Categorie: Hall of Famer

Il maestro inconsapevole

Non doveva essere esattamente facile vivere di basket negli Stati Uniti degli anni ’60. Più ancora, non doveva essere facile vivere di basket in modo tale che oggi, a cinquantanni di distanza da quegli anni ’60, ci si ricordi ancora di te. Chiedere a Donald Lee Haskins, in arte Don.

La storia di coach Haskins fortunatamente, grazie alla Disney e alle immense possibilità dell’home video, ormai la conoscono in molti. Il che è un’altra cosa che non doveva essere facile: vivere la vita (nel basket) in modo tale che alla fine qualcuno decida di fare un film su come quella vita l’hai vissuta, e su quello che hai ottenuto (fuori dal basket). Oggi, grazie aGlory Road sappiamo più o meno tutti quello che Don Haskins ha fatto, per il basket, e non solo. Perché vivere di basket negli anni ’60 significava anche scontrarsi contro muri alti e invalicabili fatti di pregiudizi, ideologia, astio e una buona dose di (mal) nascosto razzismo. Perché gli Stati Uniti, patria dell’uguaglianza e della libertà, non sono poi sempre stati così coerenti. E Don Haskins andò a sbattere violentemente contro questi muri, con la sola, fondamentale differenza, di riuscire a buttarli giù. Come un ariete, con la stessa forza dirompente.

Don era un ragazzo semplice. Era nato nella sperduta Enid, in Oklahoma (uno di quegli strani stati americani piatti e squadrati dove, anche al giorno d’oggi, l’unica cosa per cui valga la pena continuare a viverci, sembra essere proprio la palla a spicchi). Era del 1930, figlio di tempi duri, quelli della crisi e della Grande Depressione, e per questo aveva una sua etica incrollabile del lavoro, della fatica, del sudore. Erano questi i valori che rispettava, l’impegno la sola carta d’identità che riconoscesse. Giocò per tre anni in NCAA all’università di Oklahoma A&M, allenato da coach Henry Iba, un altro uomo con attributi di forma vagamente cubica e con un curriculum cestistico in grado di far sbavare i più dall’ammirazione. Poi passò dal parquet al pino, dal campo alla panchina, prima con squadre femminili di high school (come ci mostra con tanta maestria la prima, esilarante, scena di “Glory Road”), poi, finalmente, nel 1961, al Texas Western College, come head coach dei Miners. Certo non era proprio l’incarico da sogno di una notte di mezza estate che ogni coach brama, ma era pur sempre una panchina sulla quale giocare il torneo NCAA, che non è una cosa che succede esattamente a tutti, tutti i giorni. Inutile negare che i primi anni furono deludenti. Il Texas Western era un college piccolo, poco ambizioso e per questo poco attraente per i giovani prospetti provenienti dalle high school, e soprattutto con poche risorse. Ma Don non era uomo che sapesse limitare i suoi sogni e le sue ambizioni sacrificandoli all’altare delle restrizioni economiche. Così, nell’estate del 1965, prima dell’inizio della stagione ’65-’66, salì sulla sua macchina e si avviò sulle strade d’America cercando quei giocatori che nessuno voleva, dei quali nessuno vedeva il talento perché troppo impegnato a controllarne la sfumatura di carnagione, giocatori disposti a tutto per una chance, anche ad arrivare fino in Texas che, si sa, non è esattamente lo stato più tollerante del mondo nei confronti delle persone con una tonalità di pelle più scura del bianco perla.

