets avevano ben impresso in mente chi sarebbe stato il proprio obbiettivo. Dopo i fasti dell’era-Olajuwon, la franchigia era caduta in seconda/terza fascia, vivendo alcuni anni di grigiore solo in parte attutito dalle prestazioni di Cuttino Mobley e, soprattutto, Steve Francis. C’era però bisogno vitale di rimpolpare la squadra sotto canestro, dove il solo Kelvin Cato non poteva decisamente bastare. Così, senza secondi ripensamenti, Yao Ming diventò il primo straniero ad essere selezionato con la prima scelta del Draft, garantendosi già così un posto nella storia. Ora però, c’era bisogno di dimostrare qualcosa sul parquet.
Molta curiosità aleggiava attorno a Yao, abbinata all’ovvio scetticismo tipico di questi casi. Accompagnato dal fedele interprete, il nuovo centro dei Rockets cercava di adattarsi giorno dopo giorno ad una cultura lontana anni luce da quella a cui era stato abituato sin da bambino. Eppure, anche con battute spesso infantili o atteggiamenti un po’ goffi, presto si capì che Ming poteva diventare un vero personaggio nella Lega, una volta sciolto l’iniziale imbarazzo. Dopo le prime prestazioni di assoluta confidenza con una nuova realtà, già dopo un paio di settimane arrivò la prima grande prova NBA, con 20 punti e 9/9 dal campo contro i Lakers, costringendo Charles Barkley, uno dei suoi detrattori, a baciare in diretta tv il fondoschiena di un asino, dopo aver scommesso che mai e poi mai Yao avrebbe raggiunto quella cifra nell’anno da rookie. Il posto da titolare fu presto cosa sua, di pari passo con prestazioni sempre molto solide e qualche lampo accecante, sia per movimenti sotto canestro, qualche passaggio spettacolare per i taglianti ed un ottimo tiro dai 5-6 metri.
Grande attesa c’era per lo scontro con Shaquille O’Neal, assente per infortunio nella gara di cui sopra, che aveva avuto un’uscita poco felice nei confronti della lingua cinese. Yao non se ne curò più di tanto, stoppò i primi 3 tiri dell’avversario diretto e portò i Rockets, col fondamentale contributo di Francis, ad una vittoria molto prestigiosa. Da lì in poi i due sarebbero diventati ottimi amici, con Shaq tante volte ospite dei genitori di Yao e sempre molto rispettoso nei confronti del giovane rivale. Un ulteriore consacrazione per il ragazzo di Shanghai arrivò poche settimane dopo. Con l’apertura delle votazioni per i partecipanti anche all’estero, ci volle poco affinché Yao diventasse il primo rookie a diventare uno starter all’All Star Game dai tempi di Grant Hill nel 1995.
L’annata da rookie, pur con i Playoffs svaniti nelle ultime settimane, si era conclusa con una media di 13,5 punti, 8,2 rimbalzi e 1,8 stoppate, numeri buoni per l’inclusione nel primo quintetto delle matricole ma non per il titolo di debuttante dell’anno, riconoscimento andato ad Amare Stoudemire. Dopo aver vinto in estate un altro titolo asiatico, per Yao e per tutta Houston si apriva una nuova fase. Terminata la fantastica epopea Tomjanovich, si era ufficialmente aperta l’era Jeff Van Gundy. L’ex coach dei Knicks aveva notato come il backcourt dei Rockets tendesse ad ignorare troppe volte un bersaglio fin troppo evidente come il proprio centro, non coinvolgendolo in alcuni frangenti delle partite. JVG capovolse interamente questo concetto, rendendo Yao il fulcro del proprio gioco e ricevendone, in risposta, una stagione da 17,5+9 e la qualificazione ai Playoffs dopo 5 anni di digiuno. Nonostante la sconfitta contro Shaq ed i Lakers al Primo Turno, l’avvenire sembrava tutto dalla parte dei Texani, guidati da un giocatore che era diventato volto pubblico e commerciale, nonché icona di un paese intero. Alle Olimpiadi di Atene 2004, infatti, a Yao toccò il grandissimo onore di portare la bandiera cinese durante la cerimonia di apertura. In campo, poi, trascinò i propri compagni, non di livello particolarmente eccelso, verso una storica qualificazione ai quarti di finale.
L’arrivo di Tracy McGrady dagli Orlando Magic aveva reso i Rockets una degna contender ad Ovest. T-Mac era considerato la star perfetta, per caratteristiche ed altruismo, da abbinare a Yao Ming e portare Houston verso la Terra Promessa. L’inizio della stagione 2004-05 fu balbettante ma, dopo i dovuti accorgimenti dello staff tecnico, la squadra prese il volo trascinata dalle proprie due punte di diamante. Nei Playoffs, al Primo Turno, il derby texano coi Dallas Mavericks. Houston espugnò nelle prime due gare l’American Airlines Center e sembrava proiettata verso il passaggio del turno. Incredibilmente, però, i Rockets si sciolsero come neve al sole, perdendo le successive due partite casalinghe e venendo seppelliti in gara-7. Nonostante uno Yao che aveva avuto degli sprazzi di devastante efficacia, a Houston mancava ancora qualcosina per compiere un ulteriore step. Dopo aver vinto un altro titolo asiatico con la nazionale, il centrone di Shanghai era comunque sicuro che le vittorie sarebbero presto arrivate.
