Categorie: Hall of Famer

The Best that never Was-Capitolo II

La fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo furono un periodo particolarmente tragico e sfortunato nella storia della NBA. Giovani promesse del calibro di Len Bias, Reggie Lewis o lo stesso Drazen Petrovic, come avete potuto leggere sulle pagine di NbaReligion, videro prematuramente infranti i propri sogni di gloria a causa di un destino particolarmente avverso. Accanto a loro, leggermente meno conosciuta ma non per questo meno dolorosa, vi è la vicenda di un altro ragazzo che, se le cose fossero andate per il verso giusto, avrebbe forse toccato importanti vette nella Lega. Anche per lui, purtroppo, il Fato aveva deciso diversamente. Un cuore ballerino, infatti, si sarebbe portato via presto, troppo presto, Hank Gathers.

Hank nacque l’11 Febbraio 1967 a Philadelphia, città in cui storicamente il talento per il gioco della pallacanestro trova terreno fertile su cui sbocciare. Gathers, oltre alle qualità tecniche, ebbe in dote anche un fisico scolpito ed atletico, particolarmente adatto per le sfide sul parquet. Sin dagli anni dell’High School, strinse amicizia con un ragazzo col quale avrebbe condiviso tante gioie e dolori negli anni seguenti, Bo Kimble. I due stabilirono subito un’intesa invidiabile, sia in campo che fuori, aiutando la propria scuola a vincere la Philadelphia Public League nel 1985.

I due vennero reclutati assieme da University of Southern California, desiderosa di metter su una squadra ambiziosa ed ultra-competitiva. Le aspettative vennero decisamente tradite, con una stagione non proprio esaltante e conclusa con un record perdente. A fine anno, l’inevitabile diaspora. Bo ed Hank, ancora una volta, continuarono assieme la propria strada universitaria. Disposti ad aspettare il necessario anno di stop, secondo regolamento per i trasferimenti durante la carriera collegiale, coach Paul Westhead e la sua Loyola Marymount University decisero di assicurarsi i servigi di una coppia che faceva faville sul parquet e che ben si sposava con lo stile peculiare imposto dall’allenatore.

Westhead era stato il coach dei Los Angeles Lakers Campioni NBA 1980, nell’anno da rookie di un certo Magic Johnson. Per Paul l’avvenire sembrava promettente, anche per lui si era trattato dell’esordio sulla panchina tra i pro ed il risultato non sarebbe potuto esser migliore. Invece, quasi inaspettatamente, la sua carriera NBA terminò sostanzialmente dopo quelle Finals. All’inizio della stagione seguente, dopo un avvio balbettante, venne defenestrato senza troppi complimenti da Jerry Buss a causa, stando ai “si dice”, di continue frizioni proprio col numero 32. Westhead si vide chiudere le porte innanzi a sé, dovendo tornare di gran carriera nel mondo collegiale. Arrivato a LMU nel 1985, decise quindi di imporre uno stile davvero unico nel suo genere.

Il ritmo era indiavolato, infernale, insostenibile da tenere per le squadre avversarie. Tanti tiri da tre, spesso e volentieri nei primi dieci secondi dell’azione. Per recuperare pallone il più velocemente possibile e/o indurre la squadra avversaria a sanguinose palle perse, il coach optò per uno sfiancante pressing a tutto campo. I punteggi, di conseguenza, erano drogati da una tale filosofia di gioco. LMU superava quasi sbadigliando i 110 punti per gara ed in un’occasione, nel 1990, chiuse un’intera stagione a ben 122,4 di media. Un anno prima, nell’89, la squadra si era permessa il lusso di segnare la bellezza di 181 punti in una vittoria contro United States International University. Per rendere però davvero competitivi i Lions c’era bisogno di stelle di prima grandezza. Fu qui che venne in aiuto l’Hank and Bo Show.

I due ragazzi da Philadelphia erano diventati due giocatori con tutti i crismi delle superstar. Kimble aveva sviluppato un grande istinto realizzativo, chiudendo anche una stagione a 35 punti di media. Gathers, invece, era La Stella. 2 metri per una novantina di chili, Hank da ala forte spazzava senza mezzi termini la concorrenza. Rimbalzi come se piovessero, dominio nell’area pitturata, schiacciate di terrificante potenza e spettacolarità. Nella stagione 1988-89 la grande gemma da incastonare: 32,7 punti ad incontro, 13,7 carambole a gara e secondo giocatore della storia NCAA a chiudere una stagione come miglior realizzatore e rimbalzista, impresa riuscita qualche anno prima solo a Xavier McDaniel. Hank aveva dimostrato di possedere qualcosa di speciale.