Don percorse il paese in lungo e in largo, mettendo di tasca propria benzina, alloggio, fatica e tempo. A Gary, Indiana, riuscì a convincere un ragazzone grande e grosso, tal Harry Flournoy, e una guardia nervosa e scattante che rispondeva al nome di Orsten Artis a raggiungerlo a El Paso. Lo stesso fece a New York, reclutando tre “giocatori da playground”, Willie Cager, Nevil Shed e Willie Worsley, e in Michigan con un certo Bobby Joe Hill (futuro giocatore icona dei suoi Miners), per poi tornare indietro e assicurarsi David Lattin, il ragazzo di casa, un grosso e aggressivo centro nativo di Houston. Era un numero impressionante (per l’epoca) di giocatori afroamericani nella stessa squadra. Una prova di coraggio non indifferente in un mondo che si vantava di avere, tra le sue leggi non scritte, quella secondo la quale “fai giocare un negro in casa, due in trasferta e tre se stai perdendo. Non che non ci fossero ragazzi bianchi in squadra, anzi, proprio il fatto che ci fossero è la cosa più importante. Perché se quell’anno i Miners volarono fino a un record (23-1) tale da assicurargli il numero 3 nel ranking NCAA, se riuscirono a superare le difficoltà del torneo e ad arrivare in finale contro gli strafavoriti Kentucky Wildcats di Adolf Rupp (un altro coach di quelli che hanno fatto la storia), non è solo merito del tasso atletico dei giocatori di colore. Perché non era scontato che cinque giocatori texani bianchi accettassero serenamente l’ambizione del coach, se arrivava al punto di mettergli sette neri in squadra. L’abilità di Don fu quella di non fare differenze. Non esisteva colore della pelle, in palestra o sul parquet, tutti erano obbligati a fornirgli la stessa intensità, la stessa rabbia agonistica, lo stesso sudore, lo stesso impegno. L’uguaglianza, quella vera, fondata sulla fatica e sul lavoro, fu alla base della formazione dello spirito di gruppo (il valore fondamentale per una squadra di successo), ma nessuno, né Don, né i suoi giocatori, si stava rendendo conto di quello che stava succedendo, e che ci si avviava a fare la storia del basket universitario, del basket tutto e anche del mondo. Nel torneo NCAA e nelle Final Four del 1966 i Miners si fecero strada fino alla finale, attirandosi addosso gli sguardi incantati degli spettatori, incapaci di capire se incoraggiarli o odiarli. Adolf Rupp invece, dall’alto dello scranno del superfavorito, sapeva benissimo quello che provava: voleva schiacciarli. Prima della partita dichiarò ostentatamente che mai cinque giocatori neri avrebbero potuto vincere contro cinque giocatori bianchi. Don Haskins non replicò. A lui non interessava, evidentemente, tutto il clamore mediatico. Ai suoi occhi non c’era nulla di insolito o di strano nel fatto che cinque giocatori neri fossero gli starters della sua squadra nella finale del torneo NCAA. Per lui erano solo dei buoni giocatori, giocatori che avrebbero potuto vincere quella partita. E lui voleva soltanto vincere. Inutile cercare di negare che ci fosse un tantino di fervore razziale in campo: sul secondo possesso Bobby Joe Hill passò palla sotto le plance a Lattin che inchiodò la schiacciata in faccia a un tizio che di nome faceva Pat Riley, a quell’epoca soltanto uno dei migliori prospetti in circolazione, e ricadendo gli gridò in faccia: Take that, you white honkey! (per i meno anglofoni “Beccati questa, asino bianco!”), ma Don, e i Miners al suo seguito, cavalcarono elegantemente le ondate di quel fervore con un basket ragionato, organizzato, tutto quello che si riteneva fosse proprio dei soli bianchi. Con una rotazione strettissima di sette giocatori (ridotti a sei dopo l’infortunio di Flournoy nel primo tempo), esclusivamente neri (che può essere sicuramente dovuta al fatto che Don li considerasse i migliori del roster, come ha ripetutamente affermato lui stesso in seguito, ma che forse risentiva, anche solo un pochino, delle dichiarazioni di Rupp) Texas Western prese il comando già a metà del primo quarto, quando Bobby Joe Hill rubò due palloni a metà campo (uno a Louis Dampier, un altro grande prospetto del basket collegiale, l’altro a Tommy Kron) per andarli a trasformare con dei comodi lay-up. Rupp chiamò time out e, una volta che tutti i Wildcats furono riuniti intorno a lui, gridò loro, fuori controlloYou stupid sons of bitches! (frase che non necessita di traduzione). Era evidente che avesse perso il polso della situazione. Il resto è storia: una importante vittoria per 72 a 65 e il nome di Don Haskins e dei Texas Western Miners 1965-66 consegnati alla storia, così come la partita. La partita più importante della storia del basket collegiale americano.

Don Haskins, di cui qualche giorno fa il mondo del basket ha celebrato il sesto anniversario della morte, ha trovato posto nella Naismith Hall of Fame nel 1997, accanto al suo mentore Iba e alla sua nemesi Rupp (entrambi già lì dal 1969), e nel 2007 lo stesso onore è toccato all’intera squadra dei Miners. I loro nomi sono lì perché hanno rivoluzionato il basket rendendo non solo concepibile e possibile, ma reale, l’idea di una squadra formata da soli ragazzi di colore. Perché hanno abbattuto le barriere, perché sono stati per il basket USA e poi per il mondo dello sport in generale, quello che Martin Luther King o Nelson Mandela sono stati per il mondo intero (con le dovute proporzioni e differenze). Quello che colpisce è la semplicità con la quale una cosa tanto complessa sia potuta accadere. Come abbiamo già detto, né Don né i suoi giocatori sapevano cosa stavano facendo, di che rivoluzione erano i portatori, dove sarebbe arrivato il loro cammino. È qui, nell’inconsapevolezza, che sta la grandezza di Don. Non nel torneo NCAA, non nel record di partite vinte e perse alla Texas Western, non nel basket, ma nella sua inconsapevolezza. Don era inconsapevole di star facendo qualcosa di speciale perché per lui quello che stava succedendo nella sua palestra era perfettamente normale: si giocava a basket. Don era inconsapevole di saper insegnare qualcosa di molto più importante di un taglio a canestro o di uno schema. Ma lo fece, e insegnò ai suoi giocatori a convivere, a divertirsi e a vincere insieme superando gli stereotipi razziali sul colore della pelle. E ha insegnato anche ad Adolf Rupp, ai Kentucky Wildcats, e alla NCAA, alla NBA e a tutti noi. Ed è un insegnamento che ha tanto più senso per la semplicità e la naturalezza con la quale ci è stato dato. Senza volerlo fare, con la sola ambizione, e la volontà di arrivare al massimo, inconsapevolmente, Don ha cambiato il mondo.

Simone Simeoni

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