Dopo esser stato sostanzialmente immune da malanni vari nei primi 3 anni nella NBA, il Destino decise di chiedere il conto al ragazzone cinese. Le prime avvisaglie si ebbero nella stagione 2005-06, che si aprì con l’osteomielite all’alluce del piede sinistro che gli fece saltare una ventina di gare. Yao mise a referto in quell’annata un ottimo 22,3+10,2 ma, complice anche i malesseri di McGrady, i Rockets mancarono clamorosamente l’approdo ai Playoffs. In più, in una delle ultime gare, il numero 11 si fratturò un dito del piede, che lo costrinse a sei mesi ai box. Tornato nella stagione successiva, Yao fu semplicemente devastante. In attacco era una furia, immarcabile nei pressi del ferro e con un tiro eseguito ormai in automatico e che non poteva essere stoppato, vista l’altezza da cui veniva scoccato. Negli ultimi mesi del 2006 il cinese era considerato uno dei candidati, se non il principale destinatario, dell’ MVP stagionale, tale era stato il suo impatto nei primi mesi di regular season. Tuttavia, vicino Natale, ecco la beffa: frattura del ginocchio destro e due mesi e mezzo di stop. Le cifre a fine anno recitavano un ottimo 25+9,4, condite da 2 stoppate di media. Nella postseason i Rockets, tuttavia, sprecarono il match point casalingo in gara-7, cedendo agli Utah Jazz, nonostante uno Yao sempre oltre quota 20.
Con l’avvento di Rick Adelman sulla panchina di Houston, si pensava che lo stile più frizzante voluto dal nuovo coach potesse avere grandi benefici sulle sorti della squadra. Ancora una volta l’avvio fu balbettante, ma in prossimità dell’All Star Game i Rockets sembravano aver ingranato, trovandosi nel mezzo di una striscia di 8 affermazioni consecutive. Neanche il tempo di fare voli pindarici di fantasia ed ecco il nuovo crac: frattura da stress al piede sinistro e stagione finita per Yao. Con Mutombo a sostituirlo, la squadra arrivò addirittura a 22 successi in fila, terza striscia ogni epoca, ma finì presto la sua avventura in postseason contro i soliti Jazz. In estate, nei Giochi Olimpici di Pechino 2008, Yao fu nuovamente l’alfiere ed il portabandiera della spedizione cinese. C’era stata qualche frizione tra lo staff sanitario dei Rockets e la federazione asiatica, che a tutti costi volle recuperarlo in vista della kermesse casalinga a cui non poteva mancare. Terminata anche questa esperienza, il giocatore si rituffò a capofitto sulla stagione NBA. Houston era diventata l’equivalente del lazzaretto di manzoniana memoria, con le due superstar quasi a fare turno per avere l’infortunio più serio. Senza poter usufruire delle prestazioni di T-Mac nella seconda parte di stagione, guidati da Yao i Rockets agguantarono lo stesso la postseason. Pur non avendo il fattore campo contro i Portland Trail Blazers, grazie al proprio centro i Texani riuscirono a superare lo scoglio-Primo Turno, evento che non si verificava dal 1997. Contro i Los Angeles Lakers, opposto a Bynum e Gasol, Yao fu decisivo nella vittoria in trasferta di gara-1 delle Semifinali di Conference, le prime disputate in carriera. Per sua sfortuna, sarebbero rimaste le uniche.
Dopo gara-3, pur avendo prodotto tre doppie doppie in altrettante gare della serie, era chiaro che qualcosa non andasse. Il responso medico fu decisamente sconcertante: frattura da stress, l’ennesima, e stagione finita, proprio sul più bello. Questa volta il calvario fu più lungo e meno positivo. Saltò per intero la stagione 2009-10, nella speranza di poter mettere finalmente a posto quei piedi davvero di cristallo. Nell’annata seguente i Rockets cercarono di limitarne i minuti per preservarne la salute e reinserirlo gradualmente. Le prime apparizioni stagionali ebbero qualche timido segnale di ripresa, ma la situazione presto degenerò. Un’altra frattura da stress, questa volta alla caviglia, fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Ad appena 30 anni decise di ritirarsi, impossibilitato a continuare con efficacia e continuità a causa di tutti quegli stop che lo avevano tormentato negli ultimi 5 anni.
Nonostante il ritiro dall’attività agonistica, Yao Ming è rimasto in contatto con quell’ambiente che lo ha visto protagonista per una dozzina di anni. Uomo d’affari ben avviato nel mondo del business, ha pure acquistato la sua vecchia squadra, gli Sharks, oltre a prestare il volto a tante campagne pubblicitarie di successo. E’, a pieno diritto, l’ambasciatore in Cina della NBA, in un paese che, grazie alle gesta del proprio idolo, si è avvicinato così tanto alla Lega, sperando con tutto il cuore che arrivasse il titolo agognato. Ogni tanto si fa vedere alle partite dei Rockets, facendo il tifo per il suo successore nell’area pitturata dei Texani, Dwight Howard. I rimpianti per non averlo visto entrare da sano nel proprio “prime” da atleta sono tanti. Certo, non è mai stato un rimbalzista eccezionale, spesso spostato da giocatori più piccoli ma anche più tosti; anche alla voce stoppate si sarebbe potuto fare qualcosa di più. Ma in attacco Yao, complice anche il declino graduale di Shaq, è stato, solo per brevi tratti sfortunatamente, il miglior centro NBA, con una varietà di soluzioni da far venire il mal di testa ai difensori avversari, impossibilitati a contestarne i tiri. Con un po’ più di buona sorte, magari, la storia recente della Lega sarebbe potuta esser diversa, per quanto con i “se” e con i “ma” non si vada da nessuna parte. E dei piedi di argilla del colosso cinese, magari ci ricorderemmo per motivi ben più lieti e, chissà, vittoriosi.
Alessandro Scuto