Loyola, da sempre destinata ad un ruolo da assoluta comprimaria, era diventata nel frattempo una squadra molto temuta e rispettata, in grado, finalmente, di approdare al Torneo NCAA. Gathers frattanto stava facendo incetta di premi, sia al livello della West Coast Conference che nazionale, con la nomina in uno dei quintetti All-American. Hank amava definirsi “L’uomo più forte d’America”, conscio anche di una probabile scelta alta al Draft 1990. Non avrebbe giocato un solo minuto nella NBA.

Le prime avvisaglie del disastro si ebbero il 9 Dicembre 1989. In una gara contro Santa Barbara, dopo un tiro libero, Gathers avvertì che qualcosa a livello cardiaco non stesse andando per il verso giusto. Pochi secondi dopo si accasciò al suolo, tra lo stupore generale. In breve riuscì a riprendersi e ad uscire coi propri mezzi dal palazzetto, ma gli esami successivi furono impietosi. Un’anomalia nel battito del cuore poneva in serio rischio il prosieguo della carriera agonistica. Gli vennero prescritti prontamente dei medicinali, che però lo rallentavano e limitavano vistosamente. Di propria iniziativa, iniziò a saltare qualche visita di controllo e, ancora peggio, a ridurre i dosaggi di tali beta-bloccanti. Una leggerezza che avrebbe pagato a caro prezzo.

Il 4 Marzo 1990 sembrava una data come le altre. Gathers aveva ripreso a macinare punti e rimbalzi, trascinando LMU verso un ruolo da outsider della stagione. Avversaria di turno Portland ed il suo giovane playmaker di nome Erik Spoelstra. Già dopo pochi minuti l’esito della partita è segnato. Hank è devastante, in contropiede esegue una tremenda affondata in tomahawk, raccogliendo un alley-oop di un compagno. Si gira, dà il cinque a Kimble e poi crolla a terra, collassando. Cerca di rialzarsi ma invano. Viene portato via in barella in stato di semi-incoscienza. Il cuore si arresta. I membri dello staff cercano disperatamente di rianimarlo col defibrillatore ed in un primissimo momento sembrano avere la meglio. La situazione, purtroppo, degenera rapidamente. I medici all’ospedale non possono far altro che constatare che la futura stella NBA, l’uomo più forte d’America, Hank Gathers insomma, era morto.

La notizia scuote la nazione. Troppo vicina la triste fine di Len Bias, troppo assurda quella morte in campo di un atleta che appariva indistruttibile ma che invece era stato tradito da un cuore malato e non sufficientemente curato a dovere. L’intero ateneo era sotto shock, devastato da una perdita arrivata per di più durante una gara e senza molte avvisaglie, se non quella di alcuni mesi prima. Kimble era forse la persona più sconvolta di tutte. Aveva perso un amico che conosceva da tanto tempo e lo aveva visto andarsene via sotto i propri occhi ed in quella maniera.

Nel seguente Torneo NCAA, LMU cercò di dare tutta sé stessa per onorare al meglio la memoria del povero Gathers. Kimble, in particolare, si rese protagonista di un gesto che commosse l’America intera. Lui, destro naturale, decise di rendere omaggio ad Hank, mancino, tirando il primo libero di ogni partita con la mano sinistra, senza sbagliarne ovviamente nemmeno uno. Ed anche se la corsa di Loyola si arrestò alle Elite Eight, miglior risultato di sempre nella storia dell’Ateneo, la vicenda di Bo ed Hank rimase indelebile nelle menti degli appassionati.

Kimble giocò un paio di anni nella NBA, senza lasciare il segno prima a Los Angeles, sponda Clippers, e poi ai Knicks. Anche coach Westhead tornò nella Lega, alla guida dei Denver Nuggets, conducendoli a due anni alquanto mediocri e con uno scriteriato run&gun che li portò, sistematicamente, ad avere la peggiore difesa mai vista, forse, nella storia NBA. Per entrambi, di fatto, quegli anni a LMU erano stati il vero e proprio canto del cigno.

Non sappiamo come si sarebbe evoluta la carriera di Hank Gathers. Magari una versione mini e light di Barkley, in grado di dominare nelle aree NBA. O magari sarebbe stato un onesto mestierante, senza picchi eccelsi e con una carriera da medioman per una decina di anni. Purtroppo tutte queste rimarranno solo ipotesi su di un futuro che non c’è mai stato e mai ci sarà, testimoni di una storia che, chissà, con un diverso livello di attenzione prestato a quel grave problema avrebbe avuto risvolti decisamente meno tragici. Per tutti, Hank, a dispetto di quei drammatici ultimi secondi di vita, rimarrà l’uomo più forte d’America, il prodigio che faceva tremare i propri avversari diretti, dominandoli sin dalla palla a due.

Alessandro Scuto